“The impossible mission” del cavalier Marini
Trafficando un po’ tra le vanità e le ambizioni personali dei politici e i giochi della politica, primo sostenitore il gran veleggiatore della politica italiana Massimo Dalema, il cavalier Marini potrebbe anche farcela, ma che cos’avrebbe veramente a che fare con l’Italia un eventuale tal governo Marini: con le urgenze e prospettive del paese?
Il risultato, quand’anche Marini riuscisse nell’impossibile impresa di dare risposta alle due più immediate urgenze del paese:
la questione salariale
una legge elettorale decente,
alla fine della fiera ‘Marini’, diciamo tra settembre c.a. e la primavera del 2009, si imporrebbero nuove elezioni in una situazione politica internazionale ben peggiore. Ovvero nel pieno di quella crisi recessiva che prima ancora che i giudizi degli esperti, i ben più attendibili indicatori economici danno per certa. Molto più saggio è dare vita, attraverso elezioni ad aprile, a un nuovo governo, che deve innanzitutto risolvere la questione salariale, attraverso una ben precisa operazione: la defiscalizzazione di una parte della busta paga; operazione estremamente dolorosa per la classe politica, che deriva ormai, dopo la delegittimazione nel paese, tutto il suo potere dal controllo sui flussi finanziari generati dai vari prelievi fiscali, dove quello sui salari e stipendi è la maggiore risorgiva. Ergo, la questione salariale operaia: la sua soluzione entro l’attuale quadro economico porta seco, inevitabilmente, una vera ristrutturazione della spesa pubblica, perché se così non fosse, il Debito Pubblico avrebbe un vertiginoso balzo in su, fino a portarci fuori dalla Comunità Europea, ovvero uscita dall’area euro, con gli immaginabili disastri.
La ristrutturazione della spesa pubblica nella direzione del contenimento e del liberismo è impresa di tale portata che evidentemente nessun governo del ‘Presidente’, ovvero governo non espresso dal popolo, può riuscire non già portare a termine, ma solo progettare, per cui un eventuale governo Marini è ab imis destinato, se mai si insediasse, a peggiorare la situazione della società italiana, anche attraverso una legge elettorale che dovrà di necessità concedere molto ai cosiddetti cespugli, che quanto disastrosi per il paese, la misura ci è data dal pletorico carrozzone di ministri e sottosegretari dell’ultimo ministero Prodi.
Per quale ragione un navigato protagonista di mezzo secolo e ben oltre di politica italiana quale il Presidente Napolitano, e il Vaticano e la Confindustria e pure D’Alema trafficano per la nascita proprio di un governo Marini?
Qui è il punto.
Un eventuale governo Marini che abbozzasse due pesedosoluzioni alla questione salariale e della legge elettorale, come risultato finale porterebbe alla nascita di quella ‘cosa’ o ‘rosa’ bianca che dir si voglia, ovvero alla rinascita della vecchia DC, detto in volgar demotico.
Soltanto se si assume come traguardo e orizzonte la cosiddetta ‘rosa-cosa bianca’ infatti si capisce il senso del pesante intervento della CEI nella direzione della creazione di un governo ponte che, guarda caso, tra tutti i possibili primi attori papabili all’incarico, il presidente della repubblica ha affidato a Franco Marini, ovvero al solo leader del PD che potrebbe, a mandato concluso ed elezioni indette, assumere la leadership della nuova DC, sostenuto da tutta quell’area vaticanoconfindustriale che, per ragioni spesso opposte e sui tempi lunghi conflittuali, auspica oggi il governo Marini.
