foto_brexitLa situazione, dopo il voto della Gran Bretagna al referendum sull’uscita dall’Europa, è sempre più confusa e fluida. Anche se alcune cose sono emerse benché, dico io, fossero visibili anche prima, solo che non se ne parlava o si faceva finta di non vedere.

In primo luogo è chiaro che il referendum è stato voluto da un primo ministro Cameron, debole e preoccupato della sua leadership all’interno del suo partito, il Conservatore, e incalzato dell’ascesa di altri conservatori più conservatori di lui come Farage, che dell’antieuropeismo hanno fatto un pass-par-tout politico buono per agitare gli istinti popolari antisistema.

Insomma, il referendum, con la vittoria del “Remain”, avrebbe dovuto rafforzare Cameron: il problema non era quindi l’Europa, ma la situazione interna. Tanto era sicuro Cameron di vincere e gli altri di perdere che nessuno aveva previsto un piano alternativo. In fondo l’idea dell’Europa era considerata dai politici un po’ come una verità teologica ormai acquisita. Ma così non è, niente va mai dato per scontato in politica. Infatti, ora, Cameron non sa che fare e gli altri, che hanno vinto, tanto meno.

Altra cosa chiara è che la politica si è svuotata di senso. Non si appoggia più su ragionamenti e proposte finalizzate al bene comune, sia pure inteso secondo una prospettiva di parte, ma si nutre di impulsi, persino di bugie. La politica non è più l’arte del possibile, ma l’arte del buggerare gli elettori. I “vincitori” del referendum lo hanno ammesso candidamente. Hanno fatto una campagna pro-Brexit fondata su una montagna di bugie che nessuno è riuscito a smontare. Come ci si può fidare?

Ovvio che poi vi sia un problema di “rappresentanza”. Oppure è proprio questa la “rappresentanza” possibile? Infatti un altro elemento chiaro è che la cosiddetta società civile naviga a vista. Manca informazione, educazione, persino istruzione. Non voglio entrare nella discussione sul concetto di “popolo”, che come tale mi ha sempre ricordato le dittature e la demagogia, sia dagli albori della civiltà occidentale, ma mi pare evidente che se la maggioranza dei cittadini che ha votato per la Brexit è costituita da persone che vivono in zone depresse e di campagna, che hanno più di 65 anni ed una istruzione medio bassa qualcosa vorrà dire, sia in termini di modello di sviluppo economico da rivedere, sia in termini di progetto culturale da ripensare. In più si è aggiunto un conflitto generazionale, oltre a quello storico tra campagna e città, tra vecchi e giovani i quali hanno votato per restare in Europa, sentendosi così traditi dai propri “padri” che hanno invece goduto dei vantaggi dello stare in Europa.

Certo anche chi lavora nella City ha votato per l’Europa, per il “Remain”. Il mondo economico, il potere degli affari, sa bene che stare fuori dal mercato europeo, visto che i mercati sono sempre più globali (la fine della globalizzazione è possibile, ma non così vicina) è pericoloso. Che vi siano dei segnali evidenti che le politiche economiche non possono più essere confuse con le speculazioni finanziarie e con gli interessi delle banche è cosa evidente a tutti, spero.

Ma intanto, il giorno dopo il referendum, tutti erano lì col capello in mano a pretendere il mantenimento dei fondi europei. Infatti sono in molti che si stanno adoperando per prendere tempo e dilazionare i tempi del negoziato post-Brexit per trovare delle soluzioni soft che limitino i danni, anzi che permettano di cambiare il meno possibile l’assetto esistente. Forse la Gran Bretagna, e Cameron, definito il peggior primo ministro della storia inglese, sperano addirittura di strappare all’Europa condizioni ancora migliori. Ma l’Europa non è in buona salute e non ha certo bisogno di secessioni. Anche se alcuni membri del club hanno dimostrato negli ultimi tempi di essere poco affidabili e convinti per ragioni diverse. In ogni caso l’Europa è debole e senza una vera politica comune: vincono in generale gli interessi particolari che coincidono con quelli politici dei singoli Stati, con le lotte intestine ai singoli Stati.

Era già accaduto anche in occasione delle elezioni in Austria e Germania. L’Europa diventa uno strumento per agitare le masse, per conquistare voti specie da destra. Difficile immaginare gli “Stati Unti d’Europa”, meglio sarebbe lavorare per una struttura federale regolata su un equilibrio tra autonomia e condivisione di alcuni aspetti della politica. L’eccesso di burocrazia, l’evidente instaurazione di una neo-casta di funzionari e politici della UE è sotto gli occhi di tutti e la cosa va corretta. Così come va corretta la dura politica di austerità voluta dalla Germania, sempre per interessi interni, che ha concorso a generare il sentimento, certo sbagliato, anti-europeo.

Ho la sensazione che vi sia anche un problema di qualità dei politici: una qualità sempre più bassa, generata da un vuoto della politica stessa, come aveva messo in luce Ezio Mauro in un suo articolo post-elezioni amministrative italiane, che si aggrappa così ad idee populiste e spesso addirittura alle falsificazioni della realtà. Per questo ho apprezzato anche il pezzo di Massimo Riva (Repubblica del 28 giugno 2016) “Il fattore fermezza”. Riva dice che “chi va fuori va fuori a tutto”. Non ci devono essere spazi per statuti speciali che diano benefici politici ed economici particolari; non si può stare con un piede nell’Unione ed uno fuori usando la posizione in funzione delle opportunità del momento. Brandire l’arma referendaria per ricattare un’Europa debole: questo va evitato. Cameron non può essere lui a dettare i tempi né la politica dell’Europa solo per salvare la sua misera poltrona.

Berlino e la Merkel stanno assecondando questa linea, a quanto pare. Può anche avere un senso, ma c’è il rischio che si acceleri la disgregazione dell’Unione Europea che non è in grado né di esprimere una politica comune accettabile (si vedano i disastri sull’immigrazione e i profughi di guerra), né una politica economica sostenibile (si pensi ai disastri dell’austerità e dell’atteggiamento verso la Grecia), e neppure il rispetto di regole elementari di Statuto “associativo”.

Il rischio è che altri paesi come l’Olanda, la Slovacchia, la Polonia e persino la Francia e forse anche l’Italia possano spingere per agitare referendum anti-Europa per poi ottenere vantaggi speciali che in realtà servono ad alimentare lotte politiche di potere intestine. Che ci fanno perdere di vista i contenuti della politica e delle scelte utili da fare. Compresa quella di modificare le politiche attuali. Si fa politica sempre più con la pancia e sempre meno con la testa. Ma dove sono oggi i politici che hanno la statura di uno “statista”? In più la paura è che si alimenti un sentimento antidemocratico a vantaggio del desiderio di un “uomo forte” che risolva i problemi, sempre più ridotti in verità, a quelli particolari e miseri del singolo Stato, del singolo partito, col conseguente rischio di un escalation di conflitti: tra poveri e ricchi, tra vecchi e giovani, tra Stati più potenti e Stati carichi di rancore.

Una linea di fermezza mi pare necessaria. Così come mi pare assodato che “populista” è colui che di fronte a dimostrazioni lampanti delle maggiori garanzie di equilibrio offerte dalla democrazia delegata, continua ad agitare l’arma della “volontà del popolo”. Se ne ricordino coloro che hanno ricevuto questa delega e provino ad “aprire una nuova pagina della UE” uscendo dall’inerzia , ma senza affossare l’Europa che c’è già e di cui tutti (vecchi e giovani, profughi e nativi,) abbiamo bisogno.

Stefano Vitale

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