Una nota in margine al manifesto Losurdo in difesa dei buoni diritti della Cina sul Tibet, sostenuti anche, tra gli altri, dagli illustri accademici Vattimo, Canfora, Romano, Dorsi, …

La crisi, tra ‘700 & ‘800, del modello degli stati assoluti intorno al crollo dell’alleanza trono-altare, e culturalmente culminata nell’annuncio nietzchiano: “Dio è morto”, ha imposto in Occidente una ricostruzione della legittimazione della sfera della politica, da dove il conseguente complesso travagliato processo di ristrutturazione del suo universo simbolico, un cui innovativo elemento è stato il rilancio del ruolo delle olimpiadi. Ma la grande intuizione del barone De Coubertin: la rinascita delle olimpiadi, è stata solo uno, a partire dal rinascimento, dei tanti recuperi dell’universo simbolico grecoromano, uno dei tanti ritorni alla tradizione occidentale antecedente la conversione colonizzazione culturale cristianogiudaica.

E al centro della tradizione greco-romana classica c’è la separazione tra politica e religione, e quindi dello sviluppo dell’autonomia della politica, registrato anche dalla sensibilità attenta degli Evangelisti che, per propagandare la nuova religione, separarla dalla natura politica della matrice giudaica, posero come elemento esplicativo delle relazioni religione cristiana stato romano la parabola della moneta: ‘Date a Cesare …”
Nel suo sviluppo simbolico, lo spazio dei miti politici democratici dell’800 procede rapidamente oltre, dalla rivoluzione francese, il modello della repubblicana romana; che pure aveva svolto, a partire dal Machiavelli, un ruolo simbolico chiave nel processo di opposizione alle monarchie assolute.

L’800 privilegia la democrazia nella forma greca della polis: soprattutto la grande storiografia democratica, e in particolare la germanica. In opposizione al modello centripeto romano, privilegia la visione della politica come concertato tra una molteplicità di centri di potere. Qui il modello greco della polis classica è il simmetrico idealizzato del progetto democratico ottocentesco degli stati nazionali a base etnica, considerati intangibili e legittimi, proprio come nella Grecia antica le città-stato. Descrive l’intangibilità della polis il fallimento tanto del progetto unitario panellenico ateniese che il successivo spartano, per un rifiuto strutturale tenace dell’universo simbolico della politica greca classica: tra il VII e il IV secolo aC di accettare la separazione tra amministrazione locale e potere politico pieno.
La polis si istituisce da subito, ed esemplarmente la Atene della riforma di Clistene, come unità-totalità con al centro la falange oplitica: il soldato-contadino che nella sua iniziativa politica come gruppo impedisce, riassorbe con l’opportuna azione legislativa assembleare, anche l’affiorare della tensione che caratterizza tutto l’evo dei liberi comuni del medioevo cristiano, percorsi dall’opposizione città-campagna. E gli stati ottocenteschi europei, attraverso la strategia della politica delle rappresentanze di tutti i ceti in parlamento, proprio l’ideale unità-totalità della polis ateniese classica tendono a ricreare.
Nel concertato di città-stato libere, divise da leggi, tradizioni e anche forti differenze entro la comune area linguistica, la religione olimpica garantiva la comune appartenenza culturale identitaria; e una sua singolare formalizzazione concreta i greci realizzarono nel rito olimpico.

Ogni quattro anni, a partire dal 776 aC in Grecia si bandiva la tregua olimpica. Cessavano le guerre, alle quali succedeva l’agone sportivo di Olimpia, dove la costellazione delle polis creava uno spazio di spettacoli agonali e di riti, in un complesso intrecciarsi di relazioni e possibilità di transazioni e riconciliazioni, quasi sempre effimere, ma che dopo quattro anni avrebbero trovato un nuovo terreno di confronto.
Le olimpiadi erano per i greci così importanti che la loro cronologia datava gli eventi in relazione al ciclo olimpico in cui erano accaduti, e poi nell’anno e mese dopo l’evento olimpico.

Tra ‘800 & ‘900 anche gli stati democratici europei, – come stanno a indicare i frequenti conflitti locali, culminati in due guerre dalla storiografia definite prima mondiali e oggi civili -, erano tra loro in forte competizione, ma come le polis greche, gli stati-nazione europei d’area democratica – ovvero dove il potere si legittima nel popolo – ritenevano inconcepibile pensare che una guerra, per quanto violenta, potesse portare a una definitiva cancellazione dell’autonomia di una identità statale connotata da un forte tratto etnico. Anche dopo la seconda guerra mondiale, la Germania e l’Italia furono punite con mutilazioni territoriali periferiche, proprio come accadeva nei conflitto tra polis, per quanto violenti. Davanti ai costi di queste guerre infine in Europa si è sviluppata una forte tensione a una composizione extramilitare dei conflitti, tensione culminata con la costruzione prima della ‘Comunità economica’ dei sei paesi, premessa al presente processo di federazione paneuropea, fondato su uno sviluppo delle istituzioni democratiche, per cui unione politica e democrazia nell’Europa contemporanea si intrecciano e potenziano, verso la confederazione continentale europea. In questo disegno, il modello neolimpico decoubertiniano, come si è sviluppato, è chiamato a svolgere un importante ruolo di promozione propagandistica del progetto politico federativo democratico occidentale.

