Il problema della manipolazione culturale della tradizione letteraria italiana
nelle lotte politiche del XX secolo

“Chi non ha conosciuto Mario Sobrero non ha conosciuto la probità intellettuale fatta persona.”
Lorenzo Gigli

Tra le personalità della cultura italiana del ‘900 segnate da autentica grandezza, una è certamente Mario Soldati, narratore complesso e multiforme, regista di grandi esiti; ma per i produttori cinematografici dei suoi dì soprattutto impareggiabile maestro nel mestieraccio: come si gira una pellicola in un paio di mesi al risparmio, e con risultati estetici sempre alti. Soldati l’aveva imparato alla scuola di quel capitalista sognatore e cinico a un tempo che fu Riccardo Gualino, ma al quale la dura lezione non la perdonò mai: si veda il ritratto che ne traccia nel suo forse maggior romanzo: “Le due città”. Il Soldati regista operò anche in ambito televisivo, con viaggi alla ricerca di un’Italia in dissoluzione, sotto l’incalzare dell’avanzante industrializzazione del cosiddetto miracolo. Sono documentari a tramandare i valori in dissoluzione delle tradizioni popolari, che investigò tra il desco e il sudore che lo produce: un classico è il suo viaggio nella valle del Po.
Artista poco segnato da tensioni di tipo tanto politico – pur antifascista d’ambito gobettiano – che metafisico religioso, anche se spesso la sua prosa procede per suggestioni fantastiche e tensioni dove il sesso si trascende in eros per complesse alchimie culturali sotto il segno della pulsione mistica – si veda quel vero gioiello letterario che è ‘Il peccatore” -, per comprendere e ricostruire il formarsi dello sguardo estetico di Mario Soldati, individuarne l’origine, particolarmente opportuno giunge il recupero della sua tesi di laurea – Mario Soldati ‘Boccaccino’, pp 112, ed Aragno, euro 10.

Nella bella prefazione il curatore Giacomo Jori, ricostruendo, nell’ambiente di formazione di Soldati, le sue relazioni con la pittura militante, rimarca la sua stima e duratura attenzione per l’arte di Emilio Sobrero; un cognome che mi ha richiamato alla memoria un altro Sobrero: Mario, fratello di Emilio, e negli anni di formazione di Mario Soldati scrittore di successo, che Soldati deve aver di certo conosciuto e letto, ma che sembra essere passato irrilevato nelle sue pagine. D’altra parte, di Mario Sobrero (Torino 1883 – Roma 1948) il canone critico, che oggi organizza la memoria letteraria, sembra non serbare traccia alcuna.
Un’omissione ben singolare, perché almeno un suo romanzo: “Pietro e Paolo” – ed. Treves 1924 – fu libro che conobbe grande consenso di pubblico come di critica, tanto da essere tradotto in francese, inglese e tedesco. Certamente il successo era legato al tema di stretta attualità dell’opera: una delle più attente e acute ricostruzioni della grande mareggiata rivoluzionaria planetaria, esplosa come reazione alla prima guerra mondiale, in un suo punto specifico: la Torino del triennio rosso 1919 – 21, il cui climax è ricostruito con acuta penetrazione; lo svolgersi degli eventi esposto con una puntuale attenzione ai fatti.

La prosa di Sobrero è costantemente tesa a cogliere i grandi movimenti psichici collettivi antagonisti, entro la visione del conflitto di classe che li anima, e produce inevitabilmente personaggi schematici, maschere in un ruolo, mentre il quadro d’insieme disegna una disperazione assoluta, davanti alla violenza dello scontro, la cui sola immagine simbolica adeguata a rappresentare il destino umano diventa quella del Cristo deposto dalla croce.
Soltanto nelle pagine della ‘Storia della rivoluzione russa’ di Leone Trotzchij, che descrivono i movimenti di massa degli operai di Pietroburgo dilacerati tra il sogno politico e l’evasione nell’alcoolismo, si ha una rappresentazione altrettanto articolata e complessa delle spinte operaie alla ‘renouatio mundi’ rivoluzionaria degli operai di un Mario Sobrero non meno acuto nel cogliere e rendere la complessa trama vittoriosa della classe politica dominante, a Torino vittoriosa su un proletariato determinato nel suo disegno; sopraffatto soltanto dopo essere stato assediato nelle fabbriche occupate, braccato nelle strade dalla guardia regia, stremato economicamente, fino a essere ridotto alla fame, dagli scioperi e dal blocco della produzione.

