Adolescenti sospesi

foto_adottati_vitaleGrazia Longo sul sito www.lastampa.it del 17.5.2016 scrive che “In Italia sono 300 i minori in attesa di una famiglia.” La notizia fa riferimento ad un’audizione del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in commissione Giustizia della Camera. Il ministro ha spiegato che «In Italia, a fronte di un numero complessivo stabile di minori dichiarati adottabili, sono circa 300 i minori dichiarati adottabili ma non adottati».

Si tratta spesso di minori di oltre 15 anni e di stranieri e in alcuni caso anche di disabili. A questi 300 ragazzini fanno da contro altare i 1.072 bambini adottati nel 2014, rispetto alle 9.657 richieste di adattabilità.  Accanto al calo delle adozioni in Italia, si registra anche una diminuzione delle «adozioni internazionali: nel primo trimestre del 2015 i procedimenti internazionali definiti dal nostro Paese sono stati 3.189, a fronte degli 8.540 definiti nel 2012, dei 7.421 del 2013 e dei 6.739 del 2014», sottolinea ancora Orlando. Da quanto riferisce Grazia Longo andrebbe “però precisato che gli italiani sono assai più disponibili di altri ad adottare un bimbo straniero. Basti pensare che il nostro Paese, in fatto di adozione internazionale, é secondo solo agli Stati Uniti, che però hanno una popolazione più di 5 volte superiore alla nostra”. E comunque nel primo semestre del 2015 i relativi procedimenti definiti sono stati 3.189, a fronte degli 8.540 del 2012, dei 7.421 del 2013 e dei 6.739 del 2014.

L’articolo prosegue spiegando che «Il calo registrato per il nostro Paese si riscontra anche nel panorama internazionale», sottolinea il Guardasigilli. Tanto per capirci «il Brasile è passato da 543 minori concessi in adozione all’estero nel 2006, a 238 nel 2013; la Cina, da 14.434 a 2.931 minori adottati nel 2013; l’India da 1.076 minori adottati nel 2003 a 363 minori adottati nel 2012; la Federazione Russa da 9.472 minori nel 2004 a 2483 minori adottati nel 2012». Quanto ai Paesi di accoglienza, esemplare il caso degli Stati Uniti: «sono entrati, nel 2015, 6.408 bambini adottati con adozione internazionale, mentre, nel 2005, le adozioni internazionali degli Stati Uniti riguardarono 22.508 bambini: un crollo di oltre il 70%».

Adottare un bambino non è mai una cosa semplice, specie in Italia. Certamente vi sono difficoltà legate alle procedure talvolta complicate e lunghe; altre difficoltà sono dovute alla mancanza di coordinamento tra i vari attori del territorio e, nel caso di bambini stranieri, anche delle istituzioni preposte. Marco Griffini, presidente di Aibi, uno dei 9 Enti che assistono i genitori nella pratica dell’adozione internazionale sostiene che “Il vero problema risiede nella latitanza, soprattutto negli ultimi due anni, della Cai, la Commissione adozione internazionali” . Cristina Nespoli, presidente di Enzo B dice che «La verità è che occorre una cooperazione a livello internazionale con un tavolo di lavoro che fissi regole di trasparenza e legalità e che monitori la situazione di tantissimi bimbi profughi senza famiglia, che potrebbero benissimo essere dati in adozione se solo si prendesse in mano la situazione».

Ma ho l’impressione che vi siano anche altri motivi. Prima di tutto il mondo intero sta vivendo una crisi molto pesante sia sul piano economico che sociale. Le guerre che stanno massacrando intere popolazioni, le grandi migrazioni che caratterizzano questi anni non sono certo condizioni favorevoli per gestire processi di adozione, che siano legali o meno. Il fenomeno del terrorismo e del radicalismo islamico ha anch’esso in qualche modo bloccato i percorsi di adozione determinando paure, diffidenze e interrompendo relazioni internazionali. Inoltre il problema riguarda da sempre i bambini più grandi.

In Italia, realtà che conosco meglio, si preferiscono da sempre le adozioni di bambini più piccoli: preadolescenti ed adolescenti sono difficili da gestire e le famiglie non sono sempre, anche legittimamente, disponibili. Manca certamente una preparazione reale delle famiglie ad affrontare il passo dell’adozione e non è detto che sia comunque sufficiente.

Molto spesso ho incontrato bambini prelevati da orfanotrofi o comunità e poi rispediti al mittente perché non rispondevano alle attese della famiglia, già “troppo buona” per aver fatto il bel gesto. Ho anche incontrato famiglie distruggersi per la presenza di un bambino adottato; ed ho visto famiglie lottare con forza e con fatica per gestire anche solo in maniera “sufficientemente buona” la crescita, capricciosa e risentita di un ragazzino adottato. E non si sottovaluti la difficoltà di integrare minori di colore, di altre culture in un contesto come il nostro non sempre disponibile all’accoglienza, malgrado le apparenze.

Molti dei minori in attesa di adozione sono inseriti in strutture di comunità, più o meno di qualità, che però hanno subito le conseguenze dei tagli sociali e faticano a garantire dispositivi di rete e di sostegno continuativi. Le stesse famiglie che riescono ad adottare un minore poi sono spesso lasciate da sole senza un sostegno psicologico ed educativo, come se la “famiglia in sé” bastasse. A ciò si aggiunga una fragilità culturale dell’idea stessa di genitorialità certamente connessa con le trasformazioni delle famiglie (sono presenti sempre più famiglie mononucleari, miste, composte e ricomposte, ecc.), ma anche con una precarietà personale e sociale che non aiuta i processi di assunzione di responsabilità adottiva.

Gli adolescenti, poi, sono difficili, fanno anche paura, mettono in crisi gli adulti e allora giocoforza restano al palo. Forse occorrerebbe rilanciare una visione più “professionale” del problema: prendere sul serio le difficoltà del momento, investire di più in formazione degli educatori, degli insegnanti, rafforzare le reti sul territorio tra servizi sociali, strutture educative, scuola, reti di famiglie di volontari, servizi psicologici e mondo del lavoro (il vituperato “Jobs Act” dovrebbe avere uno spazio in più per questi ragazzi) e costruire progetti di sostegno per questi adolescenti, al di là della prospettiva della famiglia in sé, che rischia di divenire un’utopia rassicurante per le istituzioni, ma un incubo per i ragazzi.

Le istituzioni potrebbero quindi tornare ad essere più presenti anche nei percorsi di crescita e di accompagnamento e non solo nella “prima accoglienza”. Sappiamo che non è facile, ma delle scelte vanno fatte, altrimenti questi adolescenti diverranno un costo sociale futuro ben più alto in termini di emarginazione, devianze, delinquenza.

Stefano Vitale

CONDIVIDI