Da Palermo ci arriva una notizia: “Diventare croupier per un lavoro sicuro in tutta Europa”.
Lo scrive su “Repubblica – edizione di Palermo” , Sveva Alagna il 31 maggio 2016. La giornalista subito chiarisce che si tratta di “un mestiere visto in Italia con una certa perplessità, anche perché sono solo quattro i casinò autorizzati e tutti in mano pubblica: Venezia, Campione d’Italia, Sanremo e Saint Vincent. Sono invece moltissime le possibilità nelle navi da crociera e in Europa, in particolar modo in Inghilterra, dove sono presenti 140 casinò”. Tuttavia ci rassicura che “croupier non si nasce: i corsi di formazione durano circa tre o quattro mesi e prevedono l’insegnamento di particolari sistemi di calcolo matematico rapido, delle tecniche da gioco e di gestione dei tavoli e dell’inglese. Alle lezioni teoriche sono affiancati dei corsi di pratica per acquisire le capacità manuali che caratterizzano la professione”.
A Palermo esiste dunque una scuola accreditata che “in dodici anni ha formato e inserito nei casinò d’Europa circa 1.000 ragazzi: la scuola Croupier Courses International, fondata da Christine Chilton, con sede anche a Catania. La Chilton, scomparsa qualche mese fa, era stata la prima croupier donna a imbarcarsi in una nave da crociera, nel 1970” .
Il corso ha un costo di 2400 euro, le possibilità di inserimento sono al 100% e lo stipendio medio è di 1800 euro al mese (ma il Pit boss, responsabile di un’intera area del casinò, può arrivare a 4000 euro).
In tempi di disoccupazione anche questa può essere una soluzione. D’altra parte, la pratica del gioco d’azzardo in generale è in grande aumento in Italia, come attestano molte statistiche. Sarà a causa della crisi, ma sono sempre di più le persone che sfidano la fortuna con l’azzardo, anche se molte di essere finiscono in un vero e proprio dramma. Non sto dicendo che i giovani senza lavoro non abbiano il diritto di fare carriera nei casinò e neppure che non si debba fare business con le debolezze altrui. Tuttavia il fenomeno non va sottovalutato perché poi certe dipendenze si pagano, non solo economicamente.
Inoltre, la questione investe appunto sempre più i giovani. La necessità sacrosanta di un lavoro s’intreccia pericolosamente con il rischio di devianze, con l’inevitabile divinizzazione del denaro. La letteratura ci mostra esempi interessanti. Si pensi al racconto “La pelle di zigrino” (1831) di Honoré di Balzac, maestro nel descrivere le sale da gioco del Palais Royal di Parigi e la fauna di uomini che le popolano. Che sia il bisogno a spingere a ‘giocare’ con il denaro, oppure il vizio come una febbre o la noia per una vita ormai priva di interessi e di stimoli, non fa differenza. Questi uomini giocano e sanno che alla fine non ci saranno vincitori perché è il desiderio di autodistruzione che vince e porta a consumare il denaro, i giorni, la vita.
Il giovane protagonista, non è un giocatore di professione e dopo aver perso la sua unica moneta d’oro, esce disperato dalla sala del Palais Royal. Dopo aver rimandato il suicidio nella Senna, entra nel negozio di un antiquario per passare il tempo che lo separa dalla morte. Davanti ad una grande cassa quadrata di mogano appesa a un chiodo con una catena d’argento è preso dalla curiosità. Raphaël confida all’antiquario la sua triste condizione e il desiderio di uccidersi, ma finisce per fare un vero e proprio patto con il diavolo, quando decide di accettare la pelle di zigrino che quello gli ha proposto, un vero talismano che gli può procurare tutto quanto desidera; ma deve stare attento perché diventerà più piccola via via che lui si procurerà piaceri e soddisfazioni materiali; alla fine non ne resterà niente e lui morirà.
Anche Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal” (1904) descrive l’attrazione esercitata sul protagonista da un’insegna, vista in una vetrina di Nizza, “Dèpôt de roulettes de précision”. Mattia decide poi di avventurarsi a Montecarlo per tentare la fortuna al gioco. La bisca gli sembra un tempio di cattivo gusto alla Fortuna, anzi «un mattatojo per le povere bestie», ma «la maggior parte della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle cinque sale». Alla fine Mattia si decide a fare una puntata: anche lui sarà travolto dalla frenesia inarrestabile del gioco, visto che le vincite si susseguono l’una con l’altra. Anche se poi si rende conto che chi vince veramente sono i ladri che si impossessano senza ritegno delle vincite altrui. Ma la coscienza di Mattia si altera, la realtà perde la sua consistenza e l’unica cosa che egli percepisce è il delirante legame che lo unisce al gioco.
Ma l’immagine letteraria che certamente è più viva nella memoria è quella dell’ossessione per la roulette di Aleksej, protagonista e voce narrante de “Il giocatore” (1866) di Dostoevskij . Il protagonista inizia a giocare per Polina, della quale è l’innamorato precettore, perché la famiglia della ragazza è sull’orlo della rovina per i debiti contratti. Quando poi si trova nella sala da gioco del casino di Ruletenberg dove deve accompagnare la nonna di Polina, «la terribile, ricca settantacinquenne Antonída Vasílevna Taràseviceva proprietaria e signora moscovita» osserva che i ladruncoli hanno buone possibilità in quell’ambiente proprio impossessandosi delle somme vinte da altri. La loro sfrontatezza e risolutezza nel prendere il denaro vinto da altri è tale che il vero vincitore finisce per vergognarsi, non riesce a reagire e, come se fosse lui il ladro e non il derubato, se ne va.
Sappiamo che Dostoevskij conosceva bene l’ambiente del gioco e ne era attratto in modo irresistibile, anche perché era oberato dai debiti contratti proprio per poter continuare a giocare. “Il giocatore” fu scritto per far fronte alle incessanti richieste di saldare i propri debiti, in un incredibile intreccio di realtà e finzione. Nel racconto, il culmine della frenesia provocata dal gioco, in particolare se vincente, si ha quando Aleksej fa da spalla alle puntate prive di qualsiasi logica della nonna di Polina. In seguito Aleksej si reca a giocare alla roulette, vincendo in meno di un’ora centomila fiorini, preda di una febbre che gli toglie la coscienza delle proprie azioni.
Ma il denaro vinto non l’aiuta a conquistare Polina e così si dà ad una vita di dissipazione a Parigi, sperperando tutto il suo denaro. Gioca di nuovo, perde, gioca, vince, gioca, perde; finisce due mesi in prigione per debiti. Fa il servitore. Ma poi si fa prendere ancora dalla febbre del gioco; vince, perde. Quando alla fine gli resta solo un fiorino, esclama: «Ah, dunque, ci sarà di che desinare!», ma subito dopo cambia idea e, tornato indietro, entra di nuovo nel casinò di Homburg e, giocando l’ultimo fiorino, vince.
Insomma non c’è pace per chi gioca d’azzardo. Ma chissà che uno dei giovani uscito dalla scuola per croupier di Palermo non scriva lui un nuovo racconto sul tema.
Stefano Vitale