Limiti e rischi della liberaldemocrazia parlamentare nell’ambito dell’istituzione Stato: una riflessione in margine alla tragedia birmana e la sua parodizzazione
nello specchio della cultura politica italiana.
“La forza politica dei governi è inversamente proporzionale all’incidenza del prelievo fiscale”
V. Pareto

1)
Le rivoluzioni liberali tardoilluministe europee, tra fine ‘700 e ‘800, in quanto ripresa cosciente del modello inglese, a discendere dall’indicazione del Voltaire delle ‘Lettere inglesi’, dovevano inevitabilmente modellarsi sul parlamentarismo britannico, dove la monarchia ha funzione di garante costituzionale dei ceti conservatori.
Sul continente la soluzione inglese non è riuscita soprattutto per lo scacco in Francia dell’ipotesi girondina, travolta dalla fuga del re e dalla spinta del giacobinismo, fino alla tragedia del terrore, inevitabilmente sfociato nel bonapartismo: una dittatura moderata con forti elementi di populismo militarista patriottardo imperialista a sostenerla, in combinazione con la manipolazione dell’informazione, della cultura e l’integrazione della religione in posizione subordinata rispetto allo stato burocratico.

L’Europa continentale contemporanea, come insegna la storia del XX secolo, e nel XXI la Russia di Putin, non è mai riuscita a liquidare l’ipotesi reazionaria controriformista antiliberale (si veda anche l’attuale crisi polacca); ecco perché la sua la dinamica politica, dopo la liquidazione delle monarchie assolute tra ‘700 e ‘800, è rimasta inscritta tra i due poli del modello parlamentare anglosassone, sostenuto da una tensione democratica progressiva, e di una regressione autoritaria intorno a forme di dittatura personale di tipo bonapartista, sostenute da una forte azione repressiva e manipolativa attraverso le istituzioni statali: polizia, esercito, magistratura, educazione, e soprattutto partito unico.
Questa forma di tirannide si è progressivamente raffinata intorno a sempre nuove elaborazioni della cosiddetta cultura reazionaria, marasma di mitologemi razzisti, imperialisti, populisti, formalizzati anche filosoficamente, come gli sventurati esempi di Gentile in Italia e Heidegger in Germania documentano. La crescita della spinta socialista marxista, culminata con la dittatura bolscevica in Russia e Cina, ha ulteriormente potenziato la cultura reazionaria, arricchendola di un’altra nota alta, soprattutto nefasta per quanto ha cancellato dalla coscienza culturale delle élite intellettuali occidentali del significato del nucleo centrale della rivoluzione liberale: il controllo e il deperimento della macchina statale (meno stato e più a buon mercato), poi giunto, nel liberalismo radicale, fino alla svolta anarchica, dove le istanze liberiste e quelle sociali cercano una integrazione e reciproca illuminazione.

La cultura politica sociale del XX secolo ha oscurato il dato centrale dell’anitistatalismo liberale: la riduzione delle tasse, a impedire che la reazione pagasse i suoi mercenari finanziandosi con i soldi dei ceti produttivo che opprime. Più tasse, era chiaro ai liberali classici, vuol dire più stato, ergo una maggiore ingerenza nella vita pubblica dell’istituzione alla quale ogni società assegna la funzione di controllo repressivo, ma che appunto per questo va tenuta sotto stretto controllo, a impedire degenerazioni tiranniche. La coscienza di questo rischio degenerativo, presente in ogni istituzione statale, è stata cancellata dalla cultura europea come conseguenza della sconfitta culturale dell’anarchia alla svolta del XX secolo; con una eclissi del valore di una cultura di opposizione ai processi di burocratizzazione statalista. Questa eclissi ha ridotto il liberalismo a liberismo, ovvero a dottrina economica manipolabile dalle fazioni politiche (sul punto, in chiave italiana, si veda A. Alesina F. Giavazzi ‘Il liberismo è di sinistra’, Milano 2007), mettendo in ombra che la funzione del mercato e della libera iniziativa furono pensati dalla cultura liberale come fattori di crescita complessiva soprattutto dei ceti subalterni, anche se elementi di questa funzione originaria dell’economia di mercato nell’ambito europeo continentale in parte sopravvivono nella sintesi lib-laburista socialdemocratica.

