“TUTTO QUESTO” – Poesie 2004 – 2017
di
Maria Luisa Vezzali
(Puntoacapo Editrice, Pasturana (Al), 2017)

 

Maria Luisa Vezzali non ha certo bisogno di presentazioni. E’ una delle nostre poetesse più brave e importanti che dopo dieci anni (nel 2007 aveva pubblicato Lineamadre con Donzelli) ritorna con la sua poesia visionaria e lucida. “Tutto questo” raccoglie poesie che attraversano un lungo arco di tempo, ma lo stile e la struttura dei suoi testi è rimasta coerente si pure proponendo registri diversi, come vedremo.

“Versi di esperienza e di amnesia” (2004) apre le danze. E’ una sarabanda, tempo lento e meditativo, che ci coglie nel gesto di attraversare un confine, dalla realtà alla poesia: “Chini la testa per passare la porta e al di là della soglia/il mondo respira/di visione, un’onda impaziente che trasporta/gli odori/delle case, umidità/ruggine, cenere, benzina, età che turbinano vero il bruno/… grumi di luce che tornano cose di luce in un sorriso/mite sotterraneo”. Il confine è oltrepassato, lo sguardo poetico va alla ricerca delle fondamenta delle cose e di se stesso: “tutto cade nell’imbuto al suono disperso del gallo/ diventa la misura della propria caduta/ il meccanismo della propria struttura/giù verso l’alto/”.

Con questi versi impregnati del gusto del paradosso del’immagine che spiazza, della figura che rompe le pretese della logica, Vezzali si assume la responsabilità di essere poeta consapevole che la poesia cade verso l’alto, cerca nel profondo in un movimento che è “espansione e implosione” al tempo stesso. Non è una dichiarazione di impotenza, al contrario è una affermazione lucida che pone la poesia in una zona dell’essere, dello sguardo che è fragile, ma che le dà una consistenza che altre arti non hanno. Il soggetto poetante è al centro del movimento ascensionale/discensionale, ma non c’è egotismo, non c’è presunzione. C’è l’idea che sia tutti al centro di uno stato delle cose imprevedibili, in cui coesistono drammaticamente gli opposti: “la luce procede verticale/ma nell’impatto irradia dalle mani/…inghiotti dalla tua ebbrezza/la lezione della meraviglia”.

Versi luminosi questi che aprono la porta di una nuova stanza fatta di 6 poesie in cui la poetessa ci accompagna per mostrarci questo mondo contraddittorio. E’ come seguire le peripezie di un eroe che sfida il mondo, che attraversa spazio e tempo, incontra bellezza e orrori. La poesia di Vezzali non è certo narrativa o descrittiva, la poesia resta “linguaggio altro”, ma c’è una sapienza enigmatica nei versi di questo gruppo di poesie, c’è una forza pittorico-rappresentativa espressa con metafore dirompenti e originali che rendono omogeneo questo passaggio.

Le sei poesie hanno titoli precisi di latina classica memoria: “della vittoria” – “della bellezza” – “delle violenza” – dell’amore – “della comprensione” – “della sapienza”. Ognuna meriterebbe una sua esegesi; qui basti dire che il carattere gnomico dei testi si sposa a meraviglia con la luce ruvida del suo stile regalandoci versi molto efficaci. “bellezza è quell’armonia dolcemente /crocefissa nel rilievo dell’onda/ che riconosci come un luogo/ frequentato a lungo un passato/ che non nel tempo/ma sul tetto della piramide/sfinge scava senza fine nel petto/ il pozzo del dono che non fa rumore”.

