Già gli ultimi sondaggi poco prima del voto referendario davano il NO avanti di molti punti sul SI. Sempre secondo i sondaggi del pre-voto, molti dei cittadini non conoscevano il merito del quesito e tanti davano per scontato che si trattata, in definitiva, di un voto pro o contro il governo. Cosa che è emersa successivamente con buona chiarezza. Sempre molto pochi avevano in mente quali scenari potevano manifestarsi dopo il voto. E questo sembra evidente anche adesso.
La confusione è infatti aumentata. Tra l’altro non pochi di coloro che hanno pensato di difendere la Costituzione col loro voto, subito dopo hanno gridato al golpe quando Gentiloni è stato incaricato dal Presidente Mattarella di formare un nuovo governo, così come prevede, appunto, la Costituzione vigente. I sondaggi, che spesso sbagliano come nel caso della Brexit e di Trump, parlano di un 40% di indecisi, molti dei quali sono poi andati a votare anche perché questo Referendum non aveva il vincolo del quorum.
Ora si tratta di capire se alle prossime elezioni politiche quale sarà la percentuale dei non votanti. In generale, lo abbiamo sempre detto, la partecipazione al voto è un indicatore importante e quindi possiamo dire che comunque sono stati positivi l’alta partecipazione e il fatto che per mesi si è discusso di Costituzione. Quello che ha colpito più negativamente è la difficoltà a parlare laicamente – nel senso della capacità di scendere concretamente e razionalmente nel merito delle questioni in discussione, facendo un bilancio dei pro e dei contro sui singoli aspetti del quesito referendario, sull’operato del governo Renzi, sulle possibili conseguenze di una vittoria del sì o del no.
Ha dominato la scena il conflitto, la solita politica urlata, fatta di pregiudizi, di parole d’ordine senza contenuto reale. Ovunque era prevalente lo scontro amico/nemico; ovunque era palpabile un clima da una resa dei conti finale con il Palazzo, la “casta” dei politici, tutti ladri e corrotti per definizione, nonché inciucisti impenitenti, da liquidare al più presto. Fare politica con l’antipolitica non mi pare un buon viatico per superare i problemi del nostro Paese. In ogni caso vediamo che il meglio che si sta producendo è un ritorno al sistema proporzionale per superare l’impasse della futura legge elettorale, che molte leggi importanti sono bloccate in Parlamento, che il Comune di Roma sta peggio di quando c’era l’ingenuo sindaco Marino, che i terroristi internazionali vengono a preparare i loro attentati in Italia dove si può lavorare con calma.
Tornando alla questione dei toni e del linguaggio va detto che, purtroppo, non è un fatto nuovo. Non si riesce a superare l’epistemologia politica del berlusconismo fatta di bugie, annunci, scomuniche, bufale, attacchi personali, ecc. Tra le funzioni del linguaggio, l’aspetto descrittivo e quello argomentativo sembrano essere l’ultima preoccupazione. Per esempio, del linguaggio della Lega è stato detto che è “di rottura, di minaccia, di insofferenza. […] Usa il linguaggio della gente comune che non ha il tempo di pensare, che non elabora ma ripete le sue formulazioni”. Il linguaggio del M5S affascina per la sua capacità di rottura, ma è fondato sull’ ossessiva ripetizione di slogan prodotti nel web (dai suoi capi e dai suoi webmaster) e rimbalzati ovunque possibile dai loro sostenitori a loro volta ossessivamente e compulsivamente a caccia di nemici.
Ma non possiamo non vedere come questo uso del linguaggio, queste modalità aggressive e discriminanti, siano diffuse in forze ben più consistenti e in qualche modo diventi tipico della crisi attuale delle democrazie. Basta pensare a Trump, a una cricca di magnati, generali ed evasori fiscali che si fa eleggere da una massa di poveri e disoccupati. Forse dobbiamo seguire il consiglio di chi dice che a scuola bisogna studiare di più il linguaggio politico e le sue derive populiste. Ci sono libri utili, per esempio quello di Lorella Cedroni, “Politolinguistica”. “L’analisi del discorso politico”, prefazione di T. De Mauro, Carocci, Roma 2014. Oppure quello di Franca D’Agostini, “La verità avvelenata”. “Buoni e cattivi nel dibattito pubblico”, Bollati e Boringhieri, 2010. E consiglio di rileggere anche quello del filologo Victor Klemperer, “LTI [Lingua Tertii Imperii] La lingua del Terzo Reich”, Giuntina, Firenze 2011, non perché voglia paventare derive autoritarie, ma perché certi meccanismi sono il substrato permanente della relazione tra linguaggio – politica e vita reale.
La conoscenza, la coscienza consapevole del ragionamento sono tra i pochi strumenti che ci restano per contrastare, per quanto possibile, l’epoca della post-verità, in cui la considerazione dei fatti oggettivi capitola di fronte ai fatti inventati, alle emozioni e alle credenze personali, alle amnesie collettive.
Per il resto, tornando alla politica, si naviga a vista.
Stefano Vitale