“QUINTA VEZ” di Maria Pia Quintavalla
(Stampa 2009, 2018)

Il libro “Quinta vez di Maria Pia Quintavalla nasce per spiazzare continuamente il lettore. E’ come se la scrittrice si divertisse a spostare sempre la linea dell’orizzonte del testo, della parola stessa, per farla poi riapparire altrove. Così passa dal verso poetico evocativo, enigmatico al racconto in versi, dalla forma della canzone popolare antica al testo teatrale. La poesia, coi suoi canoni, non basta più, è un confine troppo stretto per l’esuberanza del pensiero di Maria Pia Quintavalla che, per altro, in questo libro prosegue un “discorso” iniziato nei libri precedente, riprende temi e personaggi, immagini e strutture.

Quintavalla costruire un libro fatto di più piani, d’intrecci semantici e linguistici, un libro fatto di contaminazioni e di tonalità e timbri diversi. Sembra quasi che l’autrice riprenda e reinventi l’idea del “flusso di coscienza” dandogli una nuova forma, come se la poetessa non potesse fare a meno di dirci che dentro ciascuno di noi ci sono più anime, più personaggi, più storie, che siamo insomma “plurali”, nei registri e nelle forme di comunicazione.

La prima sezione “Pre-Natale” dedicata “ai non nati” è in forma di prosa poetica. Qui, come spesso fa, Quintavalla scardina le assi spazio-temporali, come quelle dei soggetti parlati o parlanti e immerge il lettore in una sorta di liquido amniotico primigenio in cui figli, madri s’incontrano e dialogano intensamente tra loro. O meglio tentano disperatamente di farlo… Non importa se siano dialoghi effettivamente vissuti o solo immaginati, o forse desiderati. La poesia, qui intrecciata alla prosa, ci dice di questa tensione irrisolta tra desiderio di colmare le distanze spazio-temporali e l’impossibilità di farlo. E ci dice che è questa mancanza, questa impossibilità a fare da motore all’ispirazione poetica. Le generazioni si sfiorano, svaniscono, in un dialogo di ombre…
Pre-natale è lo spazio letterario dell’incontro mistico tra la poetessa e la madre ormai morta (intendevo farti dei cenni e lasciare che le due anime conversassero subito, liberamente). Il momento dell’incontro diventa il luogo della possibilità di una resurrezione, ad opera della poesia stessa, che si fa strumento per abbattere ogni barriera.

Stamane, mi sono svegliata già stanca e un po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te, madre. (pag. 13)

Eravamo libere e insieme sole, parlammo? Non so, come non sento alone di un altro tempo che sposti da qui, l’eterno dove sei rivolta, i due volti guardando nello stesso punto senza fissarsi, piuttosto volti all’unisono” (pag. 17)

Dovevamo ricordarci ancora molto altro, lo si capiva ed era già zavorra, ostacolo al sentire daccapo altre cose, senza le dose stesse. (pag. 26)

Com’era stata l’esistenza di quelle come noi respinte, sulla linea di partenza, senza sapere né saltare dentro al cerchio della rondone, né divenire della vita amanti” (pag. 29)

Nessuno ci aiutò a parlare, infieriva l’inverno che dalle pieghe ancestrali mai lavate del tempo prevaleva, l’antico taglio che ci aveva ammutolite e rese intonse. Solo la morte purifica. (pag. 33)

Parole non risuonate nel petto ma chiuse, come tombe sazie di vacuità” (pag. 35)

Ma nella seconda sezione “Mater” e ”Mater II” qualcosa cambia. Qui la parola riprende la forma della poesia strutturata in versi. La poetessa ora afferra, stringe il suo oggetto, la madre, appunto. Ma di nuovo, la scrittrice è anche ella stessa madre.

