L’homo salvaticus tra mito e cronaca

Tra le figure che la geografia fantastica colloca negli ombrosi spazi boschivi dell’arco alpino grandeggia quella dell’homo salvaticus, figura maschile nella quale alcuni folcloristi scorgono l’antropomorfizzazione dell’orso, altri vi leggono relitti dell’arcaico faunismo pagano filtrato e trasformato. E c’è anche chi vede nell’homo salvaticus una sorta di riconferma in ambito alpino dell’uomo delle nevi imalaiano, oscura memoria dei contatti tra la nostra specie e la neandertaliana.

Non c’è mito che non rimandi a un substrato naturale oggettivo, dal quale sorge per rispondere a pulsioni profonde della comunità che lo crea, ma che per esprimersi entro il contesto comunitario deve mediarsi in un linguaggio coerente al sistema di interdizioni e regole sociali egemoni, soltanto dalle quali ogni mito riceva il legittimante consenso a dispiegare il suo discorso di verità.

Da dove sorge e a quale necessità, nello spazio sociale, risponde la figura archetipica di un essere naturale che si aggira nei boschi, spia le persone che vi si avventurino a tratto a tratto apparendo e poi scompare?

Poco più che adolescente, or è tutto mezzo secolo e più, mi accadde di cogliere, in una magnanese veglia serale presso il camino, allo scoppiettare delle faville, la conversazione tra la mia nonna materna e una sua coetanea. Si interrogavano circa il destino di un locale homo salvaticus: il “patanü dal Sèri”, che ormai dai lontani primi anni ‘940 – siamo nell’autunno del 1960 – non si era più manifestato, dopo un decennio di apparizioni, alcune delle quali anche davanti alle due ormai vecchie donne. Alla mia domanda sul cosa fosse questo patanü (uomo nudo) del Sèri, l’amica di mia nonna replicò perentoria: “L’era ‘n balabiut.”

E tutto mi fu chiaro: biut in dialetto magnanese significa: senza, con particolare riferimento i soldi. Nelle nostre avventurose partite di poker adolescenziali, mettere biut uno degli avversari era privarlo della posta. Quest’uomo del Sèri era uno che voleva ballare senza avere soldi. Risolta la questione linguistica dimenticai l’uomo del Sèri fin quando non scopersi il vero significato in piemontese del termine “balabiut”, che mi avrebbe illuminato a un tempo la questione dell’homo salvaticus e del patanü del Sèri.

Sèri è un locale toponimo che individua l’altopiano apicale della morena della Serra d’Ivrea; altopiano che si estende per circa tre chilometri di lunghezza, dai due ai trecento metri la larghezza, tra la provinciale Biella Ivrea e l’abitato del comune di Magnano, la cui popolazione, fino agli anni ‘960, coltivava sull’altopiano campi di patate e granturco, ma soprattutto ortaggi e frutta, tra le primaverili insalate cigliege, gli estivi pomodori e zucchine pesche e susine, le autunnali zucche pere e mele, e gli invernali cavoli verza.

Dagli inizi del ‘900, quando l’esplosione demografica costrinse all’emigrazione di massa stagionale i magnanesi maschi, a sfuggirne il maltusiano effetto, la coltivazione dei campi fu sempre più un’attività femminile. Questo, fino all’avvento del fascismo, che vietò l’emigrazione verso le Americhe e la Francia, spingendo la maggior parte dei mariti a richiamare le mogli e figli, o tornare a cercare lavoro nelle fabbriche e cantieri di Biella, Ivrea e Torino.

Sull’altopiano del Sèri, prevalentemente coltivato da una forza lavoro femminile, intorno alla metà degli anni ‘930, incominciò ad affacciarsi sempre più spesso, dalla selvaggia forra boschiva del precipite pendio della morena, un uomo che seppe acquistarsi notorietà per la sua bizzarra forma di apparizione: da balabiut appunto, protrattasi fino ai primi anni ‘940, tanto da essere ricordato localmente ancora dopo mezzo secolo e più. Ma oggi, nella memoria collettiva locale, questo ricordo tende a trasformarsi da evento reale in una sorta di favola fantastica, una locale conferma del mito alpino dell’homo salvaticus.

