Non c’è lettore di Dante nel cui immaginario non grandeggi la figura del Farinata degli Uberti, che nel regno della sventura: “… s’ergea quasi l’inferno avesse in gran dispitto”. Egli domanda al poeta: “Chi furo li maggiori tui, chi la tua gente”. Dante risponde declinando la propria genealogia, e ricordando la vittoria della propria fazione su quella dell’interlocutore, nelle lotte comunali.
La stessa figura narrativa: personaggi che s’incontrano e riconoscono declinando le proprie genealogie, troviamo in Omero più volte; come nel sesto canto dell’Iliade.
Mentre imperversa sotto le mura di Troia la battaglia, uno dei grandi eroi greci, Diomede, vuol sapere se l’antagonista con il quale è per scendere a mortale tenzone, ne sia degno, ma ecco che la poesia di Omero articola la risposta a Diomede dell’eroe licio Glauco in una dimensione e culturale e psichica totalmente altre, rispetto all’orizzonte genealogico gerarchico aristocratico.
Quella di Glauco è una risposta che da sempre affascina ogni lettore del poema, ma per chiarire il senso razionale di un’inarrivabile forma estetica omerica, bisogna aspettare fino a ‘800 inoltrato, quando Johan Jakob Bachofen individuò e definì il concetto capitale di ‘simbolo naturale’, un cui paradigmatico esempio è appunto la risposta di Glauco a Diomede, figlio di Tideo:

Magnanimo Tidide, a che dimandi
il mio lignaggio. Quale delle foglie,
tale è la stirpe degli umani. Il vento
brumal la sparge a terra, e la ricrea
la germogliante selva a primavera

Con linguaggio mutuato dall’ecologia, i due combattenti sono del tutto entro un paesaggio, quello della battaglia, brutalmente antropizzato: come poi sapranno su vasta scala soltanto le grandi macchine industriali urbane.
Per uscire dalla visione antropica entro la cui logica culturale avvolgente sta la domanda genealogica di Diomede, – come poi il dialogo infernale tra Dante e Farinata – e recuperare un trascendente senso universale del rapporto nel quale stanno, come enti naturali, e non solo loro due che stanno per affrontarsi, ma tutti i combattenti loro intorno, e tutta l’umanità, Glauco traccia la suggestiva similitudine tra i destini personali dei singoli individui e le foglie degli alberi.
Il ricollocare l’uomo nel suo originario paesaggio naturale, il rinaturalizzarlo, strappandolo alle categorie culturali a un tempo necessarie e tragicamente limitanti – come appunto descrive il fronteggiarsi mortale assurdo nella sua causa prima: Elena e Paride, dei due eroi -, riscatta ancora oggi la singola coscienza del lettore dai limiti del suo presente, attraverso una percezione più profonda e vera di un comune destino universale del vivente, che l’arrogante eroe greco, sopraffatto intellettualmente dalla cultura militarista gentilizia nella quale vive, non scorge più.
Il Glauco omerico non si sottrae al duello mortale: è lì per combattere, ma nella coscienza della tragica inessenzialità dell’umano destino.
Questa tipologia d’immagine metaforica linguistica: ogni metafora che connetta l’uomo al suo fondamento naturale, fu indicata da Bachofen come il processo caratterizzante: fondativo, di tutta la grande poesia antica, la ragione del suo profondo contenuto sapienziale.
Egli definì ‘simbolo naturale’, ogni unità linguistica che articola, con rimandi al mondo naturale, un processo di costruzione del conoscere oggettivo; e che si svolge, come l’immagine di Glauco, contro la tendenza a costruire i parocchi, come le genealogie, dei miti culturali: superati, liquidati attraverso la risalita al mondo naturale, ipostatizzato in simboli altamente significativi, quale appunto la similitudine omerica vita umana = foglie dell’albero.