Il lib-laburismo emerso dalla prima crisi di fine ‘800 del socialismo marxista fu visto dai liberali classici come il momento intermedio necessario per integrare nello stato parlamentare liberale i ceti subalterni. Un esempio di questa visione, e la strategia che ne conseguì, sono nella magistrale politica di Giovanni Giolitti, che si trovò a combattere con entrambe le due anime reazionarie italiane: clericomilitarista di destra e pseudorivoluzionaria marxista massimalista a sinistra, la cui sintesi disastrosa ed esemplare sarà Benito Mussolina, ma la cui costruzione passò per la decisiva azione personale negli anni 1915-22 di Gabriele Dannunzio.
Decisivo fu il ruolo del Vate per la mobilitazione reazionaria che portò all’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale: il primo passo del paese sulla strada del disastro fascista. Un disastro che principia con l’aggressione fisica in Roma, nelle cosiddette ‘radiose giornate’ dell’aprile 1915, di Giolitti da parte degli studenti eccitati dal Vate a dare manganellate e far bere a Giolitti e ai giolittiani l’olio di ricino. La caduta di Giolitti, voluta dalla monarchia, porta l’Italia al grande macello, ma soprattutto a quella destabilizzazione che, passando per la dannunziana impresa di Fiume, approderà alla stabilizzazione autoritaria antiliberale della dittatura fascista, voluta dalla chiesa non meno che dalla dinastia sabauda, contro la linea di mediazione democratica lib-laburista giolittina.

In Italia negli anni ‘920 il fascismo, attraverso il Partito Unico, occupa la macchina statale, diventando modello esportabile, propagandato come inveramento storico di tutto il ciarpame sgangherato di dottrine reazionarie del romanticismo antiliberale populista che, anche dopo il crollo del fascismo, continuerà a intossicare, ottenebrare i ceti subalterni attraverso la grande illusione populista bolscevica, crollata alla fine del secolo scorso, ma non i gruppi di potere militare e politico e il retroterra culturale che li avevano espressi. Un caso del paradigma è la casta politico-burocratica russa, ma perfin più esemplare è quella cinese, oggi politicamente la presenza più nefasta nella politica planetaria. Essa usa spregiudicatamente il liberismo in funzione reazionaria, proprio come lo usò Pinochet in Cile, ergendosi a polo di aggregazione dei paesi nei quali i gruppi di potere in funzione antidemocratica progettano e realizzano dittature militari.

Questo nei dettagli della storia, le cui soluzioni politiche istituzionali oggi guardano tutte ai due modelli europei della dittatura burocratica in funzione conservatrice sedicente progressista, contro la quale il modello alternativo è ancora quello del parlamentarismo anglosassone, nel quale i ceti subalterni oppressi, o almeno le loro élite potenziali, ieri con il dissenso russo e cinese, oggi birmano, vedono la sola possibile via di liberazione. Ma questi ceti subalterni decisi a un mutamento lib-laburista, come oggi il popolo birmano, trovano ben poco appoggio in Occidente, in quanto qui i ceti subalterni sono quanto fortemente critici rispetto alle loro élite dirigenti, per cui, mentre nel terzo mondo le forze popolari guardano alla liberaldemocrazia di origini anglosassoni come traguardo, anche negli stessi paesi anglosassoni si delinea una tendenza svalutativi del modello politico. Il perdurare di questa tendenza avrà come inevitabile conseguenza il riemergere in Occidente: e soprattutto nell’Europa continentale, di forti spinte reazionarie, lungo processi tortuosi sostanzialmente regressivi neofascisti, come appunto sembra aver imboccato l’Italia della degenerazione della élite dirigente democratica post fascista.

La causa prima del declino della élite politica italiana sorta dalla Resistenza non è difficile da individuare: il potere nell’Italia repubblicana post fascista è stato egemonizzato da due culture sostanzialmente antiliberali, ergo reazionarie: quella comunisti marxisti e quella dei cattolici del sillabo. Le forze politiche che vi si identificano hanno, dai tardi anni ‘950 del secolo scorso, iniziato una sistematica lotta ai residui risorgimental-liberali, privilegiando nella loro pseudosintesi socialdemocratica il momento statalista antiliberale, ma così mettendo in moto un’autentica deriva reazionaria, un cui altro effetto evidente è, con lo strapotere della criminalità organizzata, il separatismo leghista padano, la cui prima forma fu nel paese, dopo la caduta del fascismo, non casualmente, il separatismo siciliano governato dalla mafia. Ecco per quale percorso il paese si trova oggi sopraffatto da gruppi di interesse organizzati di insaziabile voracità, che hanno confiscato a proprio vantaggio il flusso redistributivo del prelievo fiscale, bloccando il sostegno ai ceti e classi (giovani, poveri, nuove professioni) più deboli, anche attraverso la trasformazione del welfare in macchina di produzione di consenso corporativo a vantaggio della classe politica.

