foto_lat.greco_vitaleSu “La Stampa” del 26 aprile e “Repubblica” del 27 aprile si parla giustamente del “via al Concorsone” della scuola che dovrebbe portare a stabilità 63.578 docenti precari. L’80% dei candidati è donna, l’età media è di 39 anni e sono ben 165.578 i docenti che vi prenderanno parte dal 28 aprile sino al 31 maggio.

Sono tutti insegnanti che stazionavano da anni nelle vecchie graduatorie e che sono in possesso di un’abilitazione. Chi resterà fuori rischia di dover abbandonare la speranza di insegnare. Sono ovviamente molte le polemiche ed i punti di vista su questa operazione del Ministero. E’ una materia complessa, resa ancor più complessa da fatto che in questi anni i vari governi e ministri che si sono avvicendati hanno sempre introdotto dei cambiamenti alle normative già esistenti, determinando così un castello di leggi e leggine spesso indecifrabili anche per chi da anni segue queste vicende.

Il Decreto Ministeriale che ha fissato le regole di questo concorso è del febbraio 2016. L’impressione è che tutto sommato sia necessario mettere un po’ d’ordine e da questo punto di vista mi pare una cosa buona fare un concorso. Certamente uno su tre insegnanti resterà fuori. Questo può far male. Su “La Stampa” del 26/4/2016 Lidia Catalano intervista un’insegnante precaria che da anni lavora all’Istituto Comprensivo di Chieri 1, la quale racconta dei suoi timori concludendo con la frase “il mio futuro è appeso a quelle 8 domande”.

La cosa mi incuriosisce. Vado a cercare il Decreto sul sito del Ministero. Non è facile trovarlo, ma lo trovo. Nell’Allegato A sono scritte le modalità di svolgimento della prova scritta. E trovo la conferma di quanto avevo letto già il 24 aprile su “Domenica” del Sole 24 ore a firma di un allarmato Tullio Gregory. “Il decreto ministeriale ha soppresso ogni prova scritta, italiano-latino, greco-italiano, unico strumento serio di verifica della conoscenza delle lingue (sono infatti mantenute le prove scritte per le lingue moderne). Le prove scritte di greco e di latino sono sostituite da “quesiti” volti a verificare la conoscenza di una tra quattro lingue straniere (francese, inglese, spagnolo, tedesco).

Dunque i nuovi professori di letteratura greca e latina non dovranno mostrare per iscritto di conoscere le lingue antiche, bensì una moderna”. Gregory denuncia così l’aziendalismo trionfante della scuola, la liquidazione del greco e del latino dal nostro sistema scolastico e di ricerca. E va oltre spiegando che i “perversi sviluppi della riforma Berlinguer hanno fissato per le università il numero di ore che uno studente può dedicare alla preparazione di un esame e il corrispondente numero di pagine da studiare”. Pertanto ne consegue la “proibizione di programmi che comportino la lettura di interi libri dell’Odissea o dell’Iliade.” Inoltre “nella scuola media superiore, l’uso delle traduzioni è vivamente consigliato anche nel recente decreto ministeriale”.

Non faccio parte di coloro che difendono il passato, né voglio sostenere che senza il latino e il greco non si possa parlare o scrivere l’italiano (cosa per altro di cui sono convinto), e neppure voglio dire che queste lingue non sono affatto “morte” e che fanno da sostegno necessario di importanti modelli di pensiero e ragionamento. Mi limito a riprendere ancora le parole di Tullio Gregory: “le conseguenze si fanno sentire in tutto il sistema ricerca: sono sempre più rari i conservatori dei manoscritti greci e latini, di cui le nostre biblioteche sono ricchissime… persino l’Accademia dei Lincei, per la catalogazione informatica ha immesso in rete schede con evidenti errori di latino…”.

Insomma, malgrado le parole retoriche di salvaguardia e difesa delle “nostre radici culturali”, il processo di emarginazione e svilimento della cultura classica procede senza soste. Ciò è grave non solo perché ogni impoverimento culturale va di pari passo con l’impoverimento della società tutta tout court, ma anche perché si perdono risorse ed occasioni di creare posti di lavoro di qualità, di rilanciare l’immagine del Paese. Che non passa solo attraverso inutili start up o la solita pizza e mandolino, con tutto il rispetto per la pizza e pure il mandolino.

Intanto su “Repubblica” del 28 aprile leggo, a firma di Luca De Vito, che “Nasce a Milano il certificato sulla conoscenza del latino”. Tante aziende lo richiedono. Si tratta di una iniziativa della Consulta Universitaria per gli Studi Latini sulla base di un accordo con il Provveditorato agli Studi ed alcuni Atenei. Qualcosa che viene dal basso, dunque. Il modello del test che serve per il certificato è comunque sempre lontano dalla valutazione necessaria. Ci sarebbero 4 livelli da superare, ma i primi tre sono esercizi utili a verificare la comprensione generale di un testo, domande con risposte vero o falso, frasi con buchi da riempire. Insomma, quasi un gioco. Solo al quarto livello c’è anche un testo, finalmente, da tradurre.

L’idea di questa “certificazione” nasce dall’esigenza aziendalistica di poter inserire nel curriculum il fatto che si conosca un po’ di latino. Molte aziende all’esterno lo considerano un buon requisito perché denoterebbe “capacità di logica e di ragionamento”. Il latino come “cartina tornasole che indica potenziali capacità”. E poi perché il latino è la base culturale e linguistica dell’Europa. Tutte ottime intenzioni che sembrano contraddire l’emarginazione della cultura classica da parte dei vari decretini misteriali. Un segnale che è comunque blando, locale, isolato, ma è pur sempre un segnale di “resistenza classica”.

Stefano Vitale

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