Bachofen non definì per opposizione simboli culturali tutti quelli che non connettono l’uomo alla natura, a spiegarne motivazioni e comportamenti, mentre lo inquadrano entro prescrizioni di tipo giuridico religioso.
Queste astrazioni culturali hanno un basso contenuto di significati per tutti gli intelletti che sono fuori dal cerchio della società umana che le produce: si rifletta sul rapporti di un ateo con la teologia monoteista o di un monoteista con i simbolismi religiosi del paganesimo, o con le varie filosofie quali lo stoicismo, l’epicureismo, l’idealismo trascendentale kantiano.
Le costruzioni culturali del linguaggio, che hanno scarso o nessun rapporto con il fondamento naturale, è più corretto definirle ‘miti’ che simboli, in quanto il loro contenuto di verità si definisce e legittima nel racconto mitico stesso che le espone, e nei riti che intorno si istituiscono, come appunto il nesso racconti mitici religiosi rituali delle caste sacerdotali.
Il mito sta al di fuori dal mondo naturale, e se entra in contraddizione con esso lo respinge, come si esemplifica nella perentoria affermazione del padre della chiesa Tertuliano: “Credo quia absurdum”, vero grido contro i tutti i dubbi veicolati dalla logica nella mente umana per la riflessione sul mondo naturale, come appunto percorsero la coscienza di Darwin, quando si aperse la per lui drammatica divaricazione, circa l’origine e destino del vivente, tra dogmatica religiosa e dati del mondo naturale.

Generalizzando, a discendere dalla riflessione bachofeniana sul simbolo naturale, circa l’articolazione del pensiero umano, sia entro la forma dell’opera letteraria, ma anche teologica o metafisica, si scorge come essa di dislochi, ergo proceda tra i due poli del simbolo naturale e del mito culturale: che spesso si serve, a dar forza al suo racconto, di simboli naturali, come il testo omerico nel passo sopra citato.
Nulla prova la forza irriducibile del mito quanto il fatto che anche la stessa scienza, struttura rigorosamente fondata e articolata per simboli naturali, debba formalizzarsi come modello teorico ricapitolativi in ogni sua singola parte, entro il quadro di locali teorie generalizzanti, che spesso contengono e mediano elementi contradditori, spie di un percorso che conduce alla fine anche i grandi modelli scientifici ad essere, in quanto superati da nuove sintesi, abbandonati, proprio come i grandi miti religiosi e metafisici.
Per chiarire l’intreccio nelle narrazioni tra simbolo naturale e mito culturale analizzeremo in questa chiave una delle più celebri favole o miti della grande letteratura: il racconto dantesco dell’amore assoluto e disperato che legò Paolo Malatesta e Francesca da Polenta (Inferno V vv 73-142).

Siamo nel cerchio dei lussuriosi, la porta dell’Inferno, dove sta Minosse, che giudica e smista alla loro eterna condanna le anime peccatrici, condanna decisa da quello che fu il vizio prevalente sulla terra.
La forma mitica della Commedia è tutta entro la dogmatica cristiana cattolica tomistica.
Il codice teologico governa la macchina narrativa tanto nelle sue forme generali che locali, come l’episodio che ci accingiamo ad analizzare, ma queste sono le forme esterne che collocano la Commedia nel proprio tempo, ne fanno un frutto dell’evo cristiano dei comuni nel suo momento più alto, ma non è attraverso questi elementi segnati storicamente e segnanti che la Commedia continua a parlarci – questi elementi interessano allo storico e all’antropologo. Il dramma teologico della redenzione dell’anima, entro la trama di dogmi che lo determinano, e in uno il cammino visionario dantesco per i tre regni: l’originario contenuto sapienziale dell’opera, non è più la ragione della sua lettura, ormai forma posta in ombra nei fruitori del testo dai fasci d’illuminazione psichica oggettiva circa la natura umana, accesi da un esplosivo articolarsi di simboli naturali.
Proprio secondo ed entro la logica della similitudine omerica sopra esposta, Dante espone nel suo poema gli universali peccati e i vizi, le virtù ed eroismi della natura umana, esemplandola in un succedersi di quadri. E uno è appunto quello di Paolo e Francesca, costruito intorno al conflitto originario tra pulsioni naturali e loro formalizzazione in regole culturali: quasi sempre conflittuali. Nell’ambito d’ogni cultura umana, spesso uno stesso comportamento diventa legittimo e lodevole o da condannare e reprime secondo il contesto.
Un tipico esempio di questa contraddizione, insita in tutte le regole culturali, ergo nei miti che le spiegano, è l’interdetto universale: di tutte le culture umane, all’omicidio, ma che diventa lodevole quando difesa della patria. Di più, in guerra il rifiuto di uccidere il nemico diventa colpa grave bollata come viltà, il più spregevole dei vizi.