Nella sommaria descrizione della vicenda della politica in Italia nel secolo scorso come caso del paradigma statale europeo nel XX secolo, troviamo la riconferma dei due poli antagonisti entro i quali si articolano le società statali oggi, dilacerate tra forme di democrazia lib-laburista in fase regressiva e macchine statali dominate da cricche criminali, per sottrarsi alle quali i popoli oppressi, come ieri i russi e oggi i birmani, guardano al nostro modello Occidentale. Ma anche in questo Occidente modello per gli oppressi, le sue élite politiche sono non episodicamente percorse, come descrive il caso Italia, da processi di involuzione. Lo denuncia la loro universale incapacità, più o meno accentuata, di rafforzare la democrazia attraverso processi di integrazione dei ceti subalterni, oggi in fase di diffusa pauperizzazione al serpeggiare dell’inflazione: lo strumento finanziario che depreda il lavoro trasformato in risparmio a vantaggio dei ceti forti.
Di questa dialettica politica planetaria verso il disastro, se non saranno introdotti efficaci anticorpi culturali correttivi, è un esempio illuminante la tragedia del popolo birmano, passato direttamente dal colonialismo alla dittatura militare, contro la quale ciclicamente avanza legittime rivendicazioni di libertà, ogni volta trasformate in tragedia dalla feroce repressione del gruppo dirigente statale.

Da sempre, la richiesta politica del popolo birmano è una soluzione liblaburista di tipo occidentale anglosassone. Questa alternativa spinge il popolo birmano a lottare contro la dittatura che lo opprime, una dittatura segnata, come vedremo da forti tratti fascisti: ecco perché nella resistenza birmana soprattutto noi italiani dobbiamo vedere a un tempo non solo il nostro passato, ma anche un futuro possibile che ci minaccia.

2)
La spinta rivoluzionaria popolare birmana (Myanmar è il nome geopolitico imposto alla Birmania dai generali al potere) conferma anche quella legge della tragedia classica che vuole il dramma poi trovare un necessario contrappunto conclusivo comico-grottesco. E questo contrappunto comico-grottesco della tragedia birmana si realizza nello specchio che se ne dà la cultura italiana: rappresentazione grottesca sulla quale ha senso riflettere soltanto per quanto ci permette di comprendere del percorso contraddittorio della democrazia nel mondo contemporaneo, ovvero per quanto trascende i singoli personaggi della recita italiana.

Quando i monaci buddhisti birmani, nel trascorso settembre, sono scesi in piazza per protestare contro l’aumento del prezzo della benzina, moltiplicato dal governo a realizzare un incremento selvaggio del prelievo fiscale, immediatamente in occidente si sono levati autorevoli inviti alla giunta militare al potere nel Myanmar da quarant’anni, di non ripetere le precedenti selvagge repressioni: migliaia di morti, deportati, incarcerati, trascinati ai lavori forzati. A cercare di impedire un nuovo e ancor più grave massacro l’Occidente non solo ha attivato una pressione diplomatica attraverso l’ONU, ma ha sollecitato Cina e India a svolgere il ruolo di moderatori sui tiranni del Myanmar. Quanto valgano i tentativi di pressione attraverso l’ONU lo dice un dato: Cina e Russia hanno sistematicamente paralizzato qualsiasi precedente e presente tentativo di sanzioni delle Nazioni Unite contro i tiranni del Myanmar, in nome di una non ingerenza nei fatti interni dei singoli paesi, che sostiene e avvantaggia solo i governi tirannici, intorno a quelli di Russia e Cina, determinati non solo a fare carne di porco delle popolazioni sotto la loro giurisdizione, ma di esportare e allargare il loro modello di macelleria sociale.

