L’Islam davanti all’Occidente dopo Gaza
Mario Vargas Llosa affermava orgogliosamente in un suo editoriale – ‘La stampa’ del 13 c.m. – ‘Stiamo con i civili di Gaza’, che è appunto anche la scelta di campo tanto dei politici di parte israeliana che palestinese.
E infatti, mentre i politici di parte ebraica parlano di guerra chirurgica, volta a porre fine alla pioggia di missili sul sud del loro stato: oltre novemilacinquecento lanciati dal territorio di Gaza, i politici palestinesi hanno perseguito con quel lancio la politica del massimo risultato con il minimo costo, dopo che le bombe umane – di costo ancor minore – si stavano rivelando scarsamente producenti, soprattutto sul palcoscenico della politica dell’Occidente.
Un Occidente che ha sempre meno coscienza della vera natura del conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina, come appunto documenta l’articolo di Vargas Llosa, ma chi non sta con le vittime contro gli assassini?
Su questo assioma gioca spietatamente il sistema televisivo arabo, che dal principio del conflitto racconta immagini di bambini feriti, moribondi, fatti cadaverini nelle braccia disperate dei parenti. Per evitare questa rappresentazione del macello di Gaza, i politici israeliani hanno sigillato ai giornalisti il conflitto, contando sulla tradizionale rimozione discreta delle immagini crude di violenza dalle pagine come dai filmati dell’informazione occidentale, che infatti ha seguito la sua storica linea culturale: non vedere non sentire, non parlare, ma non per congiura maligna, bensì per una autentica incapacità di vedere i fatti in accadimento, da dove poi la scelta strategica, dal nuove presidente USA ai vertici della Comunità Europea di ripetere la categorica affermazione di Vargas Llosa: stiamo con i cittadini di Gaza.
Ma Gaza non è solo al confine tra Egitto e Israele. Gaza è nei Balcani: nel Kossovo, dove i Serbi, una cui frazione organizzata gli aguzzini di ieri, sono diventati le vittime di oggi. E una Gaza ben maggiore è stata e minaccia di diventare in pianta stabile, se si radicaliza il conflitto intermussulmano tra sunniti e sciiti, la città di Bagdad, come una grande striscia di Gaza è la complessiva comunità curda in Turchia. E poi abbiamo altre Gaza nel Congo, in Tibet, solo a indicare le Gaza più clamorose: macroscopiche, ma poiché, parafrasando Tolstoi: “i popoli felici (circa) lo sono tutti allo stesso modo (circa), mentre ogni popolo nella sua disgrazia lo è in modo individuato”, torniamo alla individuata questione di Gaza, per poi risalire a un minimo di ricostruzione, se possibile, della matrice culturale che produce planetariamente, a ritmo serrato, i vari abomini Gaza.
Venendo al conflitto in corso: alla Gaza palestinese presente, se la causa scatenante sono i quasi diecimila missili sparati da quel territorio sul sud della stato di Israele, gli antecedenti politici sono: in primis la campagna militare nel sud del Libano, scatenata dall’esercito israeliano, sempre il lancio di missili la causa scatenante, contro il movimento filosciita Hezbollah. Campagna militare conclusosi, per la propaganda araba, con un sostanziale insuccesso di Israele, ma che ha posto fine al lancio di missili dal territorio libanese. Ergo, Israele ha raggiunto il risultato di porre fine alla situazione di endemica insicurezza dei suoi cittadini della regione nord, anche se pagando un costo in vite ben più alto del previsto.
L’enfasi propagandistica del radicalismo arabo ha occultato il risultato raggiunto dagli ebrei sul confine libanese due anni or sono, fino a spingere nella striscia di Gaza i cittadini a sostenere nelle elezioni il partito del radicalismo: quell’Hamas che vuol ricacciare gli ebrei a mare. E Hamas, giunta al potere, inevitabilmente ha ritenuto, ubriacata dalla propaganda radicale, di poter ripetere la vittoria di Hezbollah; che infatti è molto prossima ad ottenere. Non firmerà pace per non riconoscere lo stato ebraico, ma una tregua tacita, accettando di arrestare il lancio di missili in cambio di alcune concessioni necessarie per permettere la sopravvivenza grama di quelle popolazioni a difesa delle quali tutti militano: da Vargas Llosa al presidente USA, via passando per il papa e gli eredi di Martin Lutero. Una popolazione che sopravvive grazie agli aiuti dell’Occidente, in quanto dipende dall’import all’80%, e i magnati arabi non estendono il loro umanitarismo sunnita molto oltre le loro piscine, qualche squadra di calcio inglese e i profumieri parigi.
Ma dopo la tregua si può procedere nella direzione di una soluzione del problema Gaza?
Soltanto se si smette di parlare di una Palestina e due stati, perché la geografia dice che manca lo spazio per lo stato arabo; e si accetta lo stato di fatto Israele, avendo chiaro che il problema palestinese è un frammento di tragedia europeo andato a esplodere entro, ed eccitare l’arroganza nazionalista grande araba, ben decisa a non accettare di pagare un prezzo alla storia europea. E nulla lo dice quanto una comparazione storica.
Circa negli anni che si definiva la nascita dello stato ebraico, entro lo stesso quadro politico che ne stava determinando la nascita, in due province periferiche d’Italia una popolazione di lingua italiana e di etnia latino-veneta, numericamente allora circa pari ai palestinesi, era espulsa con violenza, in un incalzare di massacri, dalle province di Istria e Dalmazia. Gli italiani di allora, ad accoglierli, misero su qualche baraccopoli: proprio come fecero gli arabi con i profughi palestinesi fuggiti dai territori ebraizzati, ma gli italiani avviando un processo di integrazione dei loro profughi dentro i territori della penisola.