Come si vede la poesia di Vezzali non rinuncia qui alla musicalità del verso e il lessico non è certo oscuro, ma la sua poesia richiede sempre sforzo, attenzione, concentrazione perché è la materia stessa che lo chiede. “vieni , taglia il vento che tossisce al buio, accendi/il sangue che s’imbarca fischiando verso il danno/quello che può succedere succederà per te/ nelle cose vicine come nelle cose nascoste” (“della violenza”): si noti l’uso sapiente dell’andare a capo, del cambio di tempo e di tono che senza clamore né retorica definiscono il tema della poesia . E si noti la capacità di Vezzali di cogliere il marginale, l’inaspettato in “dell’amore” : “cadi qui/ nel peso che non si può portare dal soli/nella sete che ti percorre la schiena/lasciandole in pegno due binari d’ustione/nel ventre che s’incurva/quando l’audio o dell’esterno si spegne”. L’amore è la “coesione del sangue” certo, ma che nasce da un bisogno, senza veli, senza elegiaci ripari e tutto suona così profondamente umano, vero.

Tutta la poesia di Vezzali ha questa caratteristica di spietata sincerità che però non si trasforma in sado-masochismo dinnanzi alle debolezza umane, proprio di certi poeti più “facili”, più di “vetrina”. In “della comprensione” leggiamo: “sei la saliva nutrente che li bagna/sei la coppa di terra/che li accoglie/prometti quel che c’è da piangere/ sai che frutterà”. Come si vede la sua poesia non è oscura, semplicemente si muove in quel che per sua natura è oscuro e quindi non può sottrarsi alla sfida. La densità del testo, qui non copre la forza, sia pur sommessa, della lirica che trova una sua espressione nell’ultima delle sei poesie considerate. In “della sapienza” troviamo: “…sono anche nord/ sud, oriente/sabato di pane, sono/ calma/sono gola/esposta d’alba/sono/la linea/della tua/ombra”, dove il verso spezzato è come un’indicazione musicale per dare la voce al testo, per marcare le scelte di campo dell’autrice che sempre lascia trasparire in filigrana la sua vocazione civile, la sua attenta presenza nel mondo reale.

Segue, come una sorta di intermezzo, la poesia “password” datata 2009 nel centenario del Manifesto Futurista. Ovviamente è più un pretesto che un commento, ma la Vezzali forse vuole dirci che il futuro industriale, tanto amato ai tempi ed anche oggi, non ci ha riservato solo gioie e agi. Infatti “ogni cosa è assente” “ogni cosa è ferma”“ogni cosa è arresa” e siamo persi da una “vaga solitudine” immersi nelle rovine della modernità, chi ubriaco del “midollo dei padri”, chi costretto ad essere “schiuma a fondo del Mediterraneo”.

La seconda sezione è “Le tre età(2008), tre poesie organizzate come una sorta di poemetto che costruiscono un mantra poetico originale, come sempre, per forza metaforica, dove il canto, il ritmo, il salto linguistico e l’accordo fonetico giocano la loro dialettica, si rincorrono e si ritrovano in un labirinto di versi messi in fila ad arte, come si deve.

Vezzali è brava a tenere insieme slancio ispirato, flusso poetico e controllo razionale dei testi. Non importa di che stia parlando, conta la poesia, l’emozione del verso (“viva come non potrò più comprendere/come non comprendo ma vivo”) , l’aggancio visionario dei passaggi, l’alternarsi di situazioni stabili e prospettive instabili (“pensare ciò che è stato fin qui/ si era chiamato vita/ ed era stato forse un bivacco sotto stelle mobili/…ora esposti alla collera alla fuga/resa pura a un’ombra seconda”) . Il significato emerge dal basso, dal verso, dalla singola parola. Non ci sono sovrastrutture dominanti, ma c’è come una de-realizzazione del pensiero poetico (“il pensiero che non ha un io”) nella sensibilità, sensualità, a volte sinestetica dei testi che rappresentano via via il suo tema che è soggettivo (la crescita, la formazione umana, l’attraversamento delle diverse età, l’arco della vita), ma che diviene universale, condiviso anche quando ci trascina nell’intimo: “una canzone irresistibile/che ritma i gesti guida i colpi/ di martello puoi lavorare/dentro me sono fatta roccia/ duttile preziosa se mi compongo/ con il tuo sudore vedi l’effetto che fa/non c’è vuoto questa è fatica/buona che poi alla notte è subito/dormire”.