La spinta rivoluzionaria popolare: la sua dimensione radicale spontanea, nasce in Europa dal rifiuto della guerra: questo Sobrero delinea, e in uno il paradosso che questo proletariato rivoluzionario non è altro che il prodotto: la creazione della guerra stessa, che ha moltiplicato esponenzialmente la produzione industriale, sradicando dalle campagne e addensando in quartieri alveare il popolo delle fabbriche; non meno essenziale per l’economia bellica dei soldati. Come i soldati al fronte, è una classe operaia dallo sforzo bellico spietatamente sfruttata, ridotta al limite della fame. Da questa esperienza e dal grandinare di lutti nelle singole famiglie, per le morti dei figli al fronte, nasce negli operai l’odio per la guerra, che i socialisti insegnano a vedere come un modo della borghesia per accrescere le proprie ricchezze. Il proletariato torinese descritto da Mario Sobrero è saturo di questa propaganda, ma ben poco succube delle organizzazioni che cercano di inquadrarlo, comunisti gramsciani inclusi. È una massa coesa dalla fame e da una suggestione di speranza che nasce dalla totale assenza di prospettive: da una necessità di non capitolare nella nuda disperazione. Ma questa unità rivoluzionaria si frange sul tamburo della vita in una somma di urgenze private quotidiane, soltanto sopprimendo le quali si apre la coscienza a una vera ascesi mistica materialista: la prospettiva rivoluzionaria. Ma in questa dimensione mistica vivono anche i nazionalisti, e uno è Paolo Artero. Ha combattuto al fronte e poi, davanti alla rivoluzione incombente, aderito all’organizzazione antagonista fascista.

Paolo è il simmetrico e antagonista borghese del cugino proletario Pietro, convinto agitatore e organizzatore del proletariato in polemica costante con gli anarcoindividualisti. Egli, dopo la distruzione fascista della Camera del Lavoro andrà a morire, non sappiamo se per un volontario suicidio o per un incidente, mettendo una bomba contro il muro della fabbrica che aveva diretto durante l’occupazione, in un gesto evidentemente simbolico: abbattere almeno in un suo tratto concreto il ghetto che ogni fabbrica è per gli operai, perduta la speranza nel progetto rivoluzionario. Sconfitta la rivoluzione, Pietro vive una discesa tragica verso la comprensione, per dirla con il Leopardi, di non sapere nulla, di non essere nulla e di non poster sperare nulla dopo la morte; il nichilismo il prezzo della sconfitta del sogno rivoluzionario operaio, il fascismo la sua forma politica.

Questo l’orizzonte spirituale nel quale si inscrive il romanzo di Sobrero, per le cui pagine si scorge in primis quanto il poi mitizzato dalla cultura progetto marxista ordinnovista sia il surplus imposto e sovrapposto dai gruppi intellettuali, per gli operai il vero scopo abolire la guerra. Solo da qui l’internazionalismo operaio, come il progetto di controllare la produzione industriale, a uscire dallo stato di povertà endemica al limite della miseria. Un progetto rivoluzionario che si legittima: diventa necessario, davanti alla cecità bellicista della classe dirigente.

Racconto di straordinario valore documentario, il romanzo si svolge nella fiumana della cronaca degli scontri tra Stato e operai, per le cui drammatiche scansioni, i personaggi del racconto, più che attori, sono agiti dagli eventi, malgrado ognuno voglia essere attivo fattore di un progetto di mondo migliore. Questa tensione ideale, che muove dagli strati umili, produce continui contrasti, e nel microcosmo delle relazioni interpersonali, e nel macrocosmo del tessuto sociale, fino al grande antagonismo tra proletariato rivoluzionario e apparati statali militaristi e bellicisti, eppure capaci, intorno al grande mito della patria, di suscitare attese e consensi di elevato sentire: idealistici, in gruppi e individui, un cui campione è il fascista Paolo.

