Una nota in margine agli ‘sconfinamenti poetici’ di Beppe Mariano

Della meditata, profonda passione di Beppe Mariano per la scrittura rende chiara testimonianza la sua attiva feconda presenza, dagli anni ‘970 del secolo scorso, nelle redazioni delle più significative riviste letterarie italiane, tra la ormai storica ‘Pianura’ di Sebastiano Vassalli e ‘Il cavallo di Cavalcanti’ (ed. Azimut, Roma), che oggi dirige con Franco Romanò.

Accanto a questa ricerca speculativa critica e creativa, Beppe Mariano ha esercitato quasi tutta la gamma delle professioni connesse alla comunicazione, tra la pubblicistica, soprattutto nell’ambito della critica teatrale, cinematografica e di costume, e la partecipazione diretta alla vita teatrale tanto come autore quanto dirigendo il teatro cuneese Toselli negli anni ‘990.

Il senso e la ragione di questo suo ‘secondo mestiere’, sono stati il portato di una sorvegliata, meditata ricerca poetica, la cui sintesi e summa è la silloge poetica ‘Il passo della salita’ (pp 108, ed. Interlinea, Novara 2008, euro 12), il cui incipit si colloca alla metà degli anni ‘960.
Data1966, compresa nella raccolta ‘Ascolto dell’erba’, la poesia ‘Annuncio secondo’, un vero enunciato di poetica dove in nuce c’è già tutta la posteriore scrittura di Beppe Mariano:
“Solo il prodigio d’una rosa/ resiste all’autunno/ che preannuncia neve/ su scheletri di vendemmia. // Il presente è ressa di giorni/ inutili, fuggenti prima che/ un senso ne cogliamo,/ come acqua tra le mani./ Basterebbe il pago cuore/ d’un tempo: del ragazzo che/ si offriva alla pioggia godendola/ come si gode d’una malinconia.// La notte è un portico desolato,/ vampe di clamore dai caffé/ in cui si bivacca altercando sulle carte./ Un sospetto di morte vi è nell’ebbro/ che s’incontra per strada, che si duole/ dei propositi un tempo scampanati./ È il ragazzo di ieri che si scopre/ tradito dall’uomo che è diventato.// Dal remoto della mente/ squillano voci nell’ora tarda./ A casa bisognerà riordinare tutto/ come se si dovesse morire domani.”

Quattro numi per questa breve significativa composizione si intravedono presenti, e felicemente cooperanti, nello sviluppo verso esiti alti della poesia di Beppe Mariano: Leopardi, Pascoli, Gozzano e Montale. Da Leopardi e Montale, per la loro mediazione, Mariano ha maturato la coscienza che soltanto se l’Io della scrittura si articola come entità trascendente, sintesi in ascesi dantesca dei tanti Noi contradditori che chiedono voce entro la bufera del proprio tempo, la poesia trascende la suggestione lirica, per farsi rilancio di contenuti etici nello spazio sociale per la mediazione della ricerca estetica.

Ma per narrare il proprio tempo occorre un’etica giudicante, imprescindibile a forgiare un linguaggio che non sia un doppio subalterno del mondo o una descrizione dei sussurri del narcisismo egotico. Ed è qui che, con la coscienza dantesca dell’esilio, che incombe su ogni esperienza poetica autentica in lingua italiana – le ragioni le esporremo più avanti – entrano in gioco nel campo della costruzione del verso di Mariano Pascoli e Gozzano; significativi nella sua scrittura in quanto Mariano ne ha fatto la propria eredità nella doppia valenza di meditata mediazione lessicale tra simbolo e vita e di articolazione del testo come visione epica dal basso bassa, spesso veicolata per citazioni filtrate dall’ironia del contesto, anche attraverso estenuazioni pseudo & metaliriche dalla filastrocca infantile al dire proverbiale dialettale.

Poesia civile, la poesia di Mariano si istituisce su tematiche di vissuto plebeo, cui a tratti consuona, e a tratti si contrappone, la coscienza che non v’è salvazione individuale se non nel mito religioso, mentre un salto sismico nella scrittura di Mariano accade quando, per il duro dettato della vita, il poeta conosce la sua discesa agli inferi in una esperienza carceraria, che diventa racconto nella raccolta ‘Notizie dalla Castiglia’ (1973) – la Castiglia è il carcere di Saluzzo.

