MARIA BRUNELLI: “Deh, non parlare al misero”

Maria Bunelli, con “Passo d’addio” (Nino Aragno Ed. – To, 2004), porta alla perfezione la qualità stilistica della sua scrittura narrativa, già messa in evidenza in “Nemici di famiglia” (1994) e in “L’ultimo concerto” (1997). Una scrittura caratterizzata da un costante impiego dell’ironia, mitigata peraltro da tocchi di lieve umorismo. Oggetto e materia di questa narrativa sono sempre determinati ambienti dell’alta borghesia meneghina, melomane e raffinata e avente perciò nella istituzione scaligera il fulcro e gli appassionati scenari dei suoi miti e dei suoi riti. E dove l’ironia, che presuppone una valutazione e una distanza critica, può diventare a volte acre e pungente, l’umorismo sopraggiunge ad arrecare ai personaggi quella compartecipazione affettiva che li avvolge in un alone di comprensione e di pietà.

Ciò avviene, in “Passo d’addio”, attraverso la rappresentazione di tre, indimenticabili personaggi principali: quello della due volte vedova Ginevra Magenta, ascesa da mediocri e oscuri esordi canzonettistici ai fasti sociali più alti; quello della sua più cara amica Elvira Quaranta, portavoce della morale ambientale; quello infine dello spompato, un po’ “démodé” cantante operistico Benvenuto Picché, di cui Ginevra s’invaghisce. Se, nelle precedenti prove, la Brunelli aveva fatto qualche tentativo di spezzare la forma-romanzo, o con un brusco passaggio dalla terza alla prima persona dell’Io narrante, o attraverso la cronologia della narrazione, qui invece è tutta la struttura a essere imperniata su un flash-back: il romanzo non è che una rievocazione a partire dall’ironica constatazione dell’insincerità dei necrologi in occasione della dipartita della protagonista Ginevra.

Nel suo tipico modo di procedere, il meglio di sé viene ottenuto dalla Brunelli attraverso un più rigoroso controllo dell’espressione e una calibrata asciuttezza della parola. A esempio, dove nelle prove passate si aveva una caratteristica aggettivazione binaria, quasi a ribadire delle qualità per un eccesso di dubbio, qui i doppi aggettivi sono ridotti a pochi esempi (pp. 12,17,47), mentre in due casi sono disgiunti da un’avversativa: “caprigna ma non ancora stentorea” e ” luminosa ma effimera”. Inoltre i paragoni sono meno eclatanti e perlopiù riferiti ai personaggi e alle occasioni del melodramma (es: “il don José milanese […] sorideva come uno stupido”), mentre si ha una maggiore ricorrenza di sintagmi per apposizione, che spezzano il ritmo della frase, esaltandone la musicalità (es: “si stagliavano, controluce severo, in quella cerimonia”; “quando si esibiva sul palco, sinuosa come una fiamma, il futuro le sembrava infinito”).

Controllo e asciuttezza che, ove intessuti dall’umorismo, portano a soluzioni ammiravoli per icasticità rappresentativa: “Si risvegliò il giorno dopo alla Madonnina con due tubi nel naso e quattro by pass”; “Dopo avergli somministrato con pazienza la cena, le stelline in brodo, la buona verdura, la mela grattugiata”.
Una conseguenza ulteriore di questo maggior controllo è l’eliminazione totale del discorso diretto, a cui pure la Brunelli ricorreva soprattutto nel primo romanzo. Qui si ha solo “memoria” del discorso diretto mediante singole frasi virgolettate che, quando sono riferite al contesto del melodramma, acquistano anche una valenza umoristica: “deh non parlare al misero”, “vissi d’arte, vissi d’amore”. Né l’implicita onniscienza del narratore, a cui conduce il ricorso al discorso indiretto libero, deve sembrare anomala rispetto a forme e modi novecentescamente più sperimentali, che cercano di stimolare la cooperazione del lettore, perché essa non è – nell’ambito della materia narrata in questo romanzo – che il crisma della massima coerenza stilistica raggiunta dall’autrice.

Non ultimo pregio di “Passo d’addio” è la felice tessitura dei vari capitoli, che spostano il filo della narrazione da un personaggio all’altro con estrema naturalezza. Uno di questi capitoli – ultimo tocco d’umorismo – è quello che attraverso la figura del cane Babà (tutti i nomi scelti dalla Brunelli sono sempre felicemente appropriati), “un barboncino marrone che ingrassando aveva preso la forma di un cubo ricciuto”, scioglierà il mistero della sparizione di una collana di perle.

Va in conclusione osservato che persino il titolo di questo romanzo allude ironicamente all’età dei suoi personaggi femminili, combattuti tra desideri ancora pressanti e loro ridotte occasioni d’esaudimento: “Erano in quell’età non più giovane, ma tutt’altro che anziana, in cui le donne, non ancora provate dal tempo, sembrano mature ragazze sospese tra un passato incompiuto e un’avvenire incerto di possibilità”.

SERGIO SPADARO

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