“Tra un niente e una menzogna” di Nicola Romano
(Passigli Editori, Bagno a Ripoli (Fi), 2020)

…..“Tra un niente e una menzogna” è un lungo respiro, una sorta di poema dell’esistenza così come la sente Nicola Romano. Non si tratta di un diario, ma di un viaggio sensoriale attraverso i fenomeni dell’esistenza segnati dalla memoria di contraddizioni, desideri e delusioni. La voce del poeta ci arriva sommessa, ma sempre elegante e raffinata, figlia di “un’antiepica del quotidiano” (Roberto Deidier) pur radicata proprio nell’incontro con la quotidianità (meraviglia dei paradossi dei poeti, per di più siciliani) che cerca, e trova una dimensione lirica sublimante. La poesia di Romano, in questo libro, per certi aspetti va oltre il suo precedente “D’un continuo trambusto” (2018) e mi pare che il poeta, pur conservando tutte le sue caratteristiche, tenda sempre più a circoscrivere il suo universo poematico, almeno per quel che riguarda i temi.

…..Resta vivo e chiaro il continuo passaggio da situazioni in cui dominano forme di impressionismo intimistico ad altre segnate da riflessioni autobiografiche, così come è attivo il motore della riflessione etico-esistenziale che sostiene il poeta nella difesa della poesia come spazio protetto dell’espressione di sé, di un mondo “altro”, nobile per molti aspetti, che non si confonde con la volgarità della chiacchiera, direbbe Heidegger. La poesia di Nicola Romano appare, per così dire, inattuale nella sua alta forma novecentesca eppure così misurata e ricca, così carica di pathos e di autenticità.

…..Dicevo della prospettiva poetica sempre più circoscritta: intendo dire che Romano ci offre una poesia sempre più essenzialmente centrata sul proprio oggetto metapoetico che è la ricerca della verità. Non di una verità assoluta, che il poeta rifugge e sa irraggiungibile e impossibile, ma di una verità concreta, magari rinchiusa nelle piccole cose, nei sentimenti e nelle emozioni, ma soprattutto testimoniata dalla postura etica dello sguardo filtrato dalla forza espressiva, magari dolente e disillusa, della poesia. In questo modo alla maggiore concentrazione poetica corrisponde, altro paradosso poetico, un ampliamento dei temi che, pur muovendo dall’osservazione di sé e del mondo esterno, vanno oltre le occasioni e abbracciano invece arcitemi quali la morte, l’amore, il dubbio, la nostalgia, il desiderio, così come ha ben notato Elio Pecora nella sua prefazione.

…..Ma Romano sa alternare i toni: non si tratta di una poesia cupa, tormentata, di una poesia noiosamente negativa. Romano sa essere, come detto, ironico, tagliente; sa cogliere illuminazioni improvvise, individuare immagini e offrire metafore insolite. Tutto sempre fatto con il nobile passo del flaneur che sa anche ridere, sommessamente, di sé. Così la poesia di Nicola Romano crea uno spazio protetto nella poesie e con la poesia, dicevamo, dagli assalti del negativo proprio perché l’affronta e non affonda. Ricchezza di lessico, immagini, strutture formali pur nella sobrietà delle linee architettoniche e nel fraseggio poetico: queste le sue qualità formali ed espressive.

…..Su questo versante, come ha notato bene Franca Alaimo questo libro ”… registra lemmi inusuali provenienti dal gergo marinaresco, scientifico o tecnico, o mentre s’imbatte in un hàpax dantesco (Convivio, II 1), quale “impinta”, o in parole rare, che fanno arretrare il tempo fino alla medioevalità; o  in dialettismi ormai colti, se si pensa all’operazione linguistica attuata da un autore come Camilleri, se non addirittura in neologismi, quali “indormiente”, “promittenze” e un sensualissimo “saporavamo”.
(
Franca Alaimo, in “Poetarum silva”)

…..Su questo tessuto poetico, Nicola Romano innesta un dato essenziale e fondante: la sua sicilianità. Ciò fa sì che le poesie di questo libro si alimentino di contrastanti luci e ombre, di intensi passaggi affettuosi e malinconici abbandoni, di ironia esaltante e di sarcasmo amaro. Noi siciliani non siamo mai veramente soddisfatti, sempre guardiamo altrove, sempre resta sul fondo di ogni nostra gioia il rammarico per il non detto, per il non vissuto. Certo siamo adattabili, pur conservando il senso estremo di una visione etica. Ma per noi le cose possono sempre andare in un altro modo, per noi la smania di felicità si mescola inevitabilmente con la nostalgia, benché talvolta non si conosca bene quale sia l’oggetto della nostra nostalgia. Persino di fronte al destino, alla necessità cerchiamo di sottrarci, di trovare una via d’uscita, magari nel silenzio, nell’immobilità e così lo accettiamo.