I governi islamici sudanesi non avevano bisogno dell’insegnamento e del sostegno della Cina per massacrare, entro un disegno di pulizia etnico-religiosa, i neri cristiani e/o animisti del Darfur, ma una bella mano questo massacro lo riceve dai contributi in armi dei cinesi, decisi a mettere le mani sul petrolio e sui minerali nel sottosuolo del Darfur. E la Birmania non è un potenziale ma, a differenza del Darfur, già un reale produttore di minerali e fonti energetiche, e per di più ai confini della Cina: della quale è un importante partner commerciale, oltre che lo sbocco sull’oceano indiano. Per i politici cinesi, interessati ad accedere al minor prezzo alle fonti energetiche e ai minerali della Birmania, la dittatura dei generali è la forma più vantaggiosa di governo, non solo per la possibilità di vendere le loro tecnologie belliche, ma di imporre e queste vendite e il prezzo come parte dell’appoggio attivo ai tiranni del Myanmar contro il loro popolo.
La casta al potere in Cina è dunque fortemente interessata a mantenere al potere la dittatura militare sul popolo birmano: che ha sperato a lungo nell’India, e soprattutto dopo il ritorno al potere del partito filogandiano del Congresso, ma neanche da questa India il popolo birmano può sperare vero soccorso, perché la dittatura militare del Myanmar svolge una funzione repressiva decisiva sulle minoranze Naga in rivolta, che potrebbero diventare, senza la simmetrica repressione nell’area birmana, un polo di destabilizzazione nell’India nord-orientale, proprio come i curdi iracheni in Turchia.

Da questo quadro appare chiaro che per pressioni internazionali la dittatura che opprime i birmani oggi non cadrà. Il popolo birmano può solo contare su una decomposizione interna del gruppo di assassini che lo governa, come accaduto a Praga o in Ungheria, quando sodati e ufficiali passarono dalla parte del popolo, o nell’Iran dello scià. Solo a questa condizione è possibile la libertà politica in quel ricco paese: ricco di minerali, fonti energetiche, pietre prezione – i più bei rubini e smeraldi provengono dalla Birmania -, e soprattutto ricco di straordinarie risorse umane, come lo stesso riemergere ciclico di spinte verso la democrazia parlamentare stanno a provare. Ma se questo è il dato reale, noto perfin a un marginale conoscitore delle cose asiatiche come appunto lo scrivente, per quale ragione di questo blocco solidale della CinDia intorno ai despoti del Myanmar non si trova quasi traccia né nella stampa né nelle dichiarazioni dei politici italiani circa la tragedia birmana? Di peggio: nel gioco del ‘fai qualcosa per finta per quelli là’ i nostri politici, pur sapendone l’assoluta inutilità, fanno appello proprio ai sostenitori dei boia del popolo birmano: i governi di Cina e India perché intervengano con pressioni diplomatiche nella direzione del dialogo impossibile tra i boia militari del Myanmar e le loro vittime. Per quale ragione?

Per comprenderlo dobbiamo partire dal tipo di rapporto che oggi corre tra il popolo italiano e la sua classe politica, che non è di certo di idillio, ma ecco che la tragedia birmana permette a un Formigoni, il sedicente vergine presidente della regione Lombardia, o al campione della famiglia PierFerdi il bello: che infatti viaggia verso la terza, o al noto politico con passioni finanziarie D’Alema il Massimo di mettersi tutti qualcosa di rosso e recitare un loro ruolo nel clima di generale sdegno contro i massacratori del popolo birmano. Intanto, a rinforzo, la stampa glossa l’evento per memorabili articoli quali sul quotidiano La Stampa del teologo don Bianchi: stando al quale dalla Birmania parte una rinascita della funzione del monachesimo nel mondo. Ma c’è anche di peggio. C’è il fine narratorprouscuttiano Piperno Alessandro che dal Corriere della Sera predica, leggere per credere: “… Ecco, questi monaci, pur senza saperlo (è bene che non lo sappiano), sono degli autentici eroi della libertà. … E se l’invincibile impero inglese si sbriciolò al cospetto della fermezza di un omino, c’è da sperare che questo regime da operetta possa fare la stessa fine.”
Tralasciamo il dettaglio sull’ignoranza dei monaci teravada birmani sulla questione libertà: basti il sapere pipernico, (come grida dal suo memorabile inciso), ma davvero senza fine cretina perfin a misure piperniche è l’idea che il regime sanguinario dei generali del Myanmar sia ‘da operetta’. Se lo è, da operetta sono stati anche lo stalinismo, il nazismo. Caro Piperno e pipernanti vari, i generali birmani agiscono secondo un ben preciso piano di potenza, che si regge sul sesto esercito del mondo, il cui costo assorbe quasi la metà del bilancio del paese. A mantenere questo eccesso di investimenti nel settore militare, i generali hanno introdotto la pratica stalinista del gulag, con deportazioni in massa ai lavorio forzati per creare due grandi assi autostradali, uno da nord a sud e l’altro da est a ovest, dislocando circa al loro incrocio la nuova capitale. I generali birmani hanno un disegno di pura politica di potenza, che propagandano identificando le fortune della nazione con la forza del potere militare, legittimato dal nazionalismo, ma con tempestive svolte pragmatiche, come nella stessa lotta alle minoranze etniche e religiose, luoghi anche di arruolamento di corpi militari per azioni chiave nella repressione. Esemplare l’impiego di milizie islamiche, nelle azioni più brutali contro il dissenso buddhista. I generali del Myanmar sono tutto meno che personaggi da operetta. Sono degli assassini razionali, delle sventure tragiche per il loro paese, come descrivono i due milioni di birmani in fuga in Tailandia: sono in fuga da ben peggio che la fame e la disoccupazione: sono un fuga dal lavoro coatto, dalla violenza di truppe mercenarie al soldo di una casta che, anche se con altre procedure e tecniche, come la nostra casta politica, fonda la sua sopravvivenza su un ramificato clientelismo corporativo, Ma la politica corporativa ha in sé la propria autodistruzione, in quanto si regge su un distorto sviluppo industriale di tipo stalinista: separato dal mercato, alla cui conclusione, come i diversi destini del comunismo russo e cinese descrivono, c’è la bancarotta.