“E’ forse questo il tremito, in occhi sconosciuti/ i miei, già conosciuti-/è forse verso il verso che dice il tocco,/ i salti della voce. Lei è cresciuta/non parla la tua voce”. (pag. 43)

Occhi, voce, tocco: sono i sensi, fallaci per definizione, a stabilire un contatto, a fissare un quadro. Così si entra in un nuovo gioco di specchi rispecchiati e rispecchianti: il dialogo è con se stessa madre e figlia e con la figlia che sarà o è madre, mescolando ancora i piani temporali e le prospettive soggettive. Ma così facendo è “la donna” in quanto tale diventare il baricentro della poesia: la donna che è esattamente questa creatura che non si lascia incasellare in un ruolo definito, come vorrebbero le convenzioni e la storia fatta e scritta dagli uomini. La donna è qualcosa di nomade, mobile, non definibile una volta per tutte. La polifonia del testo rende bene questa dimensione di instabilità necessaria, che è quella dell’eredità, dei transiti generazionali oltre che dell’essenza stessa del femminile: “Era figlia già quando nessuno conosceva,/ era lombrico molle e piccolo/ nella tua mano, e silenziosa./.. lei scrive in versi la sua notte,/si trucca gli occhi, ride. Si seduce./ L’immagine che guarda fissa è la sua vita,/…(pag.45) oppure si veda ancora: “..non sa come tenere esorcizzato quel demone/che è un’Altra donna, una che sta in piedi/crede specchiarsi/nelle sue gambe nude. Non capirà”. (pag. 46).

Il verso spezzato, ma lineare; i saliscendi metaforici, le sospensioni liriche danno al testo un andamento sinuoso, che richiede cura e attenzione al lettore:

Lei non ascolta, se cammina non ti vede più
sei tu alle spalle, la conosci
dal silenzio dei passi, lei non corre
più accanto alla tua vita ma davanti,
la sospinge e spinge via. (pag. 44)

Gemono porte, c’è pena
Sotto la volta di Milano, intanto
Punge una natura
Bistrattata con il suo passato:
la paura non è la mia.-
ma femminile e forte l’io che sognava
ieri – soffre di raggelato assenso
al male, oggi –
di queste sue storture fa
di ogni mondo l’0anima vorace,
la trasforma, e tace. (pag. 57)

In Mater II, leggiamo: “Io scrivo China per pulire . Questo è l’esordio, e poco oltre, Dentro l’aria entra la voce/ che piange, che punisce, dice, Va lontano/ maledicta, né amata o stupefatta/ di male, e di dolore. E ancora, “A sera: la sua voce che danneggia, è lei la lepre/ con modi che scardinano, che bucano/ nel viola; e non serene fa/ tutte le mie giornate, le impoverisce/ nuove, le violenta/ come in un fumetto orribile”. (pag. 54)

Questa vena visionaria pervade la sezione “Quinta vez o del ritrovamento”, dove il tono, il colore poetico è ancora diverso dai precedenti. Quintavalla realizza una sorta di breve allegoria della seconda vita di China. Con un atto psico-poetico-magico, China ci viene presentata come una madre fanciulla risorta in terra di Castiglia. E il tono è quello dei racconti popolari trecenteschi, la struttura poetica fa pensare alle Chansons dei Trovatori, introducendo parole antiche, termini in spagnolo. Il testo si fa necessariamente più teatrale, come in una sorta di metamorfosi progressiva.
“Belle le gambe e belli gli occhi oscuri, forti le braccia nel danzare danze di vita, China, integra e infante già molto intenta a fidanzarsi/ con la dea fortuna che lei sentiva chiara,/ scriveva storia di cantari stanchi e/ di cavalli picari, di lestofanti pronti alla guerra/ e lei non più morire.”.
Libera da obblighi e doveri familiari, China in questa rammemorazione sospesa tra funzione e realtà , va incontro alla vita desiderata. Ed è questa ambiguità a generare interesse, inquietudine nel lettore.
La protagonista non si sposa e non fa figli, ricerca mondi andalusi e canti di Castiglia ed è libera da insegnare che “beltà ha nome/ di regale follia, di andamento virtuoso/ in più spumoso. China diventa prodigio di canzone/ meravigliosa creatura in luogo chiaro”, si legge in chiusura di sezione. China è felice, forse per la prima volta nella vita. Si è riappacificata anche con se stessa. Ha smesso di essere assente.
La poetessa è presa da quest’urgenza di restituire vita ai proprio cari attraverso la letteratura e sa bene che è un gioco di finzione. Ma è qualcosa di necessario, sui non può sottrarsi. Il demone del tempo va domato a mani nude.

