“SPALANCATI SPAZI” di Claudio Pozzani
Passigli Editore, Firenze, 2017

 

Questo libro è un’antologia che racchiude dei testi scritti tra il 1995 e il 2006. Ma non c’è differenza: tutto scorre come fosse lo stesso libro, scritto ieri. L’opera di Pozzani è compiuta e definita sin dall’inizio. Una vera anomalia, dal mio punto di vista, che però spiega la natura specifica di questo poeta. Un poeta che, come ha scritto bene Roberto Mussapi nella sua introduzione, ha “una forte percezione della vita”. E se uno vive pienamente, vive tutto e subito sin dall’inizio. Come certi musicisti, come certi narratori. E Pozzani è tale sin da subito, forse perché è anche musicista ed anche narratore –poeta insieme. I suoi versi sono canzoni, nel senso più alto, sono pezzi di scrittura nati per essere letti in pubblico, condivisi; la sua poesia è una “ripresa in soggettiva” della vita eliminando però da questa visione ogni forma di banale elegia per andare al sodo delle cose. Mussapi parla di Whitman e Dylan Thomas come Dioscuri del nostro poeta, io ci aggiungerei, in primo piano, l’altro Dylan, Bob.

Dire che non c’è elegia non vuol dire ovviamente che non ci sia lirismo o autobiografismo nei suoi testi. La poesia che apre la raccolta è perfetta in questo senso. “A mia madre” è una porta che si pare sulla vita, è il manifesto poetico di Pozzani che mostra coerentemente la sua natura. “Ti ho visto in faccia in quella stanza/io sporco di sangue e muco/ tu stravolta e curiosa./ Ho tentato di dirti che non ero sicuro/ di voler restare fuori di te/…ti ho visto in faccia in quella stanza/ e darei tutto quello che ho per ricordarmene.”

Questi sono i versi che aprono e chiudono la poesia, che coinvolge per il suo ritmo musicale, che crea uno straniamento dovuto alla evidente visione soggettiva (in senso cinematografico) della situazione, c’è ironia e un colpo di scena finale, c’è tutto Pozzani, appunto. E l’approccio continua nella seconda poesia “Breaking news” dove si aggiunge il senso dolente di una tragedia, appena resa meno drammatica proprio dalle modalità narrative e poetiche di Pozzani: “non accedere la TV,/amore mio/ finisci di bere quel calice per me/ per quel brindisi che domattina/ saprai diventato per sempre impossibile”… “pensavo di vivere abbastanza/per farti felice/ è bastato appena un brivido di terra/per scardinarmi il fiato./Quanto futuro sprecato”.

Pozzani intaglia nel ferro, disegna sulla pietra le sue storie che diventano poesia ritmica come accade in “La marcia dell’ombra” dove appunto il senso musicale è la chiave di tutto, dove il poeta parla dall’interno del soggetto e dell’oggetto che ha scelto e inquadrato e poi lo libera in una forma sonora che diventa sound, identità nuova da portarsi dentro. ”E’ ombra.. ombra…/E’ un battito di ciglia ancora/”, oppure in “Armenia Blues” dove il verso breve quasi sincopato accentua l’atmosfera dolente e trascinata propria del blues. La sua natura di performer viene fuori, ma in questi blues che dilagano, la poesia resta al centro della scena. In “Sono” ne abbiamo un bell’esempio: “Sono l’onda animala che porta via asciugamani/ e radioline/ sono il malinteso che fa litigare/Sono il diavolo che ha schivato il calamaio di Lutero/ sono la pellicola che si strappa sul più bello//Io sono l’escluso, l’outsider/un chiodo nel cervello”. Di nuovo in soggettiva, di nuovo il ritmo accattivante che canta e si aggiunge l’amarezza, l’attenzione per ciò che resta ai margini. Il tono è più intimo poi in “Ai miei genitori” e in “La donna dalle lacrime dolci”, poi in “Aperitivo in centro” ballate nostalgiche, visioni apparentemente semplici, ma perfettamente studiate e calibrate. Poi in “Ho vomitato l’anima” riprende a battere il tempo ciò che spinge Pozzani a scrivere, ovvero la musica.