Anche Paolo e Francesca sono stati uccisi, e legittimamente, secondo il codice del tempo, in quanto rei della più grave forma di lussuria: l’amore incestuoso, come quasi universalmente le culture classificano e condannano quello tra cognati, l’incesto il più universale dei miti d’interdizione culturale, luogo di fondazione del processo di umanizzazione.
Nella vicenda di Paolo e Francesca l’istinto sessuale, fondativo della stessa specie, attraverso il mito per eccellenza di interdizione culturale: il tabù dell’incesto, diventa la loro inespiabile colpa; la colpa che, entro le regole della dogmatica sociale cristiana, e non solo, entrambi condanna alla pena infernale eterna.
La vicenda di Paolo e Francesca, la cronaca del loro amore tragico, ci porta nel cuore del conflitto tra cultura e natura, tra le formalizzazioni mitiche della cultura e le pulsioni naturali profonde della persona. Qui è in uno la dimensione universale e la ragione della profonda partecipazione drammatica dello stesso poeta, e nostra di lettori, alla vicenda dei due sventurati amanti; tutta evocato dalla suggestiva voce femminile, il cui doloroso racconto travolge la coscienza del poeta a una tal compenetrazione nel dolore degli infelici amanti, che:
“Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea; sì che di pietade io venni meno così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade”.

Sono questi i versi, che chiudono il canto dei lussuriosi, dove il progetto culturale vorrebbero il poeta condannasse nei due sventurati amanti tutti i luassuriosi, in ragione del disegno di cristiana universale redenzione, che ne muove l’andare. Ma ascoltando il racconto dell’amore tra i due infelici, in Dante la natura umana profonda entra in conflitto con il codice eticoteologico al quale il suo intelletto aderisce, e ragione di tutto il poema. È questo il conflitto entro il quale si dilacera l’immaginario dantesco, davanti al quadro dei due sventurati amanti che Francesca gli ha evocato; conflitto per uscire dal quale, ad esprimere il dolore che lo ha sopraffatto, e a un tempo sottrarsi alla dolorosa coscienza del conflitto tra simbolo naturale e mito culturale, accade in Dante il mancamento smemorante, effetto fisico della forza profonda della pulsione naturale che lo genera. È necessità fisica dolorosa di oblio, – le cui dinamiche sarebbero state chiarite come processi di rimozione secoli dopo dalla psicologia del profondo – , entro la più pregnante descrizione naturalistica del processo di rimozione, per il quale la coscienza reagisce a un dolore intollerabile. La sintesi di questa complessità è tutta in un endecasillabo che, mentre coglie e rappresenta in insuperabile sintesi il fenomeno psichico della rimozione, sembra contenere non già il presagio della galileana legge della caduta sui gravi, ma la sua enunciazione perfetta: E caddi come corpo morto cade.

