Vorrei attirare l’attenzione su una notizia che sui giornali ha avuto poca risonanza. Su “La Stampa” del 22 maggio 2016, Marta Ottaviani firma il piccolo articolo “Turchia, il leader dei curdi rischia settanta processi”.

Si potrebbe pensare che questo’uomo politico sia un vero delinquente. Poi nell’occhiello troviamo scritto “Dopo il sì alla riforma che sospende l’immunità”. Se leggiamo con gli occhiali della nostra realtà parlamentare, continuiamo a pensare che questo leader se la sia meritata avendone fatte di cotte e di crude. E magari è davvero così. Certamente così la pensa Erdogan che non passa certo per un campione della democrazia. Ma col quale tutti devono fare i conti, Stati Uniti e Stati europei inclusi.

Leggendo il breve pezzo viene comunque spontaneo il confronto con la nostra situazione italiana. Da noi è ormai sentimento diffuso che l’immunità parlamentare sia qualcosa di negativo, un privilegio da abolire. In Turchia intanto viene quindi approvata una riforma costituzionale che sospende temporaneamente l’immunità parlamentare per 138 deputati. Immediatamente sono stati presentati al ministero della Giustizia ben 122 fascicoli riguardanti il Partito curdo Hdp e il partito repubblicano Chp: l’opposizione ad Erdogan, insomma. Solo un dossier a carico del partito di maggioranza, l’Akp.

In questi 122 fascicoli sono presenti ben 667 procedimenti. Il partito curdo, oppositore più importante del governo, su 59 parlamentari ne avrebbe 50 in bilico. Il suo leader Selahattin Demirtas rischia di essere giudicato per ben 77 procedimenti giudiziari. Anche sul leader laico Kemal Kilicdaroglu pendono 42 denuncie. Si attende l’approvazione finale, scontata, del Capo dello Stato. Il pezzo si chiude con la frase eufemistica “il timore di molti è che … il giudizio possa non essere imparziale”.

Insomma, in Turchia l’abolizione dell’immunità sarebbe uno strumento di persecuzione politica, come minimo un modo per mettere in difficoltà chi la pensa in modo diverso da chi comanda. Si pensi poi al fatto che il governo turco di Erdogan ha stabilito misure pesanti come la chiusura dei giornali critici del governo e ha assunto posizioni discutibili riguardo agli atti terroristici che hanno scosso il paese in questi mesi, per non parlare delle politiche ambigue sull’Isis e sulla questione dei migranti. C’è effettivamente da aver paura. Ma se parla poco. Ma la Ragion di Stato, lo sappiamo, vince su tutto.

Ora, tornando alla questione dell’immunità parlamentare, la storia della Turchia ci dice che certe norme hanno un proprio significato non in assoluto, ma relativamente ad un contesto, benché non si debba venir meno a certi principi fondamentali. La situazione italiana è oggi diversa, ma occorre attenzione e lucidità. Ricordo infatti che per l’assemblea costituente (leggiamo da “Lettera 43” del 5/9/2015) «i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Così recita l’articolo 69 della Carta. Che poi però prosegue: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza».

Agli albori della Repubblica la norma era diversa, e prevedeva la necessità dell’autorizzazione a procedere anche per sottoporre a indagine o arresto successivo a condanna definitiva. L’unica fattispecie in cui la magistratura non aveva bisogno di passare dal parlamento era la flagranza di reato. La Giunta per le autorizzazioni è l’organismo incaricato di vagliare le richieste della magistratura, metterle ai voti e approvarle o respingerle. Alla Camera è composta da 21 deputati. A Palazzo Madama si chiama “Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari”, ed è costituita da 22 senatori. Il fatto che siano gli stessi colleghi degli inquisiti a dover valutare le richieste della magistratura ha sollevato e continua a sollevare dubbi sull’imparzialità del giudizio. Aggiungiamo che c’è voluto lo scandalo di Tangentopoli per cambiare la legge, nel 1993, escludendo la necessità di autorizzazione per l’iscrizione nel registro degli indagati e l’arresto a seguito di condanna definitiva.

Nel 2003 il governo Berlusconi introdusse un’immunità speciale e rafforzata per le cinque più alte cariche dello Stato. L’art. 1 della nuova legge, il cosiddetto “Lodo Schifani”, prevedeva che «non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Presidente della Corte Costituzionale». L’articolo fu dichiarato incostituzionale dalla Consulta perché in contrasto con gli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di azione in giudizio e di difesa) della Carta. Sorte simile toccò, cinque anni dopo, al lodo Alfano, che riprendeva i contenuti del lodo Schifani riducendo le cariche tutelate a quattro con l’esclusione del presidente della Corte costituzionale.

L’immunità parlamentare era dunque nata, in Italia, per tutelare la libertà d’opinione e di azione politica in un contesto che si liberava dalla dittatura fascista. Con Berlusconi veniva usata come strumento per proteggersi dalla presunta aggressione delle “toghe rosse”. Nel 2015, il ministro Andrea Orlando non invoca l’estensione, né regole più restrittive, ma propone semplicemente che a decidere sull’autorizzazione a procedere non siano più i parlamentari stessi, ma la Corte Costituzionale, soggetto imparziale ed «estremamente autorevole».

Non si tratta di difendere “la casta”, né di aprire a giustizialismi pericolosi: in ogni caso occorre trovare una nuova soluzione che salvaguardi la democrazia, evitando pericoli di arbitrarietà, ma che non alimenti forme di “protezione indebita” per gli onorevoli. In Turchia intanto Erdogan se ne infischia a va avanti per la sua strada e per gli oppositori son dolori. Paese che vai, immunità che trovi.

Stefano Vitale

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