Per rappresentare questo quadro di antagonismi spinti a una radicalità inconciliabile, pur muovendo dalla stessa istanza universalista, con grande sapienza di architetto della struttura narrativa, Sobrero articola il racconto secondo quello schema strutturante che poi Musil, negli anni ‘930, teorizzerà con il principio delle azioni parallele, articolazione estetica dell’intuizione metafisica di Empedocle che recita: “La via in su e la via in giù sono la stessa cosa.” Ecco perché, se altri sono i nomi dei valori connotanti, identiche sono le dinamiche che agiscono gli universi antagonisti borghese e proletario. Questa è la visione che informa tutta la complessità della narrazione, resa attraverso le vicende, dentro la temperie della rivoluzione abortita, della famiglia Artero, che si è scissa in un troncone borghese: quello del giudice Davide Artero, e quello degli altri suoi fratelli, rimasti operai, ma tutti discesi dalla comune madre Antonia.

Antonia è una sorta di epica dea madre d’impronta bacofeniana; la cui forza discende dal restare del tutto dentro la propria funzione naturale originaria: la maternità, sentimento nel quale soltanto può sopravvivere come entità spiritualmente viva, dopo che il breve sogno amoroso di gioventù si è dissolto in un matrimonio con un uomo che ha consumato il più dei suoi guadagni in bettola e del suo tempo a brutalizzarsi, e il mondo attorno, nel vino.
E una forma di questa sua sacralità naturale materna è il rapporto profondo di Antonia con la preghiera cristiana, dalla quale attinge forza e consolazione nello spazio separato e segnato dal ritualismo del sacro delle chiese, dove la donna si apparta, in fuga da un mondo dominato, sopraffatto dal perenne movimento, si isola nella preghiera dalle urgenze rabbiose che lo agiscono. E in momento di questo appartarsi religioso della donna il romanzo raggiunge un suo vertice. È quando, a lungo dubbiosa dell’azione del nipote Pietro, esplosa l’occupazione delle fabbriche, Antonia impetra la Madonna di guidare il movimento verso un mondo migliore: dove infine nessuno conoscerà più la fame. Ma nell’ora della sconfitta non capitolerà, a differenza di Pietro, al puro non essere. Abbandonerà sì il grande sogno, ma per arroccarsi nella tenace difesa della rete di affetti che ha creato dal suo grembo e vivifica con le sue parole e il suo lavoro.
E intorno alla Madre, entro la vicenda narrativa, prende forma una serie di ritratti femminili non meno suggestivi, tra l’adolescenza e la maturità, ogni figura femminile fatta cosciente del torto che l’esistere infligge al suo sesso, ognuna costretta a subire, ma nessuna rassegnata, e tutte, anche le borghesi, tese a uscire dalla ragna di convenzioni e mistificazioni che la subordina al maschile.

A discendere dallo scontro archetipico proletari borghesi, tutta la vicenda del romanzo è percorsa e si realizza intorno a grandi antagonismi culturali. Il più suggestivo e complesso è quello che oppone la metà maschile in quanto esserci per e nella morte, e la metà femminile, tesa ad affermare il suo esserci per la vita, intorno a una decisione rivoluzionaria: la legittimità dell’affermazione della propria differenza sessuale, anche come desiderio, resa possibile dall’autonomia conquistata attraverso il lavoro, e di operaie e di impiegate.
Dalle pagine del romanzo sorge un mondo e un modo di porsi del femminile che, soffocato dalla normalizzazione fascista, e poi dal clericalismo cattocomunista, riemergerà soltanto con il femminismo.

