Per sua aperta ammissione Simenon, su consiglio di Colette, aveva ridotto col tempo il vocabolario utilizzato nelle sue opere, piuttosto che ampliarlo e specializzarlo con la maturità: egli sosteneva infatti che il compito di uno scrittore popolare fosse di farsi capire dal maggior numero di lettori; cosa che è puntualmente avvenuta, se è vero che la sua diffusione su scala mondiale è seconda soltanto a quella di Verne, tra gli autori di lingua francese.

Tale riduzione del lessico ha comportato altresì il ripetersi, molto frequente nello stesso testo e virtualmente in tutti i suoi libri (che ammontano a svariate centinaia), di termini o di stilemi che evidenziano la cifra-Simenon, colorandone la celebrata atmosfera, ma risultando a tratti dei veri e propri “tic”.

L’avverbio che più di ogni altro marchia i libri di Simenon-Maigret, e anche i cosiddetti Simenon-Simenon, è “machinalement”, tradotto in italiano con macchinalmente, meccanicamente, automaticamente: quasi ogni suo personaggio, almeno una volta, ha compiuto un gesto “machinalement”, in un caso già alla quarta riga del testo (cfr. La pipa di Maigret, 1945).

Un’abitudine che è di moltissimi eroi simenoniani, ma segnatamente di un pensoso Maigret, è quella di appoggiare la fronte al vetro di solito gelato di una finestra; per schiarirsi le idee, evidentemente!
Lo stesso commissario, poi, spessissimo non batte ciglio (“il ne broncha pas”) a qualche notizia inattesa o di fronte a degli indiziati particolarmente ostili, mentre la sua tipica ritrosia a svelare il proprio metodo di indagine, che sarebbe appunto quello di non avere alcun metodo, è sottolineato con una certa frequenza dalla replica “Je n’en sais rien!” (Non so! Non ne so nulla!), tra l’impotente e il seccato.

Eppure almeno una domanda metodicamente ricorrente c’è negli interrogatori di Maigret: a una donna, di qualsiasi età, chiederà sempre se è stata l’amante del personaggio intorno a cui ruota l’inchiesta. E un’altra prerogativa dell’autore è fornire subito il bollettino meteorologico dei giorni in cui avrà luogo l’inchiesta: fin dalle prime battute siamo messi al corrente delle condizioni atmosferiche, e si può star certi che quasi sempre piove, o è appena piovuto o sta per piovere, e apparentemente è questo il tempo prediletto da Simenon per farvi muovere i propri personaggi (anche se in alcuni casi Maigret è afflitto da un caldo afoso). Il commissario reagisce dunque al tempo autunnale quasi perpetuamente avverso caricando smodatamente la stufetta dell’ufficio, tuttavia questo sistema non lo mette al riparo dal suo tipico malanno di stagione: il “raffreddore di testa”. Con una discreta frequenza, oltre ai numerosissimi bicchierini di “Calvados” e ai boccali di birra ingurgitati nel corso delle inchieste, Maigret riceve e gradisce dalla sorella della moglie, che vive in provincia, il tradizionale liquore di prugne, o prunella.

Il ricordo autobiografico che l’autore ci offre più spesso è il racconto di quando, bambino, Maigret-Simenon faceva il chierichetto (l’enfant de choeur) e doveva raggiungere il convento dove si officiava la messa di mattino prestissimo, al freddo, al buio e alla mercé di tutti i terrori infantili del caso.

Per conferma e seguendo una passione anche da bibliofili (la cosiddetta “simenonite”, di cui soffriva lo stesso Gide, per sua personale ammissione), apriamo il primo volume della collana “Le inchieste del commissario Maigret”, quattordicinale Mondadoriano pubblicato dal marzo ’66 al gennaio ’69 (i gloriosi tascabili che affiancavano i primi Oscar, con le copertine pastello che si rifacevano al Maigret televisivo interpretato da Gino Cervi) e citiamo dalla prima pagina di Maigret e il ladro pigro (Maigret et le voleur paresseux, 1961): “Si trattava di qualcosa che risaliva a prima ancora dell’adolescenza, all’infanzia, quando era chierichetto e serviva la messa delle sei. La stessa messa l’aveva servita in primavera, d’estate e in autunno. Perché il ricordo che gliene era restato, e che gli ritornava automaticamente, era un ricordo di buio, di gelo, di dita intirizzite, di scarpe che facevano scricchiolare una pellicola di ghiaccio sulla strada?” Ovviamente perché queste erano sensazioni di vita realmente vissuta dal piccolo Simenon nella Liegi di inizio secolo.

Per concludere questo breve excursus sui “tic” del grande autore belga, tocca segnalare la ripetizione quasi maniacale, nell’ultimo romanzo edito da Adelphi, La morte di Belle, scritto e ambientato in America nel ’51, del termine “cagibi”, tradotto come “stanzino”, ma etimologicamente più prossimo alla gabbia (“cage”) o al bugigattolo, dove il protagonista si sente assolutamente protetto, nel cuore della propria casa: probabilmente per l’autore una reminiscenza di quando, agli albori della carriera, aveva accettato la sfida (poi messa in atto) di scrivere un romanzo nel giro di poche ore, in pubblico, chiuso dentro una gabbia di vetro, sulla terrazza del Moulin Rouge.

M. M.

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