Come già le antiche olimpiadi tra i popoli ‘barbari’, le nuove sono diventate un forte elemento propagandistico dello stile di vita democratico occidentale, che si propone come modello, in ragione della sua capacità di attrarre, ogni quattro anni, intorno al rinnovato fuoco di Olimpia, tutti i popoli organizzati in nazioni, ergo dotati di autonomia politica. Anzi, ormai il rito si ripete, conteggiando anche le olimpiadi invernali, ogni due anni, e una forma del principio agonale olimpico ritroviamo nei vari campionati mondiali, tra quello quadriennale metaolimpico calcistico e quelli motoristici e ciclistici annuali. In questi spettacoli ritroviamo promosso e sotteso lo spirito di Olimpia: l’idea di una superiore unità umana di tensioni e partecipazione a uno spettacolo condiviso, ergo democratico, dove il vincitore simbolizza ed esalta con gli sconfitti tutti gli spettatori. E questo atteggiamento di fatto propaganda e ripropone la logica democratica come fattore decisivo di civiltà.

Questa lunga premessa a stabilire il simbolico politico democratico sotteso e veicolato in ogni celebrazione olimpica, che viene assegnata ogni quattro anni a una nazione diversa, per mostrarla al mondo, ma anche per permettere agli stati divisi e separati di comporsi in una unità agonale politicamente positiva.
Questa unità-totalità della comunità olimpica, se si esprime e vive attraverso la comunità degli atleti in competizione, ha però la sua antecedente scelta e fondazione nella decisione politica dei singoli stati, che sostengono i propri atleti mandandoli alle olimpiadi: nel luogo dove il rito si celebra; e così implicitamente riconoscendo anche la dimensione politica della nazione che sostiene e permette il rito olimpico, nel caso specifico la Cina. Ma una Cina che si è resa colpevole di un grave reato politico, entro l’autentico spirito olimpico: non solo occupa, ma ha dichiarato una sua intangibile provincia, la regione geografica Tibet, abitata da una popolazione e culturalmente e linguisticamente diversa da quella cinese. Vero che lo stato cinese ingloba anche altre etnie un tempo organizzate in propri stati e ha invaso il Tibet dal 1959, dichiarandone l’annessione senza che la comunità degli stati democratici occidentali levasse e poi abbia mai levato proteste.

Di più, quando nel 1959 l’armata rossa maoista invase il Tibet, per un vastissimo ambito culturale, il cui referente la rivoluzione bolscevica, il concetto stesso di stati nazionali era dato ormai per storicamente superato, espressione di un modello arcaico, la vera prospettiva di sviluppo planetario la creazione di una complessa società retta dai principi del materialismo storico o marxismo.
Oggi il progetto marxista si è dissolto, anche se grandiosi relitti ne sopravvivono, ma in forme fortemente contaminate di nazionalismo, ergo con pesanti derive verso componenti nazifasciste, mentre un progetto di unità politica planetaria sopravvive soltanto nella forma inquietante di imperialismo religioso, incarnato dal radicalismo islamico. Eppure, davanti alle immagini televisive delle manifestazioni popolari di protesta intorno alla fiaccola olimpica e in Occidente, e nella sola grande democrazia in progresso occidentalizzante: l’India, in Italia un professore di storia cinese ha lanciato un manifesto di denuncia delle basse speculazioni dei servizi segreti, CIA soprattutto, che usano strumentalmente l’occasione olimpica per attaccare il popolo cinese, sminuirne i progressi.

Di più. Il manifesto Losurdo di denuncia della bieca congiura ha riscosso incredibili consensi in un vasto ceto di intellettuali di prestigio, tra il filosofo rifondazionista cattocomunista Gianteresio Vattimo e niente meno che uno dei più acuti politologi e storici contemporanei: l’ambasciatore Sergio Romano, via passando per il maggior antichista italiano vivente e di certo uno dei più eleganti e dotti polemisti, il professor Luciano Canfora.

Che cosa spinge persone di così vasta dottrina e competenza nell’ambito della cultura italiana a una tal posizione: leggere tanto nelle manifestazioni di protesta pro Tibet intorno alla fiaccola olimpica quanto nella loro divulgazione una manovra puramente complottista dei servizi segreti dell’impero americano?

Con un lettore che lo interroga, dalle colonne del ‘Corriere’, sul punto, l’ambasciatore Romano non ragiona di complotto, ma sostiene la natura progressiva dell’intervento militare cinese del 1959, in quanto pose fine a uno stato teocratico feudale, avviando il popolo tibetano nel fiume del progresso. Per l’ambasciatore Romano i benefici ottenuti dal popolo tibetano sono infinitamente maggiori dei costi. Una tesi sostenibile soltanto fingendo mai accaduto il disegno autenticamente etnocidario avviato con la proclamazione della rivoluzione culturale in Tibet nell’agosto 1966, che soppresse l’uso scritto del tibetano, distrusse templi e libri in veri roghi nazisti. Reazione tibetana fu una guerriglia sostenuta dalla CIA e spietatamente repressa, inseguendo nel 1974 fino in Nepal i resti dei gruppi partigiani tibetani e sterminandoli, mentre parallelamente prendeva forma una colonizzazione forzata del Tibet, trapiantandovi massicciamente popolazioni di etnia han, nonche’ gruppi di minoranze etniche islamiche, in un disegno combinato di etnocidio e genocidio dell’etnia tibetana, e della sua cultura buddista immaginificamente contaminata di animismo.