La vera natura e forma del regime dei generali del Myanmar è stalinista, e le sue crisi cicliche riflettono il processo di degrado e di crescente impoverimento dei ceti produttivi, che è di ogni economia che non si fondi sul mercato, ma questa elementare ed evidente verità non può essere detta in Italia, dove la società nelle sua articolazioni culturali si divide tra nostalgici di destra e di sinistra dell’economia di piano, che di fatto sopravvive in forme mascherate a sostenere il parassitismo della casta al potere, ben più vasta della nostra classe politica, anche se ha nella nostra classe politica la sua roccaforte e la sua garanzia.

– 3)
La rivolta birmana ribadisce il degrado che colpisce le società quando separano economia e mercato, sostituendo il mercato con il dirigismo autoritario, ma il mercato da solo non basta a garantire una cultura delle libertà, e proprio la Cina lo dimostra. Il mercato per essere reale strumento di sviluppo economico diffuso deve procedere da ed entro una visione liberale e non soltanto tatticamente liberista secondo il modello della NEP leninista: come appunto è oggi la libertà di mercato permessa dal Partito unico cinese.
Il mercato, strumento di governo dell’economia liberista, ha una vera funzione progressiva soltanto se il sistema delle sue regolamentazioni è pensato entro un più vasto schema di garanzia delle libertà individuali, a tutelarle. Ecco perché, in ogni società la partita decisiva per le libertà si gioca al livello dei modelli culturali, nel cui ambito la cultura del mercato è soltanto un fattore, e subordinato al progetto politico.
In ogni comunità statale determina il salto qualitativo verso una società retta da valori di libertà il tipo di selezione e controllo della élite dirigente politica; detto altrimenti, il controllo popolare sulle istituzioni di governo attraverso il controllo sugli uomini che agiscono le istituzioni. Questo personale, in parte burocratico e in parte politico, va sottoposto a stringente controllo perché, come formalizzato da Gaetano Mosca nell’universo della teoria attraverso l’esame analitico dell’esperienza positiva della storia, per deriva naturale gli uomini delle istituzioni tendono a chiudersi in casta, a isolarsi e sopraffare la società arroccandosi nel complesso di istituti che formano lo stato, e da qui esercitare, attraverso la gestione del prelievo fiscale, della manipolazione culturale e della repressione, il controllo sulla società.

