“VEDERE AL BUIO” di Mauro Ferrari
(Edizioni Puntoacapo, 2017)
“Vedere al buio” è il nuovo libro di Mauro Ferrari, poeta-editore attivissimo, ma parco nel pubblicare le proprie cose. Come sovente ripete, lui scrive lentamente e questa raccolta segue “Il bene della vista” pubblicato nel 2006.
Il titolo riprende tremi e paesaggi già esplorati da Ferrari, ma in questo libro c’è come una sorta di calma maturità e distanza che accoglie il lettore. Non che il poeta non senta più sulla sua viva carne le difficoltà dell’esistere, dell’essere-al-mondo e tutto il testo è una metafora del nostro procedere senza certezze, muovendo da quel che siamo diventati, segnati dalle ferite della vita e dei nostri ricordi. Ma la posizione che Ferrari assume è di dignitosa e salda lucidità. Un po’ come diceva Ingeborg Bachmann “la vera forza sta nello smettere”. Così Ferrari non si abbandona a lamenti o facili lirismi e forte di un’etica consapevole della vanità delle cose, cerca di coltivare anticorpi e difese. Leggendo il libro ho ritrovato, mutatis mutandis, una dimensione di classicità (in senso culturale ed etico, appunto) che cerca nella poesia, nella letteratura una via d’uscita. La poesia non cambierà il mondo, ma può aprirci gli occhi su alcune questioni essenziali.
Il libro si apre così con versi eloquenti, quasi programmatici: “delle ferite, di tagli e abrasioni / declinati all’infinito/ che vale parlare: se è qui, / in mano il ferro ancora rosso/ che marchiato troppi dei suoi giorni “. Al poeta interessa iniziare il viaggio seguendo “la persistenza delle lacerazioni/ sotto il velo pietoso delle cicatrici” esprimendo il senso delle precarietà del presente: “Ombre …./ ferro che marcisce/ cosa resta fra le mani”. Anche gli affetti sono fragili. In “Nipoti” leggiamo “Svaniranno –/ Lenti come foto infracidite…”
E’ il senso del tempo che ci sovrasta nel ricordo “sempre più ingombrante”; è lo svanire (verbo che torna sovente nei testi) dei legami, degli affetti, la paura del buio esistenziale che ossessiona l’apertura del libro.
Nella poesia “Questo” leggiamo: Il suo pattume è il mondo: / le cose maneggiate, i ricordi /che ingombrano i cassetti/ e la mente di catene…/ liberarsi da questo peso?” E in “Perdite”:
(ma poi lo sai, tu già conosci
questo parlare che d’un tratto
svanisce…
Tu già conosci la sensazione
di avere detto tutto
ancora prima di parlare,
avendo detto nulla; e dunque.)
Anche la lingua gira in tondo e sembra non esserci via d’uscita. Ma ecco che arriva qualcosa di nuovo, la sorpresa, qualcosa di buono c’è. Nella poesia “L’essenza e l’essenziale” Ferrari scrive:
”da lontananze impensate/ giungevi a completare l’opera, / sicuramente tu/ da oltre ogni /immaginabile cornice”.
Forse è l’amore, forse un figlio… sembra quasi che il poeta ci voglia tenere in ansia, ci voglia introdurre alla sua materia poco a poco, a piccoli passi. L’orizzonte infatti resta scuro, carico di nuvole. Come accade in una serie di frammenti dal titolo “Quattro reperti dopo la fine…”. Versi smozzicati, schegge provenienti da un tempo remoto, quasi nello stile dei lirici greci, poesia che balbetta, da completare con ipotesi linguistiche, tematiche.. serie che si conclude con la poesia che dice “niente, non abbiamo niente”:/ così alla porta retro/ socchiusa del ristorante/ la mite signora al disgraziato/ sepolto nel cappotto grigio. / e c’era freddo e nebbia/ un angolo di mondo/ piano si scollava o veniva strappato. /Niente, non abbiamo mente”. Versi significativi che rimandano a Giorgio Caproni, per certi aspetti a Fabio Pusterla.