Il racconto si articola in XXXVI stanze, cronaca dei giorni della prigione e cronaca del mondo, del quale il carcere diventa la metafora. Verifichiamo in queste stanze l’originale forza dell’occhio giudicante di Beppe Mariano, anche attraverso il confronto con l’altro, e d’una generazione precedente, narrato poetico dal e sul carcere: “La danza dello scorpione” di Alfredo de Palchi.
La ragione della discesa nel carcere la stessa: politica, ma mentre il racconto di De Palchi è tutto sotto il segno della disperazione tragica e dell’opposizione crimine-innocenza, in Mariano è assente tanto l’idea di una colpa da espiare che quella di un’innocenza originaria tradita. L’esistente si impone sopraffacente, quando la coscienza coglie la percezione dell’universale nella macchina carceraria, alla cui forza divorante il carcerato non ha altro modo di resistere che chiudendosi in un privato, segreto chiarore lunare, un suo onirico notturno esistere, nel quale alla manipolazione carceraria opporre sogni e artefatti automanipolati nella memoria, intorno alla scoperta del valore fondato per l’esistere delle piccole cose dell’infanzia, del volto di una donna, della suggestione di un frammento di memoria di paesaggio.

Nelle prigioni di Mariano anche i secondini diventano altri prigionieri. Un carcere nel cui quotidiano il prigioniero sta in bilico sulla tragedia, il suo faticoso esercizio per sopravvivere un: “Doversi continuamente riequilibrare/ tra onda che s’avventa e risacca,/ rimpianto e desiderio inappagabile – Diurno IX.”; cui s’oppone il rifugio nel sogno: “Tremota il treno verso l’oltre/ lasciandoci sul marciapiede/ d’una stazione sconosciuta/ dove casualmente siamo scesi/ per un tuo puntiglio/ o forse un mio. – Notturno VII’.” E ancora: “Che altro può accadere qui/ se non il cadere della pioggia,/ solo avvenimento in una giornata/ che non inizia né prosegue. – Diurno XX”. Grido di paura per il coltello che in prigione può a ogni momento colpire, nella compressione che la vita patisce, il grido di libertà può solo prendere forma nel sogno: “Contro il cielo che intontisce/ il grido sale dentro e si esaurisce/ come latte che versa. – Notturno X”.

Le stanze di “Notizie dalla Castiglia” si collocano negli – e sono anche un fondamentale documento sui cosiddetti – ‘anni della contestazione’, momento locale italiano culmine del duro scontro tra due imperi, dalla propaganda occultato come scontro tra le due anime liblab e bolscevica dell’Occidente entro la ‘guerra fredda’, ma nel loro accadere, e ancora spesso dalla cultura d’oggi, rappresentati come tensione all’utopia intorno a un fattibile, ma poi fallito progetto di palingenesi universale.
Della natura velleitaria astratta del progetto rivoluzionario post sessantottesco Mariano matura chiara coscienza alla svolta degli anni ‘970, e ne dà conto in due composizione di grande forza di scrittura e di acuta penetrazione nei fatti politici: “La novella” del 1975, con il significativo cartiglio montaliano: “È il segno di un’altra orbita: tu seguilo”, canzone di afflato leopardiano, termina con la coscienza che: “È tutto passato …/ ma sotto diversa maschera sembra tornato.”
Qui nella scrittura irrompe per meteorici frammenti, a segnare con più forza il distacco anche linguistico, dal discorso della menzogna: dalla manipolazione mediatica nella lotta politica, voce ancestrale, la lingua piemontese.
Nel percorso della sua scrittura creativa il 1980 segna per Mariano la tappa fondamentale, intorno al poemetto ‘Verde celeste sclin’ – Il vocabolo piemontese sclin, annota Mariano: ‘…è pressoché intraducibile; la sensazione che vuol trasmettere è quella che si prova di fronte a una stonatura’. E nel quadro della poetica oggi dominante ‘Verde celeste sclin’, è un vero ‘sclin’, in quanto ode politica; dopo la quale e con la quale Mariano afferma il suo dire autonomo e originale contro ‘la compagnia malvagia e scempia’. Vi delinea la necessità di fare partito a sé, secondo quella scelta che è l’amaro destino della poesia italiana, ma non solo – si pensi a Mandel’stam – quando assume il suo modello fondativo nel Dante dell’esilio: il Dante della ‘Commedia’.

