Nel suo libro l’incendio (Milano, Mondadori, 1981, pp. 328), licenziato e firmato l’11 settembre 1980, Mario Soldati compie un paio di errori topografici relativi a un angolo di Torino che chi scrive questa nota conosce molto bene, avendoci vissuto per quasi tre decenni: il Martinetto.

Nel capitolo dedicato all’osteria della “Gatta Verde”, a pagina 115 l’io narrante afferma che:
“(…) per il corso Regina Margherita arrivammo a un ponte sulla Dora di là dal quale era una volta il Tiro a Segno del Martinetto”; ebbene: il ponte Candido Ramello, in dialetto ‘l punt Doira, si trova svoltando da corso Regina a destra in corso Tassoni verso l’Ospedale Amedeo di Savoia, mentre per raggiungere l’odierno Sacrario dei Caduti del Martinetto tocca svoltare a sinistra, sempre in corso Tassoni, e risalire brevemente la china che porta al cosiddetto Campidoglio.

A pagina 116 viene detto “Superato il breve spazio di cemento sotto cui solo io sapevo che scorreva la Dora (…), lungo una di quelle bialere, forse proprio il canale della vecchia Pellerina”; molto inesatto: alcune bialere tanto apprezzate da Soldati sono davvero state interrate, come appunto la Pellerina negli anni ’70 lungo tutto il corso Appio Claudio e oltre, ma la Dora in Torino scorre in galleria solo tra via Livorno e corso Principe Oddone, non certo dalle parti della “Gatta Verde”, che si trova in via Angiolino, in quell’area delimitata da corso Potenza, via delle Ghiacciaie e il fiume.

Per venire dunque al luogo che dà il titolo al capitolo, il narratore afferma che l’osteria fosse chiusa già a fine anni ’50, con “campi da bocce abbandonati, ormai pieni di buche” (pag. 117) e che l’insegna fosse un bruco (‘gata’ in piemontese), probabilmente per un antico allevamento di bachi da seta ospitato nel solaio dell’edificio. Si può invece comodamente affermare che il padre del sottoscritto, gloria boccistica del tempo, vi giocasse e stravincesse per l’omonima società bocciofila, il cui simbolo era un’inquietante gatta (micia) verde, ancora in pieni anni ’60.

Quanto all’origine del bizzarro nome, non escludendo paternità o maternità seriche, la leggenda vorrebbe che niente po’ po’ di meno che il Re Galantuomo Vittorio Emanuele II, di ritorno da una battuta di caccia, si ristorasse sotto gli ombrosi ippocastani della locanda e che un verde bruco si lasciasse penzolare proprio sulla testa del sovrano, il quale avrebbe perciò così battezzato il posto.

Nel decennio successivo alla vicenda ambientata da Soldati, l’animale totemico dell’osteria (ormai trasformata in ristorante-night) tornò a strisciare e il nome divenne Anaconda, quale è tuttora; ciononostante i vecchi abitanti del circondario conservarono l’abitudine di definire genericamente il proprio indirizzo “à la Gata Verda”

M. M.

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