Lo stile è sempre chiaro, lucido, imperlato di alcuni preziosismi lessicali soprattutto nell’uso dei verbi (sgronda, campire) e alternando toni alti con toni più bassi in un ritmo ormai consolidato proprio della poesia contemporanea. Ferrari inoltre alterna nei suoi versi l’uso di parentesi, specialmente per chiudere le poesie: è come se nel testo si aprisse una botola dentro la quale stanno nascosti altri significati, talvolta a chiarire, altre volte a deviare; come se dietro o dentro al quadro si celassero altri elementi che sostengono ciò che appare. Così il testo “emerge in altro luogo” come sosteneva il pittore Franz Marc aggiungendo un surplus di senso.
Altre volte i versi tra parentesi sono come una voce fuori campo, una glossa che, senza ridondanze, illumina il testo aprendolo tuttavia in altre direzione poetiche sempre però integrate a quel testo.
Ma tornando appunto al testo, dopo questa prima sezione, il passo poetico-narrativo cambia nella successiva “Vita da cortile”. Qui il poeta si pone dal punto di vista degli animali che egli osserva riprendendo un topos letterario classico. Qui il testo si fa gioco di ruoli, gioco linguistico, assumendo un tono sapienziale, ironico. Ma che non si sgancia dal pensiero dominante del racconto poetico della solitudine in un mondo fangoso (Tacchino) fatto di ombre, un mondo casuale (Oca); uno spazio popolato da sguardi fissi (Galline); caratterizzato da lente derive ed errori (Lucertole) oppure dal tentativo di fiutare l’ignoto sapendo però dove trovare le cose amate “che, scusate,/non ho intenzione di portare in superficie” (Cane) perché ci dice il poeta, “un giorno tutto verrà alla luce,/ nel suo splendore e nella sua miseria”.
C’è un senso quasi religioso meta-poetico in questa parte del libro che pone sul tavolo una sorta di separazione tra il mondo così com’è e il mondo che verrà, un mondo che, sia pure con cautela, appare in una luce quasi messianica. Non è un caso che questa sezione si chiuda con la poesia “Soffione” simbolo di vita breve (“Abbiamo colpa d’esser nati in questo vento”), evanescente, che svanisce (e torna questo verbo) ma che si assume la responsabilità etica di esprimere una domanda fondamentale: “Chiediamo una ragione a terra e acqua/ il nostro mondo; ed esigiamo una risposta”.
La risposta arriva nella sezione “Vedere al buio” che dà il titolo all’opera. Il vedere rinvia subito ad una visione, quella dell’uragano e qui la lingua si fa alta, epica quasi avvolgendo la poesia d’un senso e un tono profetico e teatrale. Sembra quasi che a Ferrari interessi appunto una messa in scena, una drammaturgia che si esprime in un canto dolente giocato tra un poeta-solista ed un coro degli umani. Ferrari ha parlato, in altri suoi interventi, del “poeta-giardiniere” ovvero di persona mite che coltiva la parola. Qui invece assume un ruolo diverso di poeta-veggente che si sforza di vedere al buio appunto, che mette in guardia gli umani, che assume una posizione etica e gnoseologica altra.
“Com’era quell’attimo, / il millennio mentale di orrore?/ questo interessa al pubblico;/ mentre gli occhi erano sferzati dal vento/ e i corpi spazzati via:/ ha parole per dirlo?” e ancora oltre “sono la voce muta del tempo/ sottoterra, l’urlo di una geologia incessante… questo mi assorbe totalmente./ Non ho annotano nulla di ciò che dite”.
E’ come se la poesia cercasse disperatamente di trovare le parole giuste per dire l’orrore (storico, morale, esistenziale) che stiamo attraversando, ma è questa sua impotenza a divenire la sua stessa forza. Perché è la poesia che può dire “L’ultima pioggia ha ripulito l’aria/illimpidendo i pozzi./Scrutiamo il loro fondo – nostro futuro”. Come Tiresia, il poeta “vede al buio” e vede la confusione banale “di colori e suoni, o poco più”, vede il nostro bramare “una forma, una radice, una salda liana” lasciando che la Storia “ci ricami pure” sopra.