Chiude la sezione la poesia “lingua sasso” che immerge il lettore nella dura e drammatica contemporaneità fatta di sangue e dolore dell’immigrazione, dell’esclusione: “la lingua sasso/ che si rotola in bocca/succhiando inarticolati respingimenti”. Ancora una volta Vezzali è brava a cogliere il legame tra la condizione del poeta e la realtà.
La lingua sasso è la sua, la nostra, quella degli extracomunitari feriti a Rosarno o altrove in Italia. E Vezzali sa bene che “le parole possono morire/come gli uomini/ una volta strappato/ il tessuto che le contiene/ aperto il burrone che le fa cadere”. Come spesso accade, il poeta vede prima degli altri le cose: Vezzali anticipa lo stato attuale delle cose che vede avanzare da noi una cultura del razzismo, della violenza che apre un fossato tra “l’uomo bianco (riprendo il titolo del libro di Ezio Mauro) e il “negro”. “L’odore della pelle della mano/che è come una terra d’approdo/all’indietro/ ma tornare indietro/ è difiscile/stare qui /difiscile/ il mio tempo te lo do/la schiena il corpo te lo do…/ma se vuoi sparare spara in cielo/noi non siamo/uccelli” (testo che, nella parte finale, è una citazione letterale da un’intervista fatta a Rosarno nel 2010).

Con “Scuola d’ossa (2011-2017) siamo di fronte ad un altro aspetto della poesia di Maria Luisa Vezzali, introdotto come abbiamo visto dall’ultima poesia della sezione precedente. Vezzali qui ci conduce nel suo mondo di insegnante, di persona attenta all’altrui formazione (si vedano le poesie “Virgilio”, “Gretel”, “Asterione”, “una voce”), ci parla della condizione delle donne (“Istat 2006), ci mostra la sua visione etica e politica delle cose (“Arnaut”, “Comme les Danaides).
Marco Ercolani ha scritto che “questo non è un libro elegiaco”: ciò è vero. In questa sezione tuttavia, malgrado la durezza dei temi, la poesia di Vezzali esprime compassione, riflessione e la lingua, per altro sempre chiara, rallenta il flusso metaforico ed emerge una grazia formale più piana, calma, classica: “il paradiso il maestro non lo sfiora/sfuma giù nel risucchio senza un parola/ o il tempo di un saluto fatto ammodo/ se ci arriva ci arriva l’allievo/ tutto solo circonfuso dal suo amore/ dritto in faccia a sorgente dolcissima luce/che quaggiù ci possiamo solo figurare”. Viene fuori il desiderio di protezione “ma se stai zitta, Margheritina, non si accorgono/ e ti tengo ancora un poco con me”; si sofferma sulla contemplazione dell’adolescenza: “non si misura/ in anni brevi/ in fibre muscolari/l’area d’estensione della gioia/ questo scempio che/ devo/crescere/avere una memoria apprendere/responsabilità da te/putativo/giuridico/lontano…”.

Ed anche quando il tema si fa duro (come in “Istat 2006”) la poesia è dolente e aggraziata, mai pesante o retorica: “ricordo di quando il mondo sembrava/ una casa possibile”; “pioggia grigia di somme e percentuali/la li fa che impietrisce in disistima/ la carme aperta sotto/le labbra livide dei riflettori”; “mosto osceno di tra il corpo e il pensiero/che questo fondo muto finché dura/ nega tutte e bocche della terra”. Molto bella in questo senso anche la poesia “ex Merlani”: “nella grazia fallita della città/su tutta questa faccenda del suolo/che è crepe di asfalto, del sangue/estenuazione sorda del ricordo/ e siete venuti dalla sabbia usta/nel’intermittenza del mondo… che siete venuti dal mare avvoltoio/avvolti in carta di giornale/ in papiri strappati di alte rotte… ho io solo voglia di sguardi/solo voglia di danza dei ginocchi/ in questo inverno torpido di serra/…sulla mano che gronda acqua ristagna/inchiostro inceppato sui perduti/ quell’odore di scuola, di casa che è/tutto intorno al pericolo/la calce buona del futuro”.