C’è poi, su un eventuale governo Marini una grave tabe, in quanto esso nasce segnato da un non piccolo vizio sostanziale: il defunto ministero Prodi era stato solo formalmente investito dall’allor presidente della repubblica Ciampi. Romano Prodi aveva assunto la guida dell’Unione attraverso una pubblica investitura nelle caserecce primarie de noiautri de sinnistra. Queste nostrane primarie di fatto hanno limitato e limitanoi la capacità di scelta e di manovra del capo dello stato, che hanno leso in una funzione fondamentale sancita dalla costituzione: la sua libera scelta dela designazione del Primo Ministro, sentite le parti politiche, per cui delle due: aut ogni forma di primarie, in quanto lede la sovranità presidenziale, la vincola in un suo momento cardine, sono da dichiarare illegittime e vanno vietate, aut, permesse le primarie, permesso all’elettorato di parte di designare il competitore per la carica di primo ministro, bisogna immediatamente introdurre una modifica costituzionale, che vincoli la presidenza della repubblica sul punto, perché risulta quanto meno paradossale che la massima espressione, il simbolo della volontà popolare, il Presidente della Repubblica decidendo, come nel caso dell’incarico a Marini, designi un possibile primo ministro contro l’indicazione popolare.
Insomma, intorno all’incarico Marini giungono ai rebbi del pettine sociopolitico non pochi nodi di potere la cui mancata soluzione è all’origine dell’imperante malcostume politico, e un cui macroscopico esempio è proprio la caduta del secondo ministero Prodi, decisa formalmente appunto da una questione di malcostume clientelistico, almeno nella forma, e che ripete nella logica e dinamica dei fatti la caduta del primo ministero Prodi, appunto decisa da una manovra di potere congiunta Bertinotti Dalema, calcolata nella direzione di un rafforzamento del proprio potere dei due leader; cui allora il presidente Cossiga offerse a Prodi di rispondere con una simmetrica contromanovra. Fu allora, e resta nella storia, gran merito di Romano Prodi aver preferito affondare, proprio come con il suo secondo ministero, attraverso un voto parlamentare. Anche allora ci furono lazzi e beffe, anche se non con l’indecenza sfrontata dei vari mangiatori di mortadella e stappatori di bottiglie di questa seconda caduta.
Nella sconfitta, Prodi almeno ha lasciato una lezione di pulizia e di intelligenza politica, perché in ogni caso ha tentato di rinnovare il centrosinistra, e attraverso il centrosinistra rinnovato il paese, con una serie di azioni creative, tra il viaggio in pullman con il quale avviò la propria ascesa, l’invenzione del PD e le primarie, azioni che restano rara avis nel paesaggio noioso e ripetitivo della politica italiana. Prodi è stato il solo altro innovatore e antagonista degno del cavalier Berlusconi, ma rispetto al quale aveva un indubbio vantaggio: conosceva, in ragione della sua precedente carriera, gli apparati dello stato nei suoi viscere, per cui era in ogni caso in grado di comprendere e almeno contenere le continue devastanti manovre di potere che agitano la macchina burocratica dello stato, mossa da un solo vero appetito: confiscare il più possibile quote del monte fiscale a proprio vantaggio. E agitata nei suoi viscere da una sola dinamica: le lotte di potere per la scalata burocratica. Entrambi gli appetiti sono poi fonte di continue collusioni, quando non di connivenze corruttive, e con il ceto politico e con le industrie che vivono nella vasta area degli appalti pubblici e delle imprese del parastato, da dove Prodi era venuto; con una conoscenza quindi dal vissuto del centro propulsivo di tutti i processi degenerativi della democrazia italiana. In Prodi c’era qualcosa di un gogololiano nuovo e antico Cicicov, ma che era salito e aveva acquistato una visione e una volontà da Ispettore Generale, e del quale purtroppo ha percorso l’agra parabola, ma alla quale d’ora in poi bisognerà guardare con attenzione, e rispetto per la persona, per quanti vogliano davvero capire e soprattutto cercare di modificare questo paese.
Prodi era il miglior leader del centrosinistra, e nulla lo dice quanto l’odio, perfin triviale di tanti titoli delle gazzette del centrodestra; un Prodi sostenuto e illuminato nella sua azione riformista da una dei pochi centri intellettuali autentici del paese: il gruppo del “Mulino”, dal quale egli è uscito e attraverso il quale ha mantenuto un intelligente contatto con i problemi reali. L’Italia ha deciso di rinunciare a uno dei suoi politici più capaci, o meglio, lo hanno deciso gli uomini della sua parte, la sua compagnia dantesca ‘malvagia e scempia’ cui si era condannato inevitabilmente intraprendendo la sua carriera verso la leaderschip. Come un dannato dantesco, condannato a non vedere i fatti recenti, Prodi ha ripetuto due volte la stessa parabola, sconfitto dalle forze reazionarie delle quali sono etichetta gli uomini delle sue sconfitte, che restano in campo e brigano, come il tetragono Dalema, per tenere in campo il ministero Marini. Un Dalema perfettamente conscio che un ministero Marino punterebbe alla nascita della seconda DC come prospettiva strategica; un terzo polo potendo meglio reggere e manovrare entro la logica di potere articolatamente connessa di alti burocrati e centri di potere economico.
