La storia è nota da tempo. Nell’aprile del 2010, ricorda Matti Feltri nel suo “Buongiorno” su “La Stampa” del 14.03.2017 “una coppia di Casale Monferrato rincasa con la bimbetta. E’ una coppia particolare: Luigi Deambrois ha 68 anni, Gabriella ne ha 56. La figlia Viola ha venti giorni. I due salgono in casa a portare la spesa e lasciano la bimba in macchina qualche minuto. E’ sufficiente perché un vicino allerti la polizia”.
Viola finisce in istituto e i genitori vengono accusati di abbandono di minore. Partono ovviamente le procedure per l’affido della bambina. Il Tribunale dei Minori la dichiara adottabile in primo, secondo e terzo grado. Intanto i genitori vengono assolti dall’accusa di abbandono. La Cassazione, in un raro caso di “quarto” grado dà ragione alla coppia che rivendica la restituzione della bambina vista l’infondatezza della causa che aveva innescato il meccanismo di “sottrazione” della bimba alla famiglia naturale. E non cede ai pregiudizi sull’età dei genitori. Si torna in Corte d’Appello, a Torino. Ma Viola deve rimanere con la famiglia adottiva. Siamo quindi all’oggi, 2017.

Il giudice ha privilegiato, come scrive molto bene Chiara Saraceno su “Repubblica” “la stabilità affettiva e identitaria di una bambina che non conosce altri genitori se non quelli che l’hanno allevata negli ultimi cinque anni”. Si è figli di chi ti alleva, di chi si prende cura di te. Ma in questo caso tutto nasce da un vulnus iniziale, per altro, sia pure con esasperante lentezza riconosciuto pienamente dalla Giustizia, anche dalla Corte d’Appello di Torino (che non vuole “replicare una ingerenza dello Stato come quando la bimba fu tolta ai genitori naturali”, cfr Federica Cravero su “Repubblica” del 14.3.2017).
Viene quindi posto in primo piano l’interesse del minore, malgrado gli errori e i pregiudizi degli adulti. E’ come se si volesse porre riparo a qualcosa, sapendo che in realtà si sta scegliendo il male minore. E sapendo che potrebbe non essere quello il male minore. Sempre come ha scritto Chiara Saraceno se si forse trattato di professionisti o intellettuali in vista, difficilmente i Servizi Sociali e i Giudici avrebbero agito nel modo i cui hanno agito. Giorgia Meloni , con la quale non sono mai d’accordo, nel pezzo scritto da Grazia Longo su “La Stampa”, ha ricordato che Gianna Nannini ha avuto un bambino a 54 anni con non-si-sa-chi, e nessuno ha detto nulla. Ma non è questo il punto.

In questa vicenda il giusto e l’ingiusto sono confusi, sfumati ed ha ragione ancora Chiara Saraceno quando dice che “tutti sono perdenti” perché la soluzione non è una soluzione, è una lacerazione in più, magari solo rinviata, posticipata, ma che i Servizi Sociali e i Tribunali dovranno avere il coraggio di affrontare. Visto che hanno in qualche misura determinato questa situazione.

L’adozione di questa bimba non ha all’origine un abbandono. Ha all’origine un forte desiderio di genitorialità: è questo che è stato messo in discussione?

In queste storie ci sono sempre questioni nascoste, coperte dal segreto processuale. Non tutti gli atti sono accessibili a chiunque. Lo stesso vale per i giornalisti che spesso costruiscono articoli su fatti solo superficialmente verificati e verificabili. Magari salterà fuori che i due genitori erano inadeguati sin dal principio, anzi prima del principio. Ma noi, per ora, non possiamo saperlo.

Come è stato detto da Melita Cavallo sempre su “la Stampa” del 13.3.2017 e su “Repubblica” il 14.3.2017 i “genitori erano stati giudicati inadeguati per l’adozione prima della nascita della figlia”. Ma questa è la loro figlia, giusto o sbagliato che sia. Ma forse per i giudici di Torino ha pesato di più la maggiore conoscenza di fatti che, a noi comuni lettori, non è dato conoscere.

E’ stato rilevato anche che questa Corte d’Appello ha agito in direzione opposta e contraria a quella che, sempre a Torino, tolse la famosa Serena Cruz alla famiglia adottiva che aveva avuto la bimba contravvenendo alle leggi sulle procedure di adozione. Nella vicenda di Casale, i genitori naturali sono formalmente “senza colpa”. Ma non basta, non è bastato. E i dubbi restano.

Ogni giorno vediamo bambini in gravi condizioni familiari che restano nella propria famiglia d’origine in nome del diritto a restare con la “propria famiglia”, come inchiodati ad un destino supremo. Qui si è preferito identificare tale diritto con la “continuità” familiare ed educativa della famiglia adottiva che sta crescendo la bimba, ignara di tutto.

Qui entra in gioco, in prospettiva, un altro diritto: quello di conoscere (e capire) la propria origine e la propria storia. Sempre Chiara Saraceno dà un saggio consiglio: non attendere i 18 anni ed attivare un percorso di avvicinamento e mantenimento di un rapporto della famiglia naturale (i “nonni-genitori”) con la famiglia adottiva e la bambina. Scrive Saraceno “sarebbe anzi auspicabile che, invece di continuare a dare battaglia in tribunale, prolungando l’incertezza sullo statuto legale di una bambina che diventa sempre più grande, la coppia piemontese chiedesse questa possibilità e che il tribunale e i servizi sociali la sostenessero, appellandosi alla generosità e intelligenza dei genitori adottivi perché aprano i confini della propria famiglia, aiutando la figlia ad elaborare in modo positivo la complessità della propria nascita e della propria collocazione nel mondo”.

I giudici, se non altro, ci dicono, con la loro attuale sentenza, che la pretesa perfezione della verità è un assurdo, che siamo sempre lì a fare aggiustamenti, a rappezzare, mediare e rimediare ad errori nostri e di altri, a navigare a vista tra scogli e segreti, tra detti e non detti. Ma se è troppo tardi per le procedure della giustizia, può non essere tardi fare sino in fondo l’interesse profondo della bambina, prevenendo altro disagio. Sperando che non si metta altra spazzatura sotto i tappeti.

S. V.

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