Il libro si chiude, come detto, spiazzando ancora il lettore. “Le sorelle” è un testo di prosa teatrale. Il dialogo tra le due donne è fitto, secco, carico di emotività talvolta repressa, una resa dei conti irrisolta, per altro, ma che sfianca le due protagoniste chiuse nei loro ruoli e nei ruoli che gli altri hanno loro attribuito, impotenti dinnanzi ai non detti, ai mai chiariti pensieri del passato. E il testo si fa “politico”, ovvero capace di descrivere uno stato della storia vissuta, una fase della Storia stessa in cui le donne hanno invertito ( e sofferto) il senso di marcia della realtà portando al centro della scena appunto la “questione delle donne”.
Lo scontro generazionale entra sin dentro la relazione stessa tra le due donne protagoniste della scena. Le due donne restano distanti, nell’impossibilità di saldare il conto. E non sappiamo se dietro alle due sorelle si nascondano ancora la madre e la figlia. Dopo un apparente chiarimento tra le due, non si compie il chiarimento sperato, e l’arrivo di un temporale fissa il loro addio definitivo: “nel crepuscolo, entrato ormai nel buio, faticano a trovarla, l’uscita, ma poi, in silenzio, una a piedi, l’altra in bicicletta, infilano il cancello una dopo l’altra, senza voltarsi, e credendo di essersi salutate, forse una delle due mormora qualcosa. Dopo questo incontro non si parleranno più”. (pag. 90).

Cè un legame con le forme dello sperimentalismo (penso più a Porta) che ritroviamo, come detto, nella scelta di sovrapporre i piani della narrazione poetica, nella contaminazione dei generi, nell’alternanza dei toni e dei timbri, nella volontà di spezzare la superficie di una eventuale poesia troppo apodittica aprendosi allo stile della variazione (Zanzotto) o all’enigmaticità delle immagini (Rosselli). Ma soprattutto siamo di  fronte ad un’opera complessa, lontana dai canoni del consumo poetico, ad una poesia molto letteraria: “Quinta vez” conferma Maria Pia Quintavalla come una delle scrittrici più originali e coraggiose della sua generazione, che ha saputo attingere alle suggestioni della poesia degli anni settanta, ricreando comunque un proprio stile autonomo, uno stile mimetico, capace di contenere stili letterari diversi che rendono il libro spiazzante perché ambivalente e carico di suggestioni irrisolte. E che non occorre, appunto, risolvere, ma accettare come dati poetici in sé.

Stefano Vitale

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Note sull’Autrice
Maria Pia Quintavalla. Nata a Parma, vive a Milano.
Suoi libri: Cantare semplice (1984), Lettere giovani Campanotto (1990), Il Cantare (1991), Le Moradas (1996), Estranea (canzone) (introduzione di A.Zanzotto, 2000), Corpus solum (2002), Album feriale (2005), Selected Poems (USA, Gradiva 2008), China (Milano, Effige 2010), I Compianti (Ibid., 2013 poi 2015).
Cura dal 1985 la rassegna e relative antologie, Donne in poesia e le nuove rubriche Scrivere al buio (alla Casa della poesia di Milano ), Le Silenziose (al festival Book City di Milano), Muse, Autori Resurrezioni (Expoincittà).
Ha curato il convegno nazionale Bambini in rima/La poesia nella scuola dell’obbligo, Atti Allfabeta 1988.
Tra i premi alla sua produzione poetica: Tropea, Cittadella, Alghero Donna, Nosside, Borgomanero, Montano, Città S.Vito, Contini, Metauro, Alda Merini, Pontedilegno, Città di Como. Cinquina al Viareggio.
È tradotta in varie lingue ed inclusa in una moltitudine di antologie. Collabora con Laboratori di scrittura a Lettere presso l’ Università degli studi di Milano e all’Università di  Parma.

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