D’Alema non rinuncia di certo al PD, ma egli valuta che una nuova DC alla destra del PD e un’area radicale alla sua sinistra possano farne il centro di una lunga egemonia, con la benedizione di confindustria e Vaticano, egli il centro del centro di questa egemonia.
Da questo trasparente disegno parta Berlusconi e dalla coscienza che anche su lui incombe non lieve la minaccia del destino del suo più onesto, lucido e immaginifico antagonista: Romano Prodi. La manovra in corso attraverso il governo Marini è di spingerlo di quel tanto verso destra da farne l’antagonista di Fini e non più l’alleato; di spingerlo di quel tanto a destra da spingere il pavido Casini a osare contro lui il calcio del mulo.
Perdere dopo Prodi anche Berlusconi, un Berlusconi ridotto ai margini della lotta per il potere malgrado e anche se fosse al capo del maggior partito: usurarlo e delimitarlo, sarebbe per il paese il precipitare nella crisi finale. Quella crisi che un suo alleato segretamente auspica: la crisi verso la jugloslavizzazione dell’Italia. E non è detto che, governata attarverso la Comunità Europea, la jugoslavizzazione dell’Italia non piaccia soprattutto al Vaticano almeno quanto alla Lega. Sarebbe la fine del Risorgimento, la cancellazione dell’intermezzo laico azionista, il ritorno a una vera e totale controriforma gestita dall’oltre Tevere.
Questa la reale prospettiva del paese, oggi Berlusconi, proprio in ragione della pervicace tenacia degli oligarchi italiani di difendere il loro potere, è di fatto diventato l’ultimo garante dell’unità del nazionale. Sappia ricordare i limiti e gli errori del suo secondo ministero: un quinquennio con più ombre che luci, in ragione anche delle pressioni dei suoi alleati: della sua ‘compagnia malvagia e scempia’, dalla quale in questo veniente suo terzo ministero sapia prendere le distanze, puntando alla risoluzione della questione salariale attraverso una ristrutturazione e un contenimento della spesa pubblica; mentre punti politicamente a un bipolarismo accentuato, come si realizza nel modello francese: doppio turno e collegi uninominali. Chiaro che si troverà tutti contro, ma un ‘tutti’ che sottenderà solo e soltanto tutti i gruppi che parassitano il paese, mentre se andrà allo scontro contro quelli avrà dietro, e per la prima volta, tutto il paese che produce.
Dice il filosofo americano G. de Santillana: “Chi non conosce la propria storia è destinato a riviverla.”, questo ricordi Berlusconi quando raccoglierà il potere, caduto il ridicolo esperimento Marini, che è appunto l’espressione tenace di chi vuol far rivivere eternamente quella cattiva pagina della storia d’Italia che è stata la restaurazione cattocomunista, nella quale si è dissolta la Prima Repubblica, dopo aver liquidato la componente nazionale risorgimentale azionista, per consegnare il paese alle due entità politiche vassalle l’una dello stalinismo e l’altra dell’oltre Tevere. E la manovra in corso Napolitano-Marini-D’Alema è puro cattocomunismo rivisitato, ovvero senza altra prospettiva che la sopravvivenza fisica di chi politicamente è morto e contamina il paese.
Solo se ricorderà la parabola Prodi-Berlusconi potrà, – come il secondo Giolitti che imparò dagli errori del suo primo ministero -, nel suo terzo ministero svolgere una giolittiana funzione salvifica per il paese.
Buon vento e soprattutto buona memoria, Cavaliere!
Piero Flecchia