Questo il suo romanzo, non deve sorprendere che nel decennale della morte di Mario Sobrero, il 7 giugno 1958, comparisse sulla oggi scomparsa ‘Gazzetta del Popolo’ una commossa rievocazione dell’opera e della figura del Nostro, per la penna di Lorenzo Gigli, uno dei maggiori critici letterari militanti tra gli anni ‘930-60: ” … a Mario Sobrero non mancò mai il coraggio di dire e di scrivere quel che pensava. Lo dimostra la sua vita come la sua opera, la quale resta incompiuta … il manoscritto di un terzo romanzo, sintesi e conclusione dei due precedenti, è stato trovato tra le sue carte, e aspetta un editore. Si intitola ‘La favola terrestre’ … È un romanzo di largo respiro, meditato e costruito con paziente e sapiente fatica. Auspicarne la pubblicazione … (è) l’occasione di riconfermare la nostra piena e ammirata fede nell’autenticità di uno scrittore che aveva qualcosa di importante da dire, e sapeva di averlo detto, e lo disse: e questo significò per lui, per usare le parole di Cecov, ‘vivere bene’, da essere umano , degno del proprio nome e del proprio posto nel mondo.”
Ma quale sia oggi il posto della figura e dell’opera di Mario Sobrero nel mondo della cultura italiana nulla lo dice quanto la mancata pubblicazione di un’opera postuma valutata importante dal più raffinato recensore di quegli anni, il cui consenso consacrò i Pavese, i Calvino, i Pea, i Brancati, i Vigolo.
Una tale clamorosa rimozione: la mancata storicizzazione, ergo recezione, dell’opera di Mario Sobrero è tale problema da richiedere una plausibile spiegazione, che non può non coinvolgere la complessiva attendibilità della nostra cultura accademica, così satura di convegni, così attenta ai particolari, così scrupolosa da spingersi fino all’opportuno recupero della tesi di laurea di Mario Soldati, ma l’altro Mario, colui che – per dirla con Montale – nelle pagine della letteratura del secondo ‘900 non fu mai visto?

Se la critica letteraria, in quel settore professionale chiamato a costruire il canone della memoria tramandata della lingua come si definisce nel sistema di testi, non ha visto il testo sobreriano, che cosa, quale parocchi culturale glielo ha reso invisibile?

Uno dei personaggi chiave di ‘Pietro e Paolo’ è il leader rivoluzionario comunista Raimondo Rocchi, trasparentemente trasposizione di Antonio Gramsci, ai cui tratti fisiognomici corrisponde, e che se nel romanzo emerge per una limpida capacità di guida una superiore intelligenza, il suo agire disegna una volontà di comando presupponente ed aspra.
Gramsci aveva letto il romanzo negli anni ormai dominati dal fascismo, e non ne aveva gradito la propria immagine che il racconto disegna. Decise di non parlarne, ma il libro agiva in lui se non sul romanzo, ma sul Sobrero, troviamo un cenno di perentoria stroncatura, oggi leggibili in ‘Letteratura e Vita nazionale’. Nel capitolo sul ‘brescinismo’ Sobrero è incluso, un nome tra gli altri, tra gli epigoni di padre Bresciani; ovvero tra gli scrittori di nessuna importanza. Su Sobrero Gramsci ritorna per stroncare il Bacchelli de ‘Il diavolo a Ponte Lungo’, romanzo storico che ricostruisce un progetto rivoluzionario abortivo in Bologna di Bakunin, assimilato da Gramsci a quel cattivo romanzo che era stato ‘Pietro e Paolo’. Insomma, Gramsci non l’aveva digerita quella immagine di sé che gli doveva troppo contrastare con quella che nel proprio specchio interiore coltivava di leader comunista, e forse ancora di più come il mondo comunista rappresentato entro la temperie rivoluzionaria, dove costretto a contendere spazio alle tensioni anarchiche, gli operai ben poco subordinati del suo progetto egemonico.
E ancor più sgradevole doveva riuscire ai fascisti il ritratto che di loro traccia nel romanzo il Sobrero: essi sono una sorta di macchina caricaturale senza peso e senza importanza, scatenati dallo Stato, che li protegge e li sostiene, si serve di loro a copertura, mentre la sconfitta della rivoluzione ha la sua vera ragione nella capacità governativa di isolare gli operai nelle fabbriche, assediarli e prenderli per fame, usando le burocrazie sindacali come strumenti di pressione e disunione dell’unità rivoluzionaria.

