foto_bimba_vitaleLa storia di Fortuna Loffredo, la bambina uccisa perché non accettava più di subire violenza sessuali da un adulto, ha colpito tutti. Anche se non è un fenomeno isolato.

L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’adolescenza (in collaborazione con Terres des Hommes e Cismai) avevano diffuso nel 2015 una indagine nazionale sul tema del maltrattamento e dell’abuso sull’infanzia (www.garanteinfanzia.org). Sono 457.453 i minori in carico ai Servizi Sociali (il 63,1% al Nord, il 44,5% al Centro, il 30,5% al Sud); su 1000 bambini presi in carico 156,7 al Nord sono vittime di maltrattamenti; 259,9 al Centro e 273,7 al Sud. Di questi 4 su 100 per abusi sessuali conclamati, 7 su 100 per maltrattamenti fisici, 14 su 100 per maltrattamenti psichici, 47 su 100 per trascuratezza affettiva e materiale. Questo è l’emerso, ma il sommerso è ancora più vasto.

Nella storia terribile della piccola Fortuna colpisce naturalmente l’età della bimba: 6 anni ed il fatto, tremendo, che rifiutandosi di subire altre violenze sia stata scaraventata giù dall’ottavo piano. Dall’autopsia erano emersi “abusi sessuali cronici”. L’accusato è Antonio Caputo, un vicino di 43 anni, incriminato grazie alle rivelazioni di altre 3 bambine, sottratte dai servizi sociali e dalla magistratura alla famiglia della compagna del Caputo e aiutate da una equipe di psicologi. Le bambine hanno così avuto la forza di rompere l’omertà che circondava l’ambiente in cui quei fatti terribili sono avvenuti.

Già, perché gli adulti, come spesso capita, sapevano e stavano zitti. La complicità degli adulti è determinante in questi casi per occultare i drammi dei minori. Molto spesso gli adulti abusati sono a loro volta stati bambini abusati ed è la violenza che genera altra violenza. Ma è il silenzio a incubare questa stessa violenza, è l’omertà connivente degli adulti a nutrire il male. Il contesto sociale ha un suo ruolo: Caivano è il classico dormitorio abbandonato ai margini di Napoli, dove furono insediati ai tempi i profughi del terremoto dell’Irpinia.

Ora si invoca giustamente un’indagine rapida e severa. Anche il Capo dello Stato è intervenuto. Vedremo. Ma vorrei attirare l’attenzione su due articoli apparsi il 1 maggio 2016. Il primo sul “Corriere della Sera” a firma di Silvia Vegetti Finzi, psicologa. Qui si mette in rilievo a proposito dei bisogni dell’infazia, un dato importante “solo l’attaccamento esclusivo a una persona grande lo può salvare e quella persona di solito è la mamma”. A Caivano le mamme, bene o male, non hanno saputo garantire molto. Eppure continua la psicologa, “ho visto bimbi disperatamente attaccati a genitori indifferenti, incuranti, perfino sadici, ma per loro unici referenti possibili”.

E’ questo un dramma nel dramma: se non si capisce la necessità della dipendenza non si capisce il trauma legato all’accondiscendenza delle piccole vittime verso gli adulti di cui, terribilmente, si fidano. La bimba che ha trovato la forza di parlare, ha rotto quel “patto iniziatico, ha compiuto un gesto straordinario di coraggio: non solo ha opposto alla violenza la parola, ma ha scelto la verità contro la falsità”. Come insegnava Alice Miller (ne “Il bambino abusato”) è la verità che si deve attraversare per uscire dal dolore dell’abuso.

Ora il problema sarà come recuperare l’innocenza violata della bambina, come sostenerla dal senso di colpa, come farle sperimentare forme di amore autentico, magari anche solo normale. L’altro articolo è di Massimo Recalcati (“La Repubblica”). “Si fa presto a dire famiglia”: “dal punto di vista laico della psicoanalisi la famiglia resta una condizione essenziale per lo sviluppo psichico ed esistenziale dell’essere umano”. “La vita umana ha bisogno di casa, radici, appartenenza e non si accontenta della biologia, si nutre dell’amore dell’Altro… ma tutto questo non ha nulla a che vedere con il sesso dei genitori o la capacità di generare”. La vita umana, scrive Recalcati, ha bisogno di segni tangibili di affetto, di amore e si pone la domanda, importante anche alla luce dei fatti di Caivano, se esista un istinto materno o paterno . Non si è padri o madri semplicemente per un fatto biologico. Ci vuole sempre un dato “ultra-biologico, estraneo alla natura” per assumersi la responsabilità genitoriale.

Recalcati cita opportunamente Françoise Dolto che diceva che tutti i genitori sono “adottivi”, nel senso che divenire genitori è un percorso, non un dato oggettivo e sancito dalla “natura”. E’ la funzione genitoriale che occorre sviluppare. E i bambini di Caivano ne hanno un bisogno enorme. Riusciremo a non lasciarli soli, abbandonati ai capricci della “fortuna”?

Stefano Vitale

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