Costruito come una raccolta musicale, questa compilation poetica vira più volte verso una dimensione strutturalmente “musicale” non solo per i giochi di parole, le assonanze, le rime, ma proprio per l’architettura dei testi. E così la misura dei testi si fa lunga, narrativa, visiva. Visionarietà che emerge in “Vengo a portarti una poesia di Neruda” oppure in “Palingenesi” dove una cascata di parole e di immagini, di metafore gronda dalle pagine di Pozzani: “Nelle orbite vuote/nidificheranno avvoltoi e vendette//la mia lingua diventerà un’agave spinosa/persino il mio cavallo ha uno sguardo gelido/da gatto scalciato per la strada/non vede l’ora di fare la strada al contrario…” In “Non so se il mare” Pozzani ci dà poi un altro esempio della sua capacità di narrare storie in poesia appoggiandosi alla sua musicalità, alla sua capacità di creare metafore, figlie della sua vivida fantasia “i granchi sono stanchi ormai/dei cadaveri di grida lontane/ammassati davanti/alle loro tane in discesa” senza perdere di vista l’afflato etico “Sugli scogli le persone/hanno lasciato la loro parte migliore/bucce d’anguria/cartacce/mozziconi”.

Questo tipo di stile lo troviamo anche in “Prosopagnosia” in cui la sua vocazione musicale è potente, dove Pozzani cerca il ritornello che possa restare impresso nella mente lasciando fluire ancora con cura ritmica parole, suoni e sonorità: “A volte non riconosco i volti/cerco a fatica dove li ho sepolti/penso veloce a dove li ho accolti/se han dato problemi o me li hanno risolti/.” E’ un linguaggio diretto, semplice, ma efficace, che comunica senza mezzi termini. E questa sua sincerità viene fuori con forza nella bella “Liberatemi”: “Liberatemi dalla vostra ipocrisia/dal voler vivere vite non vostre” e qui il bersaglio sono gli stessi poeti. Quelli finti dai “patetici versi”, quelli affascinati da “bimbi, gattini e cagnetti”, quelli pseudo trasgressivi immersi in “installazioni/mucchi di stracci infarciti di neon”, ma Pozzani attacca anche i “profeti-di-slam, rap, dark”, i “poeti maledetti” e tutti sono “solo chiacchere e d’istintivo non avete niente”.

Insomma Pozzani, che pure organizza un importante e variegato Festival della Poesia a Genova ogni anno, qui prende le distanze da tanta poesia d’occasione, superficiale, dal ron-ron insopportabile della poesia italiana. Pozzani è per una poesia “vera”, diretta, non per la poesia costruita o mascherata. E ama appunto la sua città, Genova cui dedica sul finale del libro la poesia “Genova,saudade e spleen” dove il titolo, forse un po’ scontato, ma certamente evocativo ci immerge in una dimensione che ricorda Caproni, ma che guarda al presente: “Genova dalle spore di mare/Abbiamo salsedine anche nel cuore/abbiamo salite e discese/…Genova ronzio di mosche/che sfuggono ai pugni sulla tovaglia/ai cerchi di vino e alle briciole stanche…”.

Poeta che ama la vita, dicevamo, poeta che danza e propone la danza come un gesto gratuito (si veda appunto la poesia “Danzo”) in questo pathos vitale che permea tutta la sua opera. E noi siamo contenti di ritrovarlo lì, dritto sul palco con la sua figura alta e sicura di sé raccontarci ancora le sue storie imprevedibili.

Stefano Vitale

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Note sull’Autore
Poeta, narratore e musicista, Claudio Pozzani è nato a Genova nel 1961.
Le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre 10 Paesi e sono comparse in importanti antologie e riviste di poesia internazionale contemporanea. Ha creato nel 1995 e dirige tuttora il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole spalancate”.
Altri eventi ideati e organizzati da Claudio Pozzani sono la Semaine Poétique di Parigi, BruggePoésie, l’Helsinki Runo Festival, Musik&Poesie Munchen in Germania e l’Euro-Japanese Tokyo Poetry Festival in Giappone. Nel 2001 ha creato la Stanza della Poesia sita a Palazzo Ducale a Genova.

Tra le sue opere più recenti: il libro-CD La marcia dell’ombra (CVTrecords, 2010), il saggio L’orlo del fastidio – Appunti per una rivoluzione tascabile e infettiva (Liberodiscrivere, 2017) e l’antologia Spalancati spazi – Poesie 1995-2016 (Passigli, 2017).

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