Se fascisti e comunisti avevano fondate ragioni per cancellare l’opera, non di minori ne aveva la cultura cattolica, che nel romanzo esiste soltanto come macchina rituale, capace di funzione soccorritrice e consolatrice, ma dopo, e al prezzo di un sostanziale tradimento della figura del Cristo in croce, nel romanzo vero simbolo dei destini dell’umanità.
Il rifiuto di vedere, registrare l’opera di Sobrero poteva essere dal versante politico una scelta ragionevole: dai tre versanti politici comunista fascista e clericale, ma quale ragione aveva, ha oggi, la critica militante per continuare a non vedere uno dei grandi romanzi del nostro ‘900?

Una congettura qui si affaccia: la critica militante costruisce il codice letterario al servizio della classe politica, nella quale è integrata con una ben precisa funzione di servizio: garantire una immagine aulica del potere politico, ma il Sobrero è una sorta di sgradevole unicum o non la spia di un modulo agente di falsificazione del canone letterario al servizio dei politici?
Al centro del romanzo di Sobrero c’è la visione del Cristo crocefisso come emblema del destino umano. È una suggestione contigua a quella del Cristo evento spirituale ridotto a strumento dalla macchina clericale e riscattato dall’eresia, che Piero Martinetti elabora in ‘Gesù Cristo e il Cristianesimo’, ma la cui prima edizione è del 1934, di dieci anni posteriore a quella di ‘Pietro e Paolo’, come posteriori sono le ‘Lettere Spirituali’ di Luigi Rensi, due opere dove ritroviamo lo stesso climax spirituale che impronta ‘Pietro e Paolo’, e che ci dicono del persistere di una cultura radicalmente altra, rispetto al canone idealista, che oggi si vuole affermatosi intorno agli inizi ‘900, intorno alle due personalità prima concordi e poi militanti negli opposti campi del fascismo e dell’antifascismo Benedetto Croce e Giovanni Gentile, il cui pensiero critico, scorgiamo, diventa lo strumento di controllo della classe politica che li esprime.
Intorno al problema del romanzo rimosso di Mario Sobrero sulla rivoluzione proletaria abortita di Torino, si delinea in apparizione un altro canone culturale entro il canone egemone novecentesco, la cui enucleazione amplierebbe troppo gli orizzonti entro i quali si disloca un articolo di giornale, ma che nel suo volgersi verso una conclusione, certamente molto provvisoria, almeno a una domanda deve rispondere: come si esercita la pressione culturale della classe politica sui singoli scrittori?

Anche qui il percorso della scrittura di Mario Sobrero può soccorrere.
A ‘Pietro e Paolo’ segue un lungo silenzio, anni nei quali, mentre esercita il giornalismo, lavora alla stesura di un romanzo pubblicato da Bompiani nel 1938: ‘Di padre in figlio’, saga che si svolge tra l’unità d’Italia e il 1915. Un libro riuscito nel giudizio del Gigli, e con ancora una sua forza suggestiva viva se, andando in traccia delle opere di Mario Sobrero nel vasto mondo di Internet se ne scopre una riedizione in tedesco nel 1974.
Questo romanzo, che per il Gigli si connette a ‘Pietro e Paolo’, segna però una sostanziale svolta nel percorso narrativo di Sobrero, che aveva esordito nel 1912 con un romanzo d’ambiente cinematografico ‘Violetta di Parma’, dunque orientato verso una poetica narrativa impegnata nella lettura del proprio tempo; che raggiunge il suo zenit in ‘Pietro e Paolo’; dopo il quale lo scrittore abbandona quel rapporto diretto con il proprio presente, che aveva caratterizzato la sua scrittura. E per una ragione ben precisa: la sua visione del proprio presente è in rotta di collisione con l’immagine che la classe politica intende accreditare. Ad evitare lo scontro con il potere politico, che per un autore significa il silenzio, e a un tempo non farsene servile corifeo, a uno scrittore non resta che il cambiamento di registro della scrittura. Questo fa Mario Sobrero: un cambiamento di registro che ho altrove emblematizzato come il passaggio di campo dalla scrittura di tipo dantesco, la scrittura giudicante il proprio tempo, alla scrittura di tipo petrarchesco: sentimentale elegiaca, ripiegata sulla memoria.