La poesia si pone in qualche modo fuori dal tempo, in una dimensione spirituale sub specie aeternitatis proprio perché consapevole, paradossalmente, dello svanire delle cose, della nostra feconda solitudine “soli nel vento. Come un barattolo vuoto”. A questa consapevolezza si contrappone la logica del calcolo, la mentalità comune del dare-avere, del vero vuoto fatto di ipocrisia e vanità che permea la nostra società. In questo senso la poesia di Ferrari diventa “civile”, attenta ai mali della contemporaneità (che può essere letta come la contemporaneità di sempre). “Si devono calcolare i costi/ con precisione. E questo/ – un braccio che spunta dalle macerie- / è indecidibile: un costo/ ma anche un risparmio/ introiti svaniti…”. Riecheggiano qui metaforicamente i dialoghi allucinanti di chi ad esempio ha di recente speculato sui tragici terremoti che hanno colpito l’Italia.
“Brancoliamo rotte ignote” ci dice Ferrari ed anche i “factotum del bene” non sono da prendere sul serio perché spesso troppo sganciati dal reale, perché non si accorgono “del mondo che con lui se ne veniva via”. Ferrari fa così, giustamente, saltare la falsa dicotomia tra poesia impegnata e poesia lirica: quel che conta è il linguaggio. Se tiene il linguaggio allora non ci sono distinzioni.
La denuncia del poeta è severa: Ferrari ci avverte che “non abbiamo/ più parole per rabberciare/ mondi o per gridare basta;/ e nulla sarebbe la risposta”. Tutto sembra perduto, ma “una filosofia da morti/non consola e non addestra-/per questo il cane alla catena mi ripete:/ Stai pronto, schiva, colpisci”. La novità è allora che occorre essere pronti, svegli, in tensione grazie al dubbio, “angelo impossibile che non esiste” che ha però visto “la debolezza umana, /la forza della paura e delle frane”. Il tempo del poeta e “quello del ghiacciaio/ che non sente di cadere/ma riempie una coppa/ di bene, di bello e giusto”.
La poesia è allora una via di salvezza, non di fuga; una strada tortuosa ma che deve continuare la sua fatica di comunicare al mondo qualcosa di bello, buono e giusto. E qui ritorna in luce anche la visione che abbiamo definito “religiosa” e classica, ma una religiosità laica, poeticamente avvolta nel dubbio, senza certezze a buon mercato.
La sezione si chiude con un testo denominato “Tre studi di escapologia”.
L’escapologia è la capacità di un mago di sapersi liberare da costrizioni fisiche (camicie di forza, bauli, gabbie, ecc.) e ambientali (stanze cieche, celle ecc.). La parola deriva dall’inglese to escape, che significa “sfuggire, scappare”. E ciò è possibile, per il poeta, attraverso alcune “certezze” aperte: “non può per sempre/piovere, mi dico, e attendo un segno” di benevolenza e nel frattempo, nel dubbio procurarsi “una tana fonda e accogliente, /pochi affetti ben selezionati, trappole/ agli ingressi per ogni evenienza;/e l’urlo a portata di mano”). Non c’è da stare allegri, d’accordo, ma Ferrari esprime bene un disagio contemporaneo, un malessere diffuso, appunto anche socialmente parlando.
Seguendo un’architettura ben congegnata che alterna toni e temi, la sezione che segue si intitola “Diario personale”, sei poesie che esplorano quegli affetti ben selezionati di cui si diceva, cantando la nascita della propria figlia, dedicando versi toccanti alla madre. Molto bella “Il cestino”: “E’ lì la nostra vita, infondo:/ nel periodico svuotare/ lavatrice e lavastoviglie, / o nel cestino dei rifiuti/ che ammassiamo gioiosi/ un giorno dopo l’altro/ come prova d’aver vissuto, / memento di noi stessi, / pensando e non pensando al giorno/ che non ci sarà più nulla/ da buttare e tutto/ tutto sarà alle spalle/nel trionfo dell’entropia”.