Come in Omero, siamo qui davanti a un grande simbolo naturale, costruito ad esprimere una condizione umana piegata sotto le regole culturali, ma che non riesce ad accettarle, riconoscerle per sue. E questa logica simbolica naturale, per la quale parla la dirompente forza dell’eros, percorre tutto il canto del lussuriosi, che culmina nelle due figure dei cognati-amanti. Essi riconoscono la dimensione sociale della loro colpa come legittima: “Se fosse amico il re dell’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace”; ma non riescono a farla intimamente propria; e non solo in quanto la condanna dogmatica religiosa contrasta con tutto un tessuto di altri rimandi mitici della loro cultura, tesi a dare forma secondevole alla loro pulsione sessuale, ma in quanto per questi miti altri parla la loro natura profonda. È questo un contesto di rimandi culturali cui partecipa lo stesso poeta, che mette in bocca a Francesca, ad aprire il loro dialogo, un verso amoroso del suo maestro Guido Guinizzelli, che segnala, nel racconto della colpa, la presenza di un senso altro della vicenda amorosa dei due infelici amanti: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.” Sono versi che, contro l’interdetto teologico sociale, affermano il primato di una ragione altra, non più alta, ma più profondamente infitta nelle loro carni, e che non procede solo da loro, ma pre-esiste fuori da Paolo e Francesca e prepara il loro incontro erotico; peccato e segno a un tempo da cancellare per l’ordinamento politico-teologico dominante, ma una ragione altra che in qualche modo la società difende e preserva come memoria letteraria di un evento costruito nel passato per rinnovarsi, esistere in ogni futuro presente: “Noi leggevamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e senza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante.”
La vita spirituale anche del medio evo cristiano è non meno composita e contraddittoria della nostra. Un altro universo mitico: della ‘fin amor’ provenzale, che diventa ‘amor cortese’ in Italia, si oppone e contraddice l’universo biblico cattolico. È l’irruzione di questo altro sistema di miti culturali, che a un tempo permea e determina tutto l’episodio di Paolo e Francesca; universo che Dante ha condiviso: stato anche il suo, e per sciogliersi dal quale ha intrapreso il grande viaggio nei tre regni d’oltre tomba.

Quel mondo spirituale del “cor gentile”, subito appare ai due cognati un esotismo, al quale guardano con curiosità, ma senza una vera adesione, sicuri nel sistema di miti che regolano e mediano i loro rapporti domestici. L’ordine cristiano crolla soltanto quando il simbolo naturale irrompe e permea il mito culturale del romanzo amoroso che leggono. Accade: “Quando leggemmo il disiato riso”, suono e gesto che agisce come elemento concreto di rivelazione per il suono della carne della reciproca interiore pulsione erotica. Attraverso il simbolo naturale del riso la cultura esotica cessa di essere tale per diventare il ponte tra i due cognati, verso la natura interiore profonda, ma che si muove entro una drammatica dilacerazione, che gli amanti sventurati patiscono come coercizione esteriore: la loro dannazione infernale; e il poeta vive come dramma della propria coscienza, lacerata tra la visione religiosa cristiana e le esperienza intellettuali dell’altra cultura, che è stata anche sua: condivisa con Guido e Lapo, e le loro donne d’amore, per il cui soccorso ha sognato una diversa ascesi. Di quella cultura altra, davanti alla quale la coscienza di Dante si dibatte lacerata tra rimorso e desiderio, Paolo e Francesca sono specchio. In esso Dante si contempla e soffre, in ragione della forza del sommovimento interiore scatenato dai simboli naturali che permeano e disegnano, prima ancora della vicenda degli amanti, tutto il canto dei lussuriosi, a procedere dalla suggestiva immagine: “E come i gru van cantando lor lai, facendo in aere di sé lunga riga”
Nel volo delle gru che migrano consuona l’esilio nell’umana coscienza dantesca dalla forma culturale originaria stilnovista del proprio essere desiderante naturale; mentre esilio dal sogno visionario di un percorso di ascesi amorosa attraverso il proprio corpo significa anche il percorso infernale di Dante, che si ritrova, nell’incontro con i due infelici amanti, davanti a sé stesso sul duro cammino. Sopraffatto da questa visione, e a un tempo tensione, Dante sperimenta alla fine, nello sciogliersi dai due infelici, una simmetrica esperienza di morte del proprio essere desiderante, secondo la pulsione e le forme che tengono i due amanti.
Separarsi da Paolo e Francesca è abdicare all’eros stilnovista, che può rivivere solo come desiderio intellettuale, soltanto descrivibile entro un puro simbolo naturale: E caddi come corpo morto cade, ogni forma di mito perduta, rimossa; attimo doloroso nel suo esistere dove Dante ritorna al Guido Cavalcanti epicureo, ovvero alla dottrina di coloro che l’anima con le carni morta fanno.