Ecco perché la mossa decisiva di ogni società libera è, con le libertà di associazione e di parola, il controllo sul prelievo fiscale e sulle magistrature, mentre oppostamente ogni classe dirigente tende a sequestrare e rendere cosa propria l’insediamento delle magistrature, isolando nella burocrazia il prelievo fiscale e sempre attraverso la burocrazia reprimendo le libertà di associazione e parola. Questo il nodo del conflitto che oppone, intorno allo stato, ogni classe politica al suo popolo, diventa chiaro perché la società liberale borghese in ascesa sostenne la necessità di una contrazione della macchina statale, vedendo in essa: i suoi apparati di controllo burocratico, il grande impedimento allo sviluppo di una vera cultura delle libertà.
Il dirigismo autoritario statale, ad affermarsi, con la pressione fiscale, tende a sviluppare, attraverso una combinazione di azione legislativa e apparati burocratici, una sistematica ingerenza predatrice nei processi economici; a contrastare la quale il liberalismo nella sua fase ascendente elaborò la dottrina del mercato, ma non qui si decide la libertà nelle comunità statali contemporanee. Oggi misura il grado di libertà di una comunità umana la sua capacità di controllo sull’apparato statale: la subordinazione funzionale del ceto politico, ad impedirgli di farsi casta, in ragione di una deriva interna delle società statali, come individuato, torniamo a ribadirlo, tra la fine del secolo XIX ed gli inizi del XX prima di Gaetamo Mosca e poi di Vilfredo Pareto.

Oggi in Italia, per una serie di vicende in parte contingenti e in parte strutturali – tra le contingenti la degenerazione, per effetto della Guerra Fredda, e il crollo dei partiti politici nati dalla Resistenza; tra le strutturali la pressione selettiva delle tradizionali forze reazionarie del paese intorno alla chiesa cattolica -, la nostra classe politica si è del tutto sottratta al controllo popolare, sviluppando un sua crescita infestante ipertrofica, che ha un effetto di ridondanza sul parassitismo di personale di servizio, solidale con il potere politico, non solo nel mondo dell’informazione e dello spettacolo, ma anche nelle tante anse distorte dalla politica del mondo produttivo: ricostruito al servizio di una economia che privilegia grandi corporazioni, e tende a corporativizzare il complessivo modo di produrre: Alitalia docet.
L’Italia vive oggi una vera situazione da Ancien Regime, come descrive tra l’altro la scomparsa delle sue industrie chimica ed elettronica, abbandonate in quanto non più fungibili agli interessi del ceto politico-burocratico statale, che ha preferito lasciarle affondare. Questo ceto, isolato dal paese, è ben deciso a sfruttare ogni aspetto della politica in funzione del proprio accrescimento: e nulla lo descrive quanto il sistema di leggi che devia un vero fiume di denaro verso la macchina politica; tutte leggi approvate contro il popolo, anche quando, come con i referendum per l’abolizione del sostegno economico ai partiti, il popolo si era espresso chiaramente.

Da questa premessa, una comparazione tra i costi della politica in Italia e in Birmania potrebbe riservare interessanti sorprese. Abbiamo detto che i generali del Myanmar investono circa il 50% del bilancio dello stato nell’esercito, sul quale fondano il loro potere. In Italia la ragioneria dello stato ha elaborato, e reso accessibili anche vie internet, alcuni interessanti macroaggregati finanziari della spesa pubblica. Da questi aggregati apprendiamo che lo stato centrale trasferisce alle periferie politiche, ovvero regioni, comuni, province qualcosa come il 23% della spesa pubblica, ovvero si autoalimenta corporativamente dalle periferie. Un altro 18% serve a pagare il debito pubblico, ovvero gli sperperi trascorsi del ceto politico. E debito pubblico e trasferimenti agli enti periferici tendono ad aumentare, provocando nel paese Italia gli stessi effetti devastanti di impoverimento che la spesa militare provoca in Birmania.
La comparazione tra spese pubbliche misura quanto avanzato il nostro degrado politico. Anche a impedire questa comparazione, dalla nostra classe politica si è alzato il grande grido in difesa del popolo birmano, che ha visto accomunati i Formigoni e i D’Alema, ben decisi ad occultare la convergenza, per deriva finanziaria interna, tra le due classi dirigenti di Myanmar e Italia lungo il versante della sopraffazione e controllo sulla nazione attraverso lo stato, che innanzitutto un dibatti apre: quello sullo stato stesso. Detto altrimenti, la logica universale dei costi crescenti della politica pone la questione se basti la cultura della rivoluzione liberale a tenere sotto controllo la deriva autoritaria delle élite democratiche. Una domanda che diventa tanto più urgente dopo il crollo sul continente europeo, nella prima metà del XX secolo, delle democrazie liberali, la loro deriva verso il nazifascismo e poi il bolscevismo, che sembra riprendere forza in questo inizio di XXI, dove la mistificazione statalista ritrova inquietante forza con esperimenti come quello venezuelano di Hugo Chavez, la sopravvivenza del comunismo di mercato asiatico, e la ripresa del totalitarismo russo in ricombinazione criptofascista di patriottardo regime di polizia benedetto dai popi ortodossi, mentre tutti i paesi islamici legittimano i loro totalitarismi attraverso la religione.
Questo il quadro, la democrazia dei moderni: la nostra democrazia sembra rivelarsi altrettanto incapace della democrazia degli antichi e delle città stato medioevali di garantire società stabilmente fondate su valori di libertà, e quindi di agire come reale polo di aggregazione e trasformazione di quei popoli che oggi si trovano, come quelli di Birmania, Cina, Russia sotto forme di stati totalitari, e che guardano alle soluzioni politiche dell’occidente come a modelli.