…..Il titolo è programmatico “Tra un niente e una menzogna”: la parola della poesia è pirandellianamente in bilico tra il niente e la menzogna, come lo è la nostra stessa vita. C’è un senso di teatralità discreta quanto consapevole in questi versi in cui il pensiero e l’emozione si mescolano sapientemente. La vita ha bisogno di maschere, ma le maschere uccidono la vita e allora la poesia cerca la vita mettendosi la maschera della letteratura, mediando il contrasto con la nobiltà della lingua. Noi viviamo in un gioco di specchi: le poesie di Romano divengono così una forma di riflessione meditativa sulla precarietà dell’esistenza e sulla forza fragile della parola. Egli affronta il vuoto, la noia, ma la sua è poesia che conosce il senso creativo dello spleen baudelariano, poesia che si misura anche con il presente, con le sue nevrosi e le sue banalità, ma che sa cogliere negli attimi inconsapevoli del vivere le profonde altezze della meditazione filosofica, sempre però filtrata da cura letteraria e stile degni di nota.

…..Altro motore dell’azione poetica è così la contraddizione tra l’urgenza del dire, del prendere poeticamente posizione e la cognizione del dolore che rende inutile tutto ciò. E questo è di nuovo molto mediterraneo. La parola dà vita alle cose, nasce dal silenzio, apre gli abissi della memoria, rinnova il piacere di un’amicizia, ma al tempo stesso la parola ci obbliga alla coscienza del nostro nulla. Certo resta il cielo da guardare, resta la vita da assaporare goccia a goccia nelle piccole cose e nei grandi pensieri che possiamo sentire, ma amaramente il poeta dice “sono il setaccio di tutto ciò che ho perso” appena trattenuto, appunto, dall’imbuto della poesia.
Le due citazioni in esergo chiudono il cerchio proprio nell’istante in cui lo aprono: “Niente è più reale del niente” (Samuel Beckett) e “La menzogna non è nei discorsi, è nelle cose” (Italo Calvino). Beckett con la sua “filosofia negativa”, come ebbe a dire Adorno, ci apre alla luce di un’utopia nascosta che non può essere scambiata coi lucori dell’apparenza, sia essa quella dell’industria culturale o delle opere d’arte in linea col potere: il bene può essere additato solo attraverso il suo negativo.
Italo Calvino, da parte sua, con la sua lucidità illuminista (che rappresenta una dei grandi appuntamenti storico-culturali mancati della cultura siciliana e che pure la sostiene l’alimenta e qui penso a De Robertis, a Sciascia e al miglior Camilleri narratore) si affidava alla forza della letteratura quale chiave di lettura del mondo, consapevole della necessità della “menzogna” apparente della scrittura che diviene forma di verità proprio perché soggettiva (si pensi ai meravigliosi esiti “poetici” di Palomar). Calvino sosteneva che è autentico il punto di vista della letteratura su un mondo che è falso quando pretende la verità come dato di fatto oggettivo.
Nicola Romano sta dentro, secondo me, questo universo complesso che lega la tradizione novecentesca di Montale alla sua sicilianità, che lo collega a Borges, a Sandro Penna, a Lucio Piccolo e talvolta a Camillo Sbarbaro, e certamente, più vicino a noi, ad Elio Pecora (penso a “Rifrazioni” del 2018) rileggendo a suo modo alcuni dei grandi temi culturali del novecento e del presente.

…..Dicevamo inizialmente che il libro è come un lungo poderoso respiro. E infatti si snoda in una unica sezione che gli dà il titolo: come a voler sottolineare una compattezza tematica e stilistica, come a voler dire che queste poesie sono come tante sottili variazioni su un tema. Variazioni non in senso barocco, ovvero come abbellimenti, ma in senso beethoveniano cioè come sviluppo ulteriore, forma di approfondimento formale, costruttivo, sonoro, emotivo. Pertanto i titoli dei testi, perché tutte le poesie hanno un titolo (e ciò è indicativo di uno stile e di una cultura poetica precisa, antimoderna per così dire), sono come tante stelle di una grande costellazione, stelle chiuse in se stesse, da un lato, ma che trovano una ragione più ampia proprio nell’insieme. Amicizie perdute, i ricordi, echi, un battito di ciglia, intrecci, disconnessi e soli, senza una meta, querulanti, stasi, piano inclinato, percezioni, erba amara, crome, desiderio, evanescenza, maestosità, penitenza… sono titoli come evocazioni, stazioni di un percorso articolato, ma coerentemente illuminato da lampi poetici e immagini molto significative. Eccone alcune:
“ed un lamento scorre fino ai piedi/ se tenera ferita è la tua assenza” (pag. 16); “come dalle risacche/acqua che torna/ arrivano correnti di memorie/ (folate che spalancano/ finestre mal chiuse) (pag. 19); “Per scrivere poesia/ bisogna frequentare il vuoto” (pag. 31); “Un gatto lecca il buio/ e poi scompare” (pag. 42); “ma siamo andati avanti/ timorosi e schietti/ con quel cipiglio/ un po’ meridionale/ a plasmare parole/ coi dialetti del mare” (pag. 55), “E taciturni e immobili restare/ – tra scossoni e fermate -/ come perni di giostra” (pag. 61); “con lo sguardo bovino/ e le mascelle appese/ ad un bicchiere/ covo di voci semplici/” (pag. 72); “gli scrosci di una pausa senza fine” (pag. 85).