Quindi una visione sempre attenta alle contraddizioni, alle dissonanze, ma che lascia spazio “all’amore che libera” che certo anche “non libera/ che promette non promette si scambia”, un “severo amore/ sempre scontento di noi”, ma che ci resta “sempre accanto/ sempre tra le crepe/ennesimo scatto/ennesima larva d’altro/ quindi scattiamo/ennesimo fosforìo/d’aria/allora ardiamo”.

Chiude la sezione, come in una sonata in stile francese, il ritorno circolare sul tema civile, espresso magnificamente dalla poesia “richiami e risposte” in cui l’autrice dialoga a distanza con poeta palestinese Ashraf Fayad (tradotti dalla stessa Vezzali dall’inglese). Qui la poesia cerca una purezza fatta di immagini, flessioni e melanconici passi che tengono ferma tuttavia la barra della navigazione sulla rotta della lucida analisi civile di una condizione umana contemporanea a universale al tempo stesso: “la partenza estrema e nera che accerchia tutte le certezze/ nel cono di tenebra, nel gomito della storia/riconoscersi soglia d’accoglienza a qualsiasi clima/… la porta del dolore si apre si chiude scricchiola ancora/diecimila volte ripete i tuo nome insieme ai nomi perduto/ perduto l’uomo, rimasto l’estremo ritmo del silenzio/”.

Il libro si conclude con tredici “Cartoline metafisiche” (dodici più una). Le “Cartoline” portano come epigrafi, esclusa l’ultima, brani dalla Metafisica aristotelica, e “commentano” quali poèmes en proses le tormentate vicissitudini di un corpo invecchiato, guasto, sofferente: «Vedimi la bellezza sulle unghie infangate, le amnesie, le afasie, le acidosi, il roco della voce che non taglia, la stanchezza del campo dove nessun germoglio. Vedimi. Altrimenti cos’hai gli occhi a fare». La voce di Vezzali si fa più aspra,irrequieta, parla dei luoghi dell’anima: «I nostri luoghi, continuamente rimodellati, guastati, alienabili». Vezzali esprime il suo disincanto con chiarezza e ruvida lingua, attraversando nell’immaginario della poesia notturna che qui la segna, paesaggi malinconici: «Ma se non si guarda, batte l’alito del vento alle nostre porte inutili e vicino molto vicino anche risa si attorcigliano ai margini fragili dei giardini, Allora, apri almeno, guarda. Fissa cieca finché c’è buio».

Ma la nostra poetessa ci vede benissimo e chiude cocciuta e consapevole “nel corrugamento, insisti, sena mai aver dato indizio di condividere una simile tortura, si fissurano le orme irrequiete della nostra astrusa fedeltà”. Alla poesia, al mondo, malgrado tutto.

Stefano Vitale

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Note sull’Autrice
Maria Luisa Vezzali (Bologna, 1964) docente di materie letterarie nella scuola superiore, è traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Crocetti, 2000 e La guida del labirinto, Crocetti, 2011) e di Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Donzelli, 2006).
In poesia ha pubblicato L’altra eternità , Edizioni del Laboratorio, 1987), Eleusi marina (in Terzo quaderno italiano, 1992), lineamadre (Donzelli 2007 – Premio Anterem/Montano), Forme implicite (Allemandi, 2011).
Fa parte della redazione de “Le voci della luna” e del collettivo di traduttrici WIT (Women in Translation).

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