Il canto di Paolo e Francesca, mentre ci ha permesso di cogliere le complesse interazioni tra simboli naturali e miti culturali, ci ha anche mostrato come entro uno stesso universo sociale possano agitarsi, fin dentro la singola persona, diversi, e spesso opposti miti culturali, che in qualche modo cercano e riescono a mediarsi soltanto attraverso l’azione di simboli naturali.
Questa lacerazione di una coscienza tra opposti miti, quale abbiamo scorto in Dante nello specchio di Paolo e Francesca, è un universale un gioco complesso di rimandi che costruisce l’articolazione contraddittoria della personalità umana, che se ridotta a un solo mito finisce per separarsi, anche perché non ha più bisogno di elementi di concreta riflessione e mediazione, dai simboli naturali, pericolosamente impoverendosi, in quanto incapace di misurarsi con la complessità del mondo.
Della quale complessità, la grande poesia è molto più che lo specchio, è il percorso per il quale il mondo come complessità contraddittoria raggiunge e si mostra all’individuo, dandogli conforto e a un tempo spiegazione delle contraddizioni del suo mondo, dove si agita nel fondo lo stesso contraddittorio contrasto originario fondativo della natura umana intorno al tabù dell’incesto, dove la natura di assoggetta alla forma culturale archetipica intorno alla quale prende forma l’uomo.
La contraddizione conflittuale tra cultura e natura, in quanto non solo coeva, ma determinante nella creazione del processo di umanizzazione è ineliminabile dalle società umane, a meno di non entificare la forma sociale generativa delle singole coscienze individuali del tutto in un mito, riducendo gli stessi simboli naturali a strumenti esplicativi e confermativi del mito, o a cattivi insegnamenti, dove contraddicano il mito, come appunto il libro Galeotto nel mito cristiano.
Fu contro questa visione unilateralista che i latini insegnarono: “Guardati dall’uomo di un solo libro”.
Questo decifrato per una breve lettura del canto di Paolo e Francesca, torniamo all’immagine omerica dell’albero e delle foglie come metafora della vita umana, riflettendo su quanto abbia viaggiato in tutto il posteriore immaginario culturale, fino ad approdare nel grande simbolo didascalico dell’albero della vita come emblema ricapitolativo di tutto il processo evolutivo darwiniano; il simbolo omerico per gradi trasformato e arricchiti dall’affinarsi dell’osservazione naturale.
Il viaggio del simbolo dell’albero e delle foglie da Omero a Darwin ci dice come anche il linguaggio scientifico si fondi e costruisca attraverso quel particolare tipo di metafore poetiche che Bachofen ha definito “simboli naturali”, in quanto fondati sulla diretta osservazione: e in sé già scientifica, dei processi della natura, e la cui connessione diventa il tessuto, fin dalle origini, dell’osservazione umana sul circostante mondo naturale, mediata dalla ragione, che ha la sua pietra di paragone appunto nella natura – per un quadro d’insieme del punto si veda in J.J. Bachofen, La dottrina dell’immortalità della teologia orfica, a cura di U. Colla, BUR L1446.
Attraverso l’osservazione sul simbolo naturale di Bachofen comprendiamo anche che cosa fa dei primi poeti dei pensatori razionali, nonché la ragione che unisce metafora linguistica e scienza nel primi poemi filosofici greci, per quanto dai loro frammenti scorgiamo.

La poesia, dove attinge al processo di simbolizzazione naturale, non solo prefigura, ma è già scienza, come si coglie in Lucrezio con particolare forza, scienza profondamente intrisa di poesia in ragione del suo rapporto con la natura, lungo quel tragitto che da Omero giunge fino al Leopardi de “L’Infinito”.

Piero Flecchia

CONDIVIDI