Verrà 14 aprile 2008, il lunedì sera.
Ma il ’68 sarà davvero finito?
Forse Giulio Tremonti come libellista non passerà al crebbio metafisico di Emanuele Severino, ma di certo solo per uno zag della vita è diventato prima principe dei commercialisti meneghini, indi superministro dell’economia berlusconiana, e non il più efficace autore di slogan pubblicitari: da azzerare i signori ‘dieci piani di morbidezza’ e/o ‘Il signore sì che se ne intende’.
Infatti credo che la sintesi mentale-linguistica più illuminante a descrivere il devastato paesaggio sociopolitico italiano, indicandone nel lampo linguistico una via d’uscita, breve frase perfetta che vorremmo davvero il programma del prossimo governo Berlusconi: “Il sessantotto è finito’. Ma davvero questo slogan diventerà dalla sera del prossimo 15 aprile la bussola del nuovo governo, ovvero il terzo Berlusconi, o l’icastico messaggio tremontiano non piuttosto resterà uno dei tanti progetti politici tramontati prima ancora di sorgere?
Qui sta il punto: convincere non gli inconvincibili capanneschi bertinottisti, ma proprio le sue avanguardie politiche del centrodestra che l’economia del ’68, ovvero l’economia morofanfanica, è davvero finita.

Quanto non sarà facile l’ho intravisto in una di quelle grandi cene elettorali pagate dal candidato, qui addirittura una trinità, che aveva messo a mensa forse più millecinquecento che mille commensali; i tre candidati proprio perché al di sotto della soglia di certa eleggibilità costretti a spendere per segnalarsi nel dopo come non marginali facitori della vittoria. Una certa vittoria dalla quale come almeno la metà dei commensali si aspettavano dei benefici: prebende nelle forme più varie, e tutte attingibili alla stessa mammella: la spesa pubblica, tetta che la filosofia del ’68 ha insegnato a mungere secondo una vera logica di sfrenata liberalizzazione, ovvero cancellando ogni traccia di comune senso del pudore circa l’attingere alla spesa pubblica illegittimamente.

Da questa longeva predazione, vero emblema araldico del fu cattocomunismo, sono nati: la crescita dell’imposizione fiscale e il simmetrico declino della capacità produttiva del paese, nonché il vergognoso crescere dell’economia criminale al declinare dell’economia di mercato: minata non meno che dalla corruzione da una ipertrofia legislativa devastante.
E nulla misura questa perdurante devastazione quanto l’aumento di ben 100 miliardi del gettito delle entrate tra il 2005 e il 2007, prelievo che ha significato deviazione dei flussi finanziari verso lo sperpero improduttivo, quei 100 miliardi solo nel pensiero bertinottesco capaci di porre rimedio al crescere delle famiglie inghiottite dalla povertà: che oggi hanno raggiunto l’angosciante dimensione numerica di 4,5 milioni, a individuare che un italiano su cinque sta sotto la soglia della povertà.

A essere cauti, almeno la metà di questi poveri sono poveri perché qualcun altro, come appunto i miei convitati al festino elettorale, per la mediazione dello Stato, estorcono ai poveri quei pasti che tanto meno avrebbero dai Bertinotti; che da sempre nelle democrazie esistono, campano del loro trimalcionico banchetto elettorale nel modo moralmente più indegno: senza neanche essere sfiorati dal dubbio che ogni loro pasto, ottenuto in nome del pasto di chi non mangia, è un pasto che significa meno cibo almeno per dieci persone ai livelli inferiori della struttura sociale. E il processo oggi in Italia si sta aggravando perché, stando a ricerche attendibili sul debito delle famiglie, nel trascorso 2007 è aumentato di ben il 57% rispetto al 2006 il numero dei nuclei familiari costretti a ricorrere ai risparmi e/o al credito per pareggiare il bilancio familiare, ovvero facendo passi verso quell’area dell’indigenza che è in continua crescita, e spesso per la dolorosa strada dei prestiti usurari, che significano la commistione, quando non la contaminazione tra l’economia criminale e le persone oneste.