…..Questi sono alcuni dei passaggi di questo libro che in effetti si chiude con un’altra inattesa, apparentemente, breve sezione che se ne sta al fondo del fondo con un titolo emblematico “Trilogia d’un tormento” dove troviamo tre poesie dedicate a tre donne: Camille Claudel, Artemisia Gentileschi e Ipazia. Tre donne che per motivi diversi ed in epoche diverse hanno sofferto crudelmente per la loro diversità e per la loro volontà di libertà e di espressione. Versi che escono dal registro dominante del libro, versi che assumono un tono più celebrativo, teatrale, alto come però a volerci dire che il nostro piccolo mondo non basta mai e che ci vuole forza e talento per resistere alla caducità, alla disarmonia del mondo, alla menzogna.

…..Stefano Vitale

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QUEL VAGO

Le porte sbattute dal vento
ribattono un vento di mare:
oscilla nel sonno leggero
la cupa lanterna
tra i muri del cuore
dilaga la polvere e il muschio
continua a patire sui prati
la febbre del tempo peggiore

Chissà tutta intera una vita
se esclude quel tempo migliore
pensato tra ali di canto
e odori rapiti ai verzieri
D’inesauribile attesa
quel vago che trema negli occhi
e non sa che dispiace

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MERAVIGLIA

È bello stare qui
non manca nulla
confabulo col sole
che scalda le finestre
le vie sono un teatro
dove tutto è palese
e quel che busco
è più del necessario
per mantenere lune
sempre accese

D’intorno strappo
cespi di parole
che poi sminuzzo
come vuole il cuore
e a compendio
di tanta meraviglia
accanto a me trattengo
corbezzoli ed aloe

e una valigia piena
per fuggire

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LE POESIE

Per scrivere poesie
bisogna frequentare il vuoto
la durezza dei muri
il farfugliare assurdo
delle chiromanti
e la danza spettrale delle foglie
quando di sguincio batte il maestrale
Disorientarsi
con la schiena piena di vergogne
necessita
e intimorirsi al tuono dell’inverno
piegarsi come giunchi spampinati
sulla pianura rasa dal seccume
e rovistare l’alba disarmata
che s’apre ai pericoli del tempo

Serviranno quei versi
nauseanti come peli sul lavabo
o finiti per caso
nell’umido sparpàglio dei rifiuti
e ad ogni modo
per scrivere poesie
bisogna genuflettere l’anima
ascoltando un album di Endrigo
e lavarsi i capelli
con la residua cenere del mondo

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LUCI DI COSTIERA

Ti ho conosciuta
in un bosco di cicale
eri unita al clangore
rappreso tra i pinastri
(di te l’alta presenza
tagliente e rumorosa
come nenia d’estate)
e diventammo luci di costiera
mentre il sole abbrunato
annientava i colori dell’ibisco
e il vespro
mi spingeva a sorseggiare
nelle mani a conca il tuo respiro

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…..Note sull’Autore
……Nicola Romano è nato nel 1946 a Palermo, dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I faraglioni della mente (Vittorietti, 1983), Amori con la luna (La bottega di Hefesto, 1985, prefazione di Bent Parodi), Tonfi (Il Vertice, 1986), Visibilità discreta (Edizioni del Leone, 1989, prefazione di Lucio Zinna), Estremo niente (Il Messaggio, 1992, nota di Melo Freni), Fescennino per Palermo (Ila Palma, 1993), Questioni d’anima (Bastogi, 1995, prefazione di Aldo Gerbino), Elogio de los labios (Carlos Vitale, 1995), Malva e Linosa (haiku, La Centona, 1996, prefazione di Dante Maffìa), Bagagli smarriti (Scettro del Re, 2000, prefazione di Fabio Scotto), Tocchi e rintocchi (Quaderni di Arenaria, 2003, prefazione di Sebastiano Saglimbeni), Gobba a levante (Pungitopo, 2011, prefazione di Paolo Ruffilli), Voragini ed appigli (Pungitopo, 2016, prefazione di Giorgio Linguaglossa), Birilli (Edizioni dell’Angelo, 2016, con incisione di Girolamo Russo).
…..È curatore della collana di poesie dell’editrice ‘Spazio Cultura’. Suoi testi hanno trovato traduzione in esperanto e su riviste spagnole, irlandesi e romene. Nel 1984 l’Unicef ha adottato un suo testo come poesia ufficiale per una manifestazione sull’infanzia nel mondo.

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