La crisi politica italiana contemporanea: non così unica nel quadro dell’Europa, le forti spinte reazionarie in atto negli USA, le crisi polacca, ucraina, la fragilità delle democrazie latino-americane, i grandi movimenti migratori verso le aree democratiche, con inevitabili rigurgiti di razzismo e tensioni religiose, dicono che esiste nell’area delle grandi democrazie parlamentari un reale pericolo di regressione burocratica autoritaria, gestita attraverso gli apparati burocratici statali e garantita al livello delle decisioni e della legislazione dalla macchina politica. E un segno di questa deriva statalista è anche la lettura falsificante e l’uso strumentale che la cultura e la politica italiana stanno facendo della rivolta del popolo Birmano. Come bloccare stabilmente questa deriva verso regressioni autoritarie, queste involuzioni in corso nelle democrazie occidentali?
Se può anche bastare da noi un solo comico a denunciare l’inganno tutto italiano di una falsificazione della democrazia spacciata come democrazia autentica, la risata della satira non risolve il problema, soltanto lo indica, e soprattutto a ribadire come ogni tragedia finisca per sciogliersi in farsa: si pensi all’antecedente del Nerone di Petrolini.

Per risolvere il problema della crisi della democrazia italiana, bloccare la deriva autoritaria delle sue fragili istituzioni democratiche sorte dal risorgimento e rifondate nella lotto di liberazione nazionale antifascista, occorre innanzitutto che il paese si sottragga alle fascinazioni delle due più forti componenti nostrane della cultura reazionaria antiliberali: quella della destra cattofascista e quella della sinistra cattocomunista, che pur trasformate e mascherate, continuano vigorose a sopravvivere e controllare l’apparato statale. Ma per realizzare questa liquidazione neorisorgimentale occorre il coraggio intellettuale di spingersi fino a rimeditare, recuperandone il senso, la grande spinta libertaria antistatalista entro la quale, nella seconda metà del XIX secolo, presero forma le istanze del movimento anarchico.
Il rischio di degenerazione tirannica in fieri anche nella più articolatamente democratica istituzione statale, la costante minaccia che ogni stato rappresenta per le libertà della propria società, impone di andare oltre l’istituzione stato, sola via per andare anche oltre la dialettica politica dilacerata nel nostro presente tra democrazie e stati totalitari. E questa necessaria svolta impone sul piano culturale di ritornando a riflettere sul senso del messaggio originario antistatale del liberalismo, fino al recupero della sua radicalizzazione culturale anarchica: riflettere sulla necessità, oggi evidente, della liquidazione dell’accorpamento nello stato delle varie istituzioni della politica, per riconsegnarle alla diretta gestione dei cittadini, come appunto chiedono oggi per tutti: e adunque anche per i Piperno e i Bianchi, con forza, ai loro tiranni, gli eroici monaci teravada del buddhismo birmano. Nell’intanto, un’auspicabile svolta pragmatica sarebbe quella che sembrerebbe delinearsi come risposta davanti al massacro del Darfur: un corpo militare ONU di pronto intervento contro chi pratichi la macelleria sociale di massa, ma se già è difficile combattere le sgangherate bande parafasciste islamiche del Darfur, quali dimensioni dovrebbe avere un corpo di intervento necessario a deporre i generali del Myanmar? Almeno quello del corpo di intervento USA in Iraq, ma come poi controllare un tale corpo, senza un’adeguata cultura liberarale a gestirlo, e prima ancora come arrivare a dargli vita in ambito ONU contro i veti certi cinese e russo?

Piero Flecchia

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