Come potrà il governo Berlusconi andare a sostegno di quest’area del paese, questo crescente buco nero che potrebbe a breve ingoiare le stesse istituzioni democratiche?
Chiudere con l’economia del ’68 è certamente una buona linea, ma in questo momento, mentre il cosiddetto tesoretto si è semplicemente dissolto, mentre il nostro PIL sta sforando il parametro di Maastricht non del previsto 2,4, ma del 3%, aumentando e rendendo più fragile il nostro debito pubblico. Dove, questo il quadro, trovare, con la connessa stasi della crescita del monte fiscale in ragione della crescita al limite del negativo dello stesso PIL, i soldi per una politica di intervento a sostegno della famiglie, che a un tempo sostenga anche il sistema delle imprese, ovvero il solo vero volano che può contrarre lo spazio dell’area della povertà?

Il luogo lo ha visto perfin Veltroni: sono gli 80 miliardi annui di sprechi della macchina burocratica pubblica, così stimati: il 18% derivano dalla sanità, il 15% dalla scuola, il 32% da false pensioni soprattutto di invalidità, e ben il 35% dall’area della giustizia civile. Porre fine al ’68 significa oggi agire su quelle percentuali facendole scendere, ma impresa possibile solo andando a colpire aree ben precise della politica organizzata in forme corporative, nella sostanza criminogene. Queste aree cercheranno di reagire e resistere, anche sostenute da tutta quella galassia di mercato della politica un cui tristo paesaggio mi è stato tratteggiato dalla cena elettorale: le attese e progetti che vi circolavano, tutti sostanzialmente parassitari: tesi a conquistare illegittimamente quote di monte fiscale a vantaggi consortile proprio.

Il prossimo ministero Berlusconi si troverà a dover non solo imbrigliare quelle attese di una parte dei suoi, e la più forte perché sostenuta dalle simmetriche trame dei nuclei corporativi organizzati dell’opposizione, con la sua galassia di cooperative sociali e fondazioni varie, dalle culturali alle bancarie. Qui la politica del prossimo governo dovrà intervenite per recuperare, sottrarre reddito in misura rilevante, ovvero sottrarre rilevanti flussi monetari a potenti consortili che se ne sono impadroniti, e spesso attraverso una legislazione legittimante: il caso Alitalia-Malpensa ne è una evidenza; ovvero trasformando le leggi da strumento di uguaglianza in strumento di oppressione, percorso lungo il quale le democrazie deperiscono e muoiono, tra drammatiche convulsioni sociali, come appunto se ne preparano in Italia.

Dal quadro fin qui tracciato, nel suo prossimo ministero Berlusconi dovrà affrontare una fatica degna dell’Ercole chiamato a pulire le stalle di Augia, Berlusconi le stalle della politica italiana. E sul suo ministero incombe la profezia, non così campata in aria, di Beppe Grillo: ‘tra due anni il paese affonderà nel caos’. E vi affonderà certamente, se il prelievo fiscale non sarà rapidamente riconsegnato alla sua vera funzione redistributiva egualitaria, tra scuola, pensione e sanità. Ma scuola, pensione e sanità sono anche le aree sociali dove oggi si genera, e spesso sotto la protezione della legge, e con il sostegno, l’intervento della criminalità organizzata, il grosso degli 80 miliardi annui di spreco; ricchezza per una perversa minoranza parassitaria: ridurre la quale a livelli fisiologici di paese industriale è l’immane, erculeo compito del prossimo ministero Berlusconi.

Il prossimo governo dovrà, detto in tremontico, porre fine all’economia del ’68, detto invece in metafisico alla Severino: lottare e sottrarre al crimine nelle sua varie forme l’Italia, la cui democrazia oggi nel paese ben prossimo ad esserne sopraffatto, se una ferma azione politica non erode l’area dell’economia politica corporativocriminale di almeno un 10% all’anno fino a dimezzarla nel prossimo mandato politico. Questo è il processo politico virtuoso primario da avviare, e tutto il resto verrà da sé.

Buon lavoro, Cavaliere; e prima dall’Italia che dallo scrivente, un’Italia che soprattutto farebbe volentieri a meno del realizzarsi della profezia di Beppe Grillo, ma che è in cammino: diverrà accadimento sventurato, se non si procede contro lo sperpero criminale pubblico.

Piero Flecchia

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