Inutile, un libro inutile, che non ha significato e completamente privo di qualsiasi interesse per chiunque sia andato oltre la lettura degli Harmony: una storia traballante dove i personaggi recitano la loro parte come marionette ubriache e confuse, cristallizzate nei loro ruoli senza il barlume di una consequenzialità nelle loro azioni.

Matilde, una ragazzina clamorosamente border-line che alla fine imbraccia un fucile per uccidere il fastidioso cane.
Augusto Griot, un burbero montagnino che scoprendo l’aspirante omicida decide di non parlarne con il genitore perché “Era uno che non s’immischiava, lui”.
Pietro Serra, rampante imprenditore che da sei mesi intrattiene fuori città una relazione adulterina, ma che nonostante sappia di non voler abbandonare la moglie, ha costruito un nido d’amore con la dolcissima e arrendevole casalinga romana.
Claudia, l’amante che si scoprirà non essere poi così remissiva e paziente: sarà lei a telefonare alla rivale e provocare la tragedia familiare.
Irene, la moglie tradita, muta come un pesce di fronte alla tragedia (il figlio di tre anni cade dal balcone mentre lei riceve la telefonata dell’amante del coniuge) tanto da farsi dare delle “stronza” dal tenero e comprensivo maritino.
Violaine Griot, ex-campionessa di sci imprestata alla questura dopo la laurea in psicologia, che con rara sagacia degna di 4 anni di università indaga per conto suo e racconta al collega infido le sue scoperte, facendosi così esautorare dal caso.
Il collega infido che la denuncia all’inquirente dott. Giovanni Corrias (che nel frattempo ha perduto la moglie investita da un Pick-Up).
Il vicequestore, abbandonato dalla moglie dopo 30 anni di convivenza, che decide di bussare alla porta della moglie per un caffè.
Le due sorelle di Matilde (figlie di Corrias) rimaste orfane di madre vivono in un’atmosfera surreale con piccole punte di infelicità.
E molti altri personaggi altrettanto insulsi che noiosamente trascinano la loro vita, costretti a partecipare ad un unico racconto del tutto incredibile.

Le domande che sorgono spontanee quando – faticosamente – si giunge a pagina 254 sono molteplici:
1) perché riempire di banalità tutti quei fogli quando con meno della metà delle parole buttate lì alla vai-così-che-vai-bene si sarebbe potuto realizzare un romanzo un po’ meno disorganico?
2) perché arruffare il racconto con varie voci quando ne sarebbe bastata una narrante, ordinata, logica (ma nello stesso tempo partecipe) per portare il lettore in un percorso un po’ meno aggrovigliato e sconnesso?
3) perché usare una punteggiatura letteralmente incomprensibile, segno manifesto non di ricercatezza e sperimentazione linguistica bensì di mera ignoranza? Mettere sul mercato un libro senza editing (in poche ore si sarebbe potuto evitare l’impressione che virgole, virgolette, punti e virgole, trattini fossero stati raccolti in uno shaker, mischiati e gettati sul foglio in modo del tutto casuale) è operazione suicida, soprattutto per la casa editrice.
4) Perché pubblicare un libro in cui non c’è la traccia di un solo personaggio degno di un qualsiasi rilievo: la banalità delle numerose personalità senza forza – nonostante ognuno di loro sia aggredito dalla propria tragedia – fa supporre che l’autrice non sappia dare spessore ai suoi protagonisti e che questi, una volta messi sul foglio, scappino a destra e sinistra alla ricerca di una soluzione personale senza preoccuparsi di quello che succede attorno.
5) perché offrire al lettore la monotonia di un paesaggio invernale dove il dilungarsi di descrizioni marginali e di dialoghi insignificanti (nonché prosaici) sembra derivare dalla misera esigenza di riempire le pagine, quindi avallare il prezzo del volume.

Il panorama della narrativa italiana non è un granché, lo sappiamo tutti.
La nascita però di questo “fenomeno letterario” fa veramente cascare le braccia: che l’autrice sia stata gratificata del premio Campiello 2008 non stupisce (evidentemente toccava alla casa editrice di Rossovermiglio), ma che si cerchi di fare apparire un testo del genere degno di un qualche rilievo è davvero imbarazzante.

Dove sono i personaggi come Anna Karenina, Madame Bovary, Natasha o anche Rossella O’Hara piene di forza vitale anche quando imboccano la via senza ritorno, sopraffatte dal dolore? Dove si nascondono Gargantua e Pantagruel? E Don Chisciotte? E Nikolaj Stavrogin? E Mattia Pascal?
Possibile che siamo caduti in un buco nero letterario di queste proporzioni da cui solo piccoli personaggiucoli privi di un’identità definita emergano per popolare romanzi imposti dall’industria editoriale come degni di attenzione?

Excalibur
Dicembre 2010

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