La politica araba è stata di segno opposto: tenere nei ghetti i profughi palestinesi e alimentarne il disegno di rivincita, in quanto, entro la visione araba islamica, appare intollerabile: religiosamente intollerabile, non tanto la presenza di ebrei in Palestina, ma che il cuore della Palestina storica, Gerusalemme, sia tenuto da uno stato di altra religione. Che uno stato non islamico occupi uno dei tre luoghi santi dell’islam.
Che cos’ha impedito ai profughi giuliani e dalmati di diventare i nostri palestinesi; e oppostamente agli arabi di assimilare, malgrado ne avessero, e tutt’ora ne abbiano la teorica possibilità, i palestinesi profughi?
Perché l’Egitto, che storicamente ha sempre controllato, come suo territorio, tra l’evo dei faraoni e dei mamelucchi, Gaza, ne ha di fatto difeso e sostenuto la palestinizzazione, invece di procedere a una integrazione e dissoluzione nel proprio corpo nazionale dell’area di Gaza, facendone la sua Trieste?
Qui sta la questione, e inquietante questione che è forse meglio non vedere: quell’Egitto, che pur ha riconosciuto lo stato ebraico e che sta svolgendo un ruolo chiave per porre fine al mattatoio di Gaza, di fatto, con il suo deliberato rifiuto di farsi carico di Gaza e di ridurla a una provincia egiziana, manifesta la chiara volontà di impedire la soluzione non tragica del conflitto arabo-ebraico; possibile soltanto dissolvendo la striscia di Gaza nell’Egitto e la parte di cis-Giordania in mano ai moderati di al Fatha in una provincia dello stato Giordano.
Gli arabi sono vittime del loro imperialismo religioso, dominato dall’ossessiva convinzione di essere i depositari non di una grande verità spirituale, ma dell’Unica Autentica Verità Spirituale. E che sono chiamati a portare al mondo, ebrei compresi, quest’Unica Verità, per cui mai potranno accettare non già – torniamo a ribadirlo – la presenza ebraica, ma l’egemonia politica su Gerusalemme di una potenza che non sia islamica. E infatti, nel linguaggio dell’estremismo islamico la metafora linguistica che descrive l’attuale realtà politica della Palestina è la denuncia dello stato ebraico come risultato dell’aggressione all’islam dei nuovi crociati: il sionismo internazionale sostenuto e sostenitore del capitalismo.
Ma per cogliere il senso pieno del disastro in costruzione nell’area della Palestina storica dobbiamo prima ritornare ai nostrani palestinesi mancati: i profughi dal comunismo di Tito giuliani e dalmati, che non hanno trasformato e difeso il loro dramma politico, dandogli una identità religiosa, ma lo hanno tradotto e vissuto entro la visione laica della democrazia occidentale. Hanno simbolizzato l’abbandono della terra patria come fuga dalla tirannide, ricerca della libertà. E qui ritroviamo un esatto parallelismo spirituale tra i profughi giuliano-dalmati e gli ebrei profughi dal grande tradimento europeo. Tradimento di una civiltà che li aveva integrati nelle singole identità nazionali, accettandone infine la presenza di pieno diritto, dopo mille anni di persecuzione emarginante, fino all’obbrobrio dei ghetti, a partire dall’ambrogiano divieto di possedere terre.
Il delirio nazifascista ha costretto gli ebrei a riscoprirsi diversi e li ha spinti verso quel relitto di utopia tipicamente nazionalista europea che era stato il sionismo. Non possedendo, a differenza dei nostri giuliani e dalmati, una patria concreta, gli ebrei transfughi dall’Europa, dal tradimento europeo, sono andati verso quel loro interno e utopico sogno di libertà: la Palestina sionista; e sotto le insegne della libertà (sionista) hanno combattuto contro la Verità (islamica).
Ma oggi, il perdurare, entro lo stato israeliano, che li sostiene, dei movimenti di colonizzazione che reclamano la Samaria e la Giudea, il dissolversi della socialdemocrazia e il prevalere dell’integralismo religioso neorabbinico, tendono a spostare sempre più il centro di significato dello stato e della società israeliani dall’area intorno al valore di libertà a quello intorno al valore Verità, ovvero ridurre, come gli arabi, o l’occidente pre illuminista, la politica sotto il primato della teologia. E quando in Palestina, anche nella parte ebraica lo slittamento semantico sarà completato, due Verità staranno di fronte, pronte a costruire quel conflitto radicale feroce che sono da sempre le guerre di religione.
Una guerra di religione è stata anche la grande esplosione folle del nazismo, e una componente mistica religiosa è all’origine di tutti i gulag marxisti, fino a quello di Pol Pot.
Oggi in Palestina la catastrofe può essere evitata soltanto se si esclude come valore guida nell’area della politica la Verità (tanto islamica che talmudica), sostituendola con una empiria in progresso verso la libertà. Una libertà intesa come sistema di libertà in progresso, a partire dalla elementare libertà di esistere, come oggi grida dai disperati di Gaza; la cui tragedia deve insegnarci che noi soltanto per un transitorio dono della fortuna, noi oggi in Italia non siamo prigionieri della Verità, cittadini disperati di una delle tante Gaza, sempre tutte costruite sulla Verità.
Piero Flecchia