Questa tradizione del fare partito a sé ha una ragione e un senso ben precisi: rifiutare, con un’abiura estetica petrarchisteggiante, una più radicale abiura in forma di riconciliazione con l’esistente come modellato dai detentori del potere.
Solo dopo la scelta etica sorge e si svolge il problema del suo trasferimento sul piano della lingua: della metafora e della memoria preservata a istituire, contro il procedere della storia come costruzione di sopraffazioni dalla parte del potere, una riserva di libertà nel simbolo da tramandare, un segno altro per quanti verranno e sapranno mobilitarsi in un disegno di libertà.
Ode costruita intorno all’intuizione metafisica pre socratica empedoclea che: “Si ha bisogno non d’una verità costante/ ma d’una costante in una verità mutabile.”, ‘Verde celeste sclin’ colloca la scrittura di Mariano nell’alveo del profondo universale della tradizione poetica italiana, anima e origine stessa dell’identità nazionale.

Per coglierne l’originalità, – e in uno la forza e il senso dell’essere dentro la nostra tradizione poetica della poesia di Beppe Mariano – muoveremo dalla più radicale negazione dell’identità civile italiana, per le parole profondamente meditate sul maglio della storia politica di quello straordinario spirito di raffinato uomo politico che fu il principe di Metternich: “L’Italia è una espressione geografica.” Metternich fondava la sua affermazione sulla constatazione che la penisola era uno spazio geografico non definito, dopo la caduta dell’impero romano, da alcuna identità politica stabile.
Il solo tratto culturale comune tra le diverse popolazioni della penisola era, per il principe di Metternich, un qualcosa che non poteva creare identità politica attiva, in quanto condiviso con molti altri popoli: la religione cattolica. Il suo centro romano vaticano ha steso sulla penisola, nell’arco di oltre mille anni, la sola trama unitaria forte: la rete di vescovadi e parrocchie, per i quali trasmetteva e trasmette in uno l’insegnamento religioso, ma anche realizza una permanente acrimoniosa difesa della propria concezione della forma politica entro la quale il suo messaggio religioso debba diffondersi. Ma così facendo, la religione cristiana cattolica si connota come una religione profondamente intrisa di secolarismo, una religione politica con velleità tenaci alla teocrazia.

In Europa la rottura con la concezione cattolica della relazione religione-società attraverso il primato della religione sulla politica, è stata consumata per un complesso combinarsi di riforma protestante e rivoluzione liberale, a discendere dalla rottura del patto trono altare in Germania e dai conflitti di giurisdizione con Roma dei potentati europei rimasti cattolici; mentre la disgiunzione tra politica e religione in Italia fu, fino al Risorgimento, impedita dalla temperie della controriforma. Una controriforma tanto più devastante in quanto nella penisola, al culmine della civiltà medioevale, una rottura tra disegno politico totalitario cattolico e società italiana si era già consumata per la rivolta comunale; che fu essenzialmente rivolta contro il dispotismo feudale vescovile. Una rivolta che aveva prodotto uno spazio autonomo della politica, il vero portato del rinascimento; e contro il quale la chiesa cattolica reagì con feroci repressioni, culminate nell’evirazione della società civile comunale della penisola attraverso la combinazione storica neofeudale di despotati signorili & controriforma intorno alla macchina istituzionale repressiva inquisizione.
Della grande ascesa civile delle società comunali, distrutto il tessuto di libertà istituzionali, è rimasto, lascito dell’Italia comunale all’Occidente, un residuo di testi letterari, a discendere dal vertice della ‘Commedia’, via passando per il ‘Decameron’ e il Machiavelli; testi la cui presenza ha sempre impedito la piena vittoria della normalizzazione cortigiana colta petrarchesco-bembesca, in salsa di misticismo predicatorio devozionale.