Ma poi si riparte con una sezione che è nuovamente denominata “Vedere al buio” in cui Ferrari cerca di guardare alle cose da un versante meno cupo, più luminoso. Certo il tono è sempre, giustamente, contenuto, cauto e rigoroso. Ma è come se il poeta andasse ora alla ricerca di qualcosa che vale la pena coltivare. E torna la metafora del giardino, del lavoro ben fatto, della necessità di prendersi cura di se stessi “a percepire la giusta luce, a prevedere il tempo/ e annusare la grandine/ temendo l’eccesso e la penuria/ coltivando una ricchezza triste”. In questo occuparsi delle cose, delle piante, ad esempio, c’è la possibilità di evitare l’errore di “dire Io” di sfuggire all’egocentrismo distruttivo.
Non comprendiamo “che cosa ha avuto fine/ e cosa inizio”: viviamo nel presente, “davanti, un mare senza segni/ e impenetrabile” restiamo ligi “al timone anche di notte” e prendiamoci cura delle cicatrici (parola che spesso torna nei suoi testi). In un gruppo di 4 poesie, Ferrari utilizza il richiamo a figure classiche (Ulisse, Enea, Palinuro, Alcesti) proprio per esprimere questa visione più positiva.
Il desiderio di leggere la storia dell’uomo nel cannocchiale della poesia anima questa parte del libro (ricollegandosi così alla prima sezione): si vedano i testi di “Fuori tempo” e di “Visioni” che rimandano ad una dolente riflessione sul destino umano. Ma un salto improvviso quanto salutare, ci riporta ai nostri giorni, nel duro presente e qui si apre una sequenza di poesia molto interessanti dal mio punto di vista.
“Migranti” è una preghiera laica molto efficace e toccante, senza retorica che si chiude coi bei versi : “dacci un perimetro sicuro di sassi/ dacci strette di mano/ dacci sorsi d’acqua”; “Salmodianti dal deserto” ci sgomenta col suo “mare chiazzato di corpi che non volevano/ affondare aggrappandosi a ricordi/ e speranze; fotografie, giocattoli/che riemergono mentre/una bagascia continua il jogging/infastidita dai cadaveri”. “L’uomo di Google Earth” siamo noi stessi ripresi casualmente dall’occhio del web, “quell’occhio infuocato/che tutto campisce senza vedere, /tutto senza capire.)” metafora perfetta di una condizione umana distratta e anonima.
E poi troviamo, nelle poesie che seguono, versi pregnanti che ben esprimono l’universo poetico di Ferrari. Così incontriamo “e se davvero qualcuno/ ha mai desiderato di tornarvi/ per rituffarsi a sera nella propria inesistenza” che ci ricorda di nuovo l’incedere di Giorgio Caproni; oppure troviamo “occhi umidi/ che osservavano il mondo/farsi misurabile, il buio ritrarsi/ purché la luce ospitasse l’immaginazione” (in “Millenni”, dove Ferrari ci racconta di Idrisi, geografo e viaggiatore arabo del XII secolo): o ancora in “Parigi” cogliamo il contrasto tra “la ragione umana” tesa a “disegnare linee di confine” e la bambina che in “trasparenza immaginava…diafane intelligenze colte dal dubbio”. Il poeta “è un naufrago che balbetta” d’accordo, ma si sforza per poter dire “d’avere afferrato il male per la coda,/ uomo orgoglioso della condanna/ che cerca paradisi e trova inferni”.
“Il giorno avanza verso il buio” ribadisce Ferrari “a meno che il senso non sia/ – e non è poco, forse è tutto- / il contemplare la bellezza, crearla se possiamo,/proteggere la sua fragilità,/ mare il vero e il giusto/ – gli altri suoi nomi,/ se teniamo l’asse in equilibrio/ un attimo mentre tutto vacilla”.
Colpisce la semplicità del verso, la chiarezza del messaggio che sul piano del contenuto lega Ferrari ad una koinè intellettuale illuminista, occidentale, condivisa, diffusa. Che però appare in grande pericolo oggi. Non perché sotto l’assalto di altre culture, ma perché non abbastanza accogliente, perché non abbastanza consapevole di un destino comune. Ma come già rilevato, Ferrari non può fare a meno di trovare questo destino comune in una forma di compassione universale che segna la nostra finitezza, che ci rimanda ad un “infinito zero…/…destino/ freddo che ci attende” in un, forse inconsapevole rimando ad un poeta come Lolini.