In questo quadro sostenere che l’invasione cinese sia stata un progresso è abrogare l’idea che i tibetani non potessero sviluppare, proprio a partire dal forte contenuto razionale della metafisica buddista, un proprio percorso politico autonomo verso forme di libertà politica e di progresso sociale. Sostenere che il progresso dei tibetani passava per i cinesi, piaccia o non piaccia all’ambasciatore Romano, è coltivare un’idea razzista della politica, fondata su una semplicistica e ingenua visione di progresso, contro la quale, anche il Leopardi più accessibile e immediato: quello delle ‘Operette Morali’ scrisse uno dei giudizi di condanna più netti, in ragione della misurata, ironica condanna.

Ma c’è di più e di peggio: se Vattimo, Romano, Canfora possono ignorare il concreto dell’intervento non già in Tibet del governo cinese, ma nel quotidiano dei cinesi, non può ignorarlo il professor Losurdo. Ovvero non può ignorare che in Cina una donna per essere gravida ha bisogno del permesso dell’autorità statale. E questo permesso è bene che se lo porti appresso, perché altrimenti, se sprovvista, viene infallibilmente portata di peso ad abortire, fosse anche in otto mesi. Questa è la società cinese oggi in un dettaglio concreto, che il Losurdo non può ignorare, come non può ignorare che in Cina vanno a votare soltanto quelli che ricevono una lettera di invito del partito.
Questo il clima, va da sé che la questione tibetana sia per i socialfascisti al potere in Cina tutto grasso che cola, in quanto permette quell’esaltante sciovinismo del quale tante sventurate pagine tramanda anche la storia d’Italia, a incominciare da quella vergognosa delle ‘radiose giornate romane’ della primavera del 1915, quando D’Annunzio eccitò della marmaglia universitaria a linciare Giovanni Giolitti. E dallo stesso sciovinismo sono animate: affatturate oggi le moltitudini cinesi, come ben descrivono quei cinesi di Londra che, la settimana scorsa, con randelli e combattiva ferocia braccavano i tibetani che andavano a manifestare sul percorso della torcia olimpica, ma questione che non fa problema per la nostra accademia alta, tenacemente lossurdica sul punto democrazia.
La nostra alta cultura ha una tradizione di lotta alla democrazia radicata e tenace, che riaffiora endemicamente; e della quale il manifesto Lodurdo è soltanto un clamoroso esempio.
Una cultura quanto oggi comicamente incapace di misurarsi con la complessità del mondo, riconoscerne almeno la natura, e i limiti della ragione davanti al mondo senza abdicare nel puro fideismo religioso trascendente, nulla lo spiega quanto i suoi balbettii davanti al corso della nostra lotta politica, fino alla comica assoluta delle interpretazioni dei risultati elettorali recenti, punto sul quale torneremo, ma da questa necessaria premessa: noi siamo il paese europeo dove il processo di rinnovamento dell’universo simbolico nella direzione laica illuminista ha patito nel ‘900 il più pesante arresto regressivo controriformista fascista, poi ribadito dal ventennio cattomarxista, da dove la natura controriformista complessiva dei due blocchi politici italiani.

E qui è anche il perché oggi la nostra cultura non riesca a capire che l’illuminismo è un processo interiore spirituale, che si realizza in ogni singola persona: questo indicava Kant, e non un movimento della politica. Dall’azione politica sottratta, come in Cina al controllo popolare, non può venire che l’asservimento del popolo ai poteri statali, attraverso una complessa deriva cleptocratica delle classi dirigenti che, abbandonate a sé stesse tendono a chiudersi in casta, produrre testi di autolegittimazione alla Losurdo: di plauso ai governi che introducano leggi sull’aborto alla cinese, ma delle quali non una parola neanche dai difensori della vita alla Ferrara: che evidentemente non la conosce, ma a sua grave colpa, perché chi di un’idea fa professione deve documentarsi. Oggi invece la cultura italiana: la parte che va forte, è quella che coltiva un’idea del mondo fondata su opinioni del tutto avulse da ogni contatto con la tenace umiltà illuminista kantiana, manifesto sulla Cina Losurdo docet. Ma d’altra parte anche parecchio losurdico filocinese sarebbe oggi quel Platone antidemocratico incancrenito che scriveva: “Se vogliamo rivolgere l’intelligenza innata dell’anima al suo giusto impiego mediante un uso genuino dell’astronomia, procederemo come facciamo in geometria, per mezzo di problemi, e lasceremo da parte il cielo stellato. – Platone, Repubblica (530 B)”.

Piero Flecchia

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