La realtà indubitabile dell’accadimento sta tutta nel preciso riferimento al toponimo che individua quel patanü: Sèri. La località, per la vicinanza al paese e in ragione delle culture orticole e la necessità del consumo domestico quotidiano, nelle ore della giornata aveva una costante presenza femminile: apparire alla quale era lo scopo del patanü, che per il suo comportamento sessuale deviante, a coltivarlo, non poteva trovare luogo migliore.

Simmetricamente, le giovani contadine magnanesi per la più parte dell’anno erano costrette a vivere con una metà maschile di bambini e vecchi. Ma questa fu appunto la condizione, tra tardo ‘800 e primo ‘900, della popolazione femminile alpina, i maschi impegnati a cercare il pane nella pianura e soprattutto nelle città di Francia ed Inghilterra e nelle Americhe, in ragione di una sostanziale ignoranza del nesso causale sesso-procreazione per un preciso interdetto della cultura egemone al controllo della natalità. Ma questa ignoranza sostanziale circa la natura umana è appunto il tratto simbolico connotante l’homo salvticus dei boschi alpini.

Intorno alla figura dell’homo salvaticus due solitudini erotiche si fronteggiano senza coniugarsi nelle nostre montagne per circa un secolo: quella femminile determinata da una oggettiva condizione sociologica, e quella dei singoli soggetti maschili resi ignoranti circa il femminile in quanto chiusi e sopraffatti dal codice interdittivo sessuale vigente.

L’esibizionismo è il substrato pulsionale eroico che si sublima nel mito dell’homo salvaticus, effetto di quell’universale processo asimmetrico di interdizione comportamentale e riprovazione morale che garantisce in ogni cultura la norma morale in funzione dell’ordine sociale egemone, ma un cui inevitabile effetto, quando la norma diventa oppressiva, è la costruzione di una segreta pulsione deviante, soprattutto in questioni sessuali. Qui non basta mai la pura interdizione giuridica a garantire la norma.

La negazione del corpo come luogo agente nello spazio sociale, la sua privatizzazione radicale, secondo quella logica controriformista che culmina nella cancellazione islamica non solo del corpo femminile, ma di tutto il corpo fisico nell’abbarraccanamento di abiti calati sul corpo per cancellare la forma naturale fisica: questa logica dell’intabarramento provoca le reazioni devianti, una appunto l’esibizionismo, effetto del divieto controriformista di permettere nello spazio pubblico la lettura degli altri corpi come fatti naturali agenti, trasformando gli abiti in messaggi di interdizione, mentre il mostrare il corpo diventa la cattiva azione per antonomasia. Solo la prostituta si mostra nuda, in quanto la contemplazione della nudità rimanda a una coscienza manifesta della desiderabilità della differenza che la coscienza naturale istintualmente sente come la buona differenza: la differenza sessuale, mente il codice del potere politico per l’interdetto sessuale persegue un processo diseducativo generalizzato, attraverso il quale garantire la catena gerarchica dell’asservimento dell’uomo all’uomo.

Nulla descrive, in ambito pedemontano nostrano, la situazione di intabarramento mentale attraverso l’intabarrameno del corpo: dal quale balza anche la devianza esibizionista, e una cui possibile forma mitica occultante è l’homo salvaticus, quanto la singolare legge ducale che, in pieno evo controriformista, statuì: “i debitori insolventi, a richiesta del creditore davanti al giudice, possono essere condannati alla gogna di esporre le proprie nudità nei deputati quadrivi cittadini, affinché il debitore insolvente sia pubblicamente dileggiato, nel diritto del creditore mingere sul deretano denudato del debitore, mentre ai passanti lecito sputacchiarvi”. E infatti, nel dialetto piemontese la metafora per indicare il fallito è l’espressione andait dal cùl, (andato a culo -sotteso- nudo sulla pubblica via). Alla gogna c’era comunque l’alternativa della condanna ai lavori forzati: a spaccare pietre nelle cave di Aramengo, da dove poi l’altra metafora linguistica vernacolare pedemontana a indicare il fallimento: ‘andé a ramengo’.