La stessa poesia, altrove investita della forza della propria fragilità, alla fine potrebbe essere solo capace di “forme che svaniscono”, “origami/ che la pazienza crea dal nulla, / del tutto inutili, solo / una gioia per gli occhi e la mente/”.
In questo continuo gioco di sbalzi e rimandi umorali e letterari, Ferrari chiude il libro con una sezione che intitola “Il libro di Ismaele”. Questi era un figlio di Abramo citato anche dal Corano come esempio di rettitudine, che vivrà nel deserto e prenderà in moglie un’egiziana e quindi considerato anche progenitore degli Arabi.
Ismaele diventa così simbolo della necessità umana di andare per il mondo “a farsi raccontare, a farsi dire che era”. In questo viaggio Ismaele viene tentato dalla radice, ovvero a trovare la pace nelle cose “che ruotano su se stessi” oppure messo in guardia dalle rondine nel “non credere agli orizzonti”, non chiudersi perché “un braccio teso può salvare”. E il mare (simbolo classico di apertura, di ampiezza di vedute, di movimento) insiste dicendo “non credere a chi crede”… ma anche “non credere a chi non crede”. Preferendo ancora la postura eretta di chi scruta l’orizzonte e attende che qualcosa si manifesti. Non c’è prevalenza di una morale dell’homo faber, c’è piuttosto dominanza dell’homo poeticus, capace di viaggiare anche restando fermo; capace di salire “per la massima pendenza/ senza smuovere un sasso/ come non avessi impronte”, non per ignavia, ma per rispetto delle cose, del mondo, degli altri, perché una “visione annebbiata del rimanente” non è buio, ma luceombrata capacità di discernimento.
La raccolta si chiude definitivamente con la poesia che qui riportiamo integralmente:
Vedere al buio
Qualcuno il giorno, cogliendo un riverbero
tra sguardo e mondo; altri è la notte
che invade d’ombre e di ripensamenti;
ma la puntura aguzza della mente
o il suo mugghiare sordo
è il risvegliarsi aspro
chiedendo nome e luogo,
cercando di connettere
il senso usato delle cose a quella nebbia:
un mondo di spigoli ed inciampi,
di trappole dissimulate opposto
alla pacata diurnità del tocco amico,
lo sforzo di vedere o immaginare
la retta via cui tendere la mano
o più semplicemente una via di fuga
mentre gli occhi lentamente accolgono
la gloria e lo sgomento di vedere al buio.
In una intervista (www.succedeoggi.it) ‘Tra sguardo e mondo’, a cura di Pasquale Di Palmo, Ferrari la commenta così:
“Premetto che faccio fatica a commentare un mio testo, non perché ami trincerarmi dietro al mistero della poesia o che altro ma perché un mio testo poetico è il punto più avanzato della mia riflessione su un dato spunto, e ogni ulteriore elaborazione potrebbe essere ridondante o persino un passo indietro. Vedere al buio è la poesia eponima della nuova raccolta e affronta di petto il tema cruciale della razionalità umana (quindi non so ancora se collocarla in apertura o chiusura…); il tema qui è posto sotto forma di un confuso risveglio notturno, quando la coscienza è ancora assopita e il sogno si sovrappone alla realtà. Cercare di vedere, camminare, muoversi è come trovare percorsi noti in una situazione molto diversa e insidiosa, senza avere appigli saldi e attendendo che pian piano gli occhi si abituino all’oscurità. Ci si può ritrovare stranieri in casa propria, insomma.
Ecco, potrei definire questo un perfetto correlativo oggettivo di quella cosa strana che è la vita, una possibilità globalmente molto piccola, quasi impossibile. Per formazione tendo a non accettare nulla senza vagliarlo alla luce della ragione, la quale ha un grande peso nella mia poesia: credo infatti che la poesia, buttando a mare tanti misticismi d’accatto, sia una delle supreme forme della razionalità umana: e questa è forse la mia caratteristica distintiva”.
S.V.
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