Per il residuo letterario forte del comunalismo, nelle coscienze meno soggiogate dalla cultura controriformista di delinea la contraddittoria forma della sintesi michelangiolesca, che si realizza come titanismo individualista, effetto dell’assenza di referenti politici civili nello spazio sociale. In questa coscienza il tempo della ‘repubblica comunale’ si connota come il tempo-forma della nostalgia per i padri, lo sguardo volto al passato in quanto manca un progetto di sviluppo politico nel futuro. Il mito del passato diventa la forma politica della coscienza estetica, come si ricapitola nella poesia alfieriana, che prepara, premette a quella rinascita politica attraverso il complesso lascito letterario comunale che nessun principe di Metternich può intravedere.

L’unità politica risorgimentale italiana è il fatto politico che realizza il lascito letterario comunale, prefigurata dai Leopardi e dai Foscolo, difesa sarcasticamente dal genio grandioso dell’Imbriani nello smarrimento degli epigoni della grande epopea, e poi dalla cultura antifascista, nella esemplare sintesi montaliana, dopo il fallimento, nella morsa della cultura catto-marxista, del progetto delle forze laiche resistenziali. E di questa condizione di interdizione dal progetto politico nel paese acquista coscienza e diventa voce, ultima giunta nella tradizione neocomunalista della scrittura resistente italiana, la poesia di Beppe Mariano. Qui trova il suo approdo, coerente entro la tradizione che l’ha modulata.
Dalla coscienza che non già nessuna rivoluzione è in Italia possibile, ma che in primis e soprattutto nessun riformismo politico può articolare il suo dettato oltre i limiti del disegno cattolico di società, la scrittura di Mariano si ridisegna lungo un versante di titanismo neomichelangiolesco che trova il suo tratto originale nella lettura geomantica della natura come luogo di memoria e ascesi, in una pagana celebrazione del paesaggio alpino intorno al Monviso.

La raccolta ‘Monvisana’ (1990-95), che chiude la silloge, sorge dall’interrogativo dell’Hõlderlin vigoliano: “E tu con i tuoi pioppi amato fiume!/ Mareggianti montagne! E voi tutte/Cime assolate, dunque vi ritrovo?”
Mariano qui recupera il mito del tempo dei padri come storia del mondo vista con e negli occhi della vita a margine delle sue valli alpine, che ha resistito e si è sottratto alla politica del potere in quanto disegnata: sotto il primato di una geografia naturale incombente, mondo che si libera adattandosi alla e nella trascendenza naturale.
Qui è la trama forte e originale di ‘Monvisana’, dove sotto il segno della natura, dal suo intimo contatto neopagano, la coscienza si pone oltre e contro l’accadere fenomenico della storia: “… Altre nubi si lacerano/ su altri monti, rivelano le antiche morti. // Chi si protende nella memoria/ li ritrova: coscienze oscure che/ agitano il sonno dei vivi,/ schiene aggobbite dalla perseveranza,/ i morti della montagne,/ le utopie di ieri. – in ‘Elva ultima’ vv 35-42”

Elva è il grande luogo letterario della poesia di Mariano, a un tempo paese di baite abbandonate e metafora del mondo, quando la gerarchizzazione dei valori costruita dal dominio lo occupa, lo riduce entro una locale geopolitica metternichiana dove: “… insegue la belva strascico/ di carne viva; ma la scala/ è senza pioli, il morso è dopo/ nell’arancia del sogno.// S’acciela il petrolio coagulato/ della notte, suoni opachi/ precipitano. All’acqua che sta // sformando tutto, tutto stremando/ … / La rimozione cala universale.”
Contro l’apocalisse del potere: la sistematica della gerarchizzione politica, che muta i valori in disvalori, sta la coscienza della poesia che insegna che non sempre e non necessariamente l’esperienza della sconfitta si traduce in sottomissione entro l’ordine gerarchico, perché se: “Ad ogni cima superata, altra si oppone./ Ogni monte ascendi per capire,/ estendi i sensi, la ragione.”

Un ascendere che si tramanda, crea una catena di conoscenza, premessa a una forma-forza umana capace di emergere, farsi evento di libertà quando e dove dal simbolo poetico si universalizza come istituzione, o almeno si cerca. Questo si compendia con bella efficacia nei versi finali del canzoniere di Mariano: “Raggiungiamo, ancora una volta,/ l’estrema scia solare; ma presto/ la perdiamo ancora./ questa volta definitivamente./ Eppure il sole ancora ci giunge/ dal riflesso dell’aereo che sta/ traversando il cielo: in esso/ continuiamo lo sconfinamento.”

Piero Flecchia

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