Avendo letto tre quinti di ‘Avere e non avere’ di Hemingway, nella traduzione piuttosto datata di Giorgio Monicelli (Einaudi, Torino, 1955, pp. 256), possiamo già tranquillamente stimare in oltre il 30% sul totale delle pagine la frequenza di accenni al bere, all’alcool e simili.

All’inizio si tratta soprattutto di birra, poi si passa al whiskey, agli highballs, al rum, a certe non meglio definite misture che supponiamo traducano i cocktails; il tutto ingurgitato in gocci, goccetti, bicchierini, bottiglie, sorsi e sorsate, bevute in privato, al bar, sulla barca, la quale trasporta nella seconda parte un intero carico di liquori di contrabbando.

Frequentissimo il termine ubriacone, oltre a sbornia e bevuta; molto gettonato il Bacardi, sia maiuscolo che minuscolo (?), ci si imbatte in qualche raro caffè, una sola grappa e un vermut corretto: “due parti di vermut francese e una d’italiano” (pag. 138).

Concludiamo con un’illuminante citazione dal finale della prima parte (p. 69), per comprendere l’atteggiamento dell’Autore verso i suoi compagni di sbronze:

“(…) vidi Eddy allontanarsi per la strada sotto la luce delle lampade ad arco in compagnia di un altro ubriacone che aveva trovato, tutti e due barcollanti, con le loro ombre che barcollavano ancora di più alla luce delle lampade ad arco.
– Poveri disgraziati di beoni, – disse Marie, – mi fanno pena gli ubriaconi.
– Quello è un ubriacone fortunato.
– Non ci sono ubriaconi fortunati, – Marie disse. – Lo sai, Harry.
– E’ vero,- dissi. – Credo che non ce ne siano.”

M. M.

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