Come la politica oggi ottenga questo ripiegamento, lo cogliamo intorno alla figura del maggior narratore in lingua italiana della seconda metà del ‘900.
Beppe Fenoglio esordisce con un romanzo tutto calato nel suo presente: ‘La paga del sabato’ racconto dei problemi di reinserimento nella realtà quotidiana di un ex partigiano. Un romanzo si scrive per mandarlo all’editore. Ed è qui, in questo snodo decisivo, che l’autore incontra le scelte del potere: come esso potere voglia essere rappresentato in quel mondo che sente assolutamente suo.
E il potere ha per l’esordiente Fenoglio il volto di Elio Vittorini, che dissezione ‘La paga del sabato’ ricavandone due novelle, e consigliando al giovane autore di non cimentarsi ancora con una forma complessa come il romanzo, per la quale non è maturo, ma di principiare con un libro di racconti. Forse dobbiamo a questo intervento di Vittorini la nascita di quelle due straordinarie raccolte di racconti che sono ‘I 23 giorni della città di Alba’ e ‘Un giorno di fuoco’, lavorando ai quali, mentre affina la sua tecnica narrativa, Fenoglio ascende a grande scrittore epico, collocandosi nel solco di quella scrittura per la libertà che recupera per questa via il ruolo politico antagonista, che da sempre connota la grande scrittura, quella per la quale si realizza: si definisce la coscienza di un popolo, ma che solo molto episodicamente la sua classe dirigente può accettare, in quanto se ne sente partecipe.
L’operazione è possibile a Fenoglio perché egli ha una propria memoria antagonista da opporre alla memoria che il potere vuole imporgli: qui sta la frattura e lo scarto che decide di ogni scrittore, ma quanti entro l’ambito di una standardizzata educazione culturale possono trovare l’orgoglio di una propria memoria autonoma da opporre al potere?
E soprattutto per uno scrittore che aspiri a vivere nel mercato della scrittura e non accetti quell’esilio interno che patirono un Fenoglio, un Morselli?

Nella seconda metà del ‘900 un solo scrittore professionista, a non diventare un servile corifeo dei politici, non accetta di trasformarsi in prosatore d’ambiente e di memorie, fermo nella funzione giudicante della sua scrittura: è Luciano Bianciardi, scrittore oggi ai bordi, la sua opera già incamminata a un destino d’oblio non diversa da quella di Sobrero, se non avesse trovato un suo campione e rivendicatore in quel vero don Chisciotte dell’editoria italiana che è Marcello Baraghini.

Sarà mai recuperato quel canone altro, nel quale vanno inscritti anche scrittori oggi nel canone post-crociano e neoidealista, ma al quale sono del tutto estranei, come appunto un Soldati o, a dire il nome davvero grosso, quell’Eugenio Montale che con i vari ermetici e post non volle mai imbrancarsi, ma era e resta quella, per superiore volere della critica letteraria togata, la sua compagnia malvagia e scempia? Un canone altro che farebbe riemergere, con i Sobrero i Martinetti, Ferrero, Rensi, Ravasenga, Noventa, … può affermarsi senza un cambiamento sostanziale di quadro politico?

Una clamorosa riemersione, senza che il quadro di potere fosse sostanzialmente mutato, di tanti nomi della letteratura dal potere politico-religioso rimossi, e dal gregge dei letterati & lettori dimenticati, è già accaduta circa tre secoli or sono, in forma di ‘Lettera alla gentile donzella’ autore il Gravina, che in quelle pagine prepara il canone letterario, intorno al vertice Dante, poi formalizzato dal Foscolo, a dare al Risorgimento italiano, mediatore l’Alfieri, la sua anima laica e libera. E se è già accaduto, può riaccadere: il mondo è capace delle voltate più sorprendenti e il potere delle sbandate più clamorose. Si pensi al Belli, censore nella Roma papalina.

Piero Flecchia

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