E quanto la nudità, a svergognarla, e il fallimento economico, siano stati connessi deliberatamente, lo dice una significava metafora in una bella pagina di cronaca sul mercato di porta Palazzo di Guido Gozzano.
Egli, aggirandosi per porta Palazzo in cerca di colore, intercetta la violenta serie di ingiurie, da una infuribondita verduriera scagliate contro un tale reo di aver tastato la consistenza delle zucchine esposte (siamo abbondantemente in epoca pre OGM, quando in 48 ore le zucchine diventavano frolle). Dalla superba serqua di contumelie delle verduriera gozzaniana, una soltanto ne trascegliamo, in quanto la sola consuonante ed illuminante il nostro tema: ‘balabiut’, ma termine già allora così gotico per i lettori borghesi del giornale dove comparve la cronaca da indurre Guido ad aggiungere, accanto al vocabolo balabiut la traduzione in italiano: danzanudo. E che cos’è il nostro patanü dal Sèri, mentre si manifesta davanti alle contadine magnanesi, apparendo ai margini del bosco, se non una figura danzante nuda, un balabiut appunto, che esibiva impudicamente un desiderio che doveva abitare, nelle loro solitudini sessuali, molte di quelle contadine alle quali il nostro patanü appariva nella forma balabiuttica.

Insegna Leonardo: “Muovesi l’amante verso la cosa amata, e se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile.” E uno degli effetti appunto della criminalizzazione del sesso è la costruzione di devianze ora grottesche, come dei balabiut (in linguaggio post freudiano esibizionisti), ora tragiche come la serie infinita di delitti sessuali, più speso vittime le donne, nei quali tutti parla l’effetto perverso di un analfabetismo sessuale politicamente voluto e sostenuto.

Nel tempo del paganesimo, e ancora nella sua celebrazione rinascimental-barocca per il mito arcadico come si esempla nel tassiano Aminta, i satiri si mostrano nudi a invitare la metà femminile di quel mondo nel mezzogiorno arroventato dal solleone a condividere l’ora dell’eros panico.

L’interdetto cristiano che colpisce il sesso: lo tabuizza, trasforma la dichiarazione esplicita del fauno in una sua rappresentazione estenuata onanistica, quale appunto quella dell’homo salvaticus, nel quale, come nella donna entro lo spazio pubblico, il sapere naturale fondativo: la conoscenza psichica della differenza sessuale, traspare come ombra e sgomento: appunto la danza triste e disperata del balabiut del Sèri, homo salvaticus che non ha più un vero sapere circa la sua natura, per cui vive in una sorta di ingenuità patetica dolorosa, effetto di un processo di cancellazione del sapere naturale che perdura nell’oggi, ma in una nuova forma.

L’ignoranza contemporanea si istituisce planetariamente per il percorso più paradossale: la nevrotica rimoltiplicazione e diffusione di una molteplicità di saperi circa il sesso e l’altro tutti inessenziali, ma tutti con un preciso compito decisivo: occultare nell’uomo il sapere sulla sua reale natura, lo scopo mantenerlo nell’ignoranza circa il sapere politico, non meno essenziale, per la buona salute collettiva del sapere sessuale.

Oggi la massa dei votanti, nel momento del voto entro l’urna elettorale, si esibisce davanti alla visionaria figura femminile nuda della Democrazia in una danza non meno grottesca di masturbazione onanistica del nostro patanü del Sèri davanti alle giovani contadine magnanesi negli anni ‘935-40.

La balabiutaggine mentale domina oggi sovrana dai canali mediatici, i personaggi che vi recitano tutti sostanzialmente ombre, nella selva della menzogna, dell’homo salvaticus alpino.

Piero Flecchia

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