foto_asili_vitaleIn un precedente intervento riprendevo un articolo di Massimo Recalcati (“Si fa presto a dire famiglia”, La Repubblica del 1 maggio 2016) che citava la psichiatra infantile Françoise Dolto la quale diceva che tutti i genitori sono “adottivi”, nel senso che divenire genitori è un percorso, non un dato oggettivo e sancito dalla “natura”.

E’ la funzione genitoriale che occorre sviluppare. Riferendomi alla terribile vicenda di Caivano sostenevo l’importanza di sostenere tale funzione genitoriale per il bene dei bambini: “Riusciremo a non lasciarli soli, abbandonati ai capricci della “fortuna”? Qualche giorno dopo, sempre “La Repubblica” presentava un’inchiesta: “Rette record e posti vuoti. Grande fuga dagli asili” (4 maggio 2016).

Per prima cosa, tornando alla storia di Fortuna Loffredo, sono convinto che un fattore di rischio è certamente l’ambiente. Se quei bambini e quegli adulti crescono e vivono in un contesto materiale, sociale, culturale, economico degradato, povero e violento diventa altamente probabile il rischio di abusi, violenze, devianze. In materia si parla di “causalità multifattoriale” che comprende criteri di base necessari e criteri aggravanti come povertà, disoccupazione, difficoltà abitative, isolamento sociale e poi alcolismo, comportamenti antisociali, tossicodipendenze, conflitti di coppia, ecc.

Insomma, l’abuso (cui è seguito in questo caso anche l’omicidio) non è semplicemente il frutto di un mente malata. Troppo facile pensare che sia così. Un po’ come capita per i femminicidio: sarebbe il gesto di un pazzo. Certamente vi sono anche fattori patologici, elementi legati a violenze a loro volta subite da chi agisce violenza. Ma la “società” non può essere assolta. Se Caivano, come tutte e Caivano del mondo, esiste è perché vi sono le condizioni sociali per cui si producono quelle tristi conseguenze.

Molto spesso leggiamo e sentiamo dire che “Lo Stato non esiste”. Talvolta anche questa è una formula di comodo, che deresponsabilizza. Perché lo “Stato” è fatto anche dai cittadini, che scelgono, decidono, prendono posizioni. In questo senso, ancora una volta, l’educazione, la cultura sono importanti, come lo è il “vantaggio sociale” in termini di benessere globale per tutti che ne deriva se ciascuno fa la sua parte per rendere operativo “lo Stato” ogni giorno.

Alessandro Rosina nel pezzo “Come investire sul futuro” (Repubblica del 4/5/2016) ribadisce che “le misure di conciliazione costituiscono l’esempio più evidente di welfare attivante e abilitante. Un welfare che è investimento sociale perché consente ai cittadini di stare meglio e fare di più”. Non possiamo pensare al futuro senza un investimento per il sostegno sociale, educativo delle donne, delle famiglie, dei bambini.

Ma torniamo all’inchiesta di Maria Novella De Luca sui nidi: cosa emerge? Che l’aumento esponenziale delle rette (anche se c’è un dislivello tra i 550 euro al mese di Lecco e i 100 euro di Catanzaro), la crisi economica delle famiglie (anche se la disoccupazione è più alta al Sud che al Nord), l’esternalizzazione senza qualità di certe gestioni hanno determinato un calo del 6% delle iscrizioni al nido dei bambini. I bambini restano a casa. Ci si lamenta che gli orari sono troppo rigidi a fronte di una crescita della flessibilità lavorativa dei genitori, ma al Sud solo il 3,5% dei bambini va al nido. Al Nord sono solo il 17,3% mentre la media a Torino, va detto, è del 34,7, al sopra quindi del 33% fissato come obiettivo nazionale (che corrisponde al dato di frequenza in Europa). In Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Liguria si arriva al 33%. Una rete di servizi per l’infanzia è indispensabile per prevenire fatti tremendi come quelli di Caivano ed è necessaria per sostenere la genitorialità e l’educazione dei bambini.

Non si può pensare di non investire in questa direzione. Il 5/5/2016 “Repubblica” chiude il cerchio intervistando Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan. Questi insiste sulla importanza di offrire orari più flessibili e di coinvolgere i genitori per abbassare i costi in una logica di partecipazione e di scambio di servizi tra famiglia e istituzione. Insomma occorrerebbe fare appello al volontariato dei genitori. Servono orari più ampi e flessibili: occorrono certamente formule di accoglienza e di gestione diversificate. Il nido può essere una soluzione, ma non l’unica.

Ma quel che serve è anche tanta qualità. Il volontariato è una risorsa, ma non può garantire da solo la qualità. Ciascuno deve mantenere il suo ruolo e la famiglia va coinvolta, ma non sfruttata. Lo Stato “per esistere” deve investire e farsi carico delle sue responsabilità, spendendo risorse per offrire servizi. Si vuole aiutare la famiglia poi le si chiede di sobbarcarsi la gestione dei servizi? Con tutte le difficoltà di coerenza educativa che ne conseguono. Si possono e si devono coinvolgere le imprese (sia quelle private che quelle del privato sociale) ma anche l’educazione della prima infanzia deve entrare a far parte di un sistema educativo complessivo in cui lo Stato investe. Altrimenti non esiste. E gli abusi non potranno essere né contrastati né limitati.

Stefano Vitale

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