Ovvero: Prove generali di disorganizzazione nazionale.

Per chi lo voglia capire, la trascorsa domenica del 10 contiene, ergo offre un solo vero insegnamento capitali sullo stato reale del paese: che lo spaccio dell’ignoranza alla lunga non paga, o meglio paga soltanto chi persegue, per il proprio vantaggio di consorteria, la distruzione dello stato democratico.

Il fatto che avvia la lezione sono i due colpi di pistola esplosi da un poliziotto, la cui dinamica e luoghi sono troppo noti per ripeterli.

All’origine del tutto c’è certamente dell’autentica sfiga: un poliziotto spara, da oltre trenta metri due colpi di pistola contro un’auto in movimento e colpisce al collo uno degli occupanti il sedile posteriore. Ne sparasse altri mille colpi non riaccadrebbe E, sfiga nella sfiga, il morto non è rumeno o magrebino delinquente, e neanche un pluripregiudicato nostrano, ma un celebre dj, il nome d’arte Gabbo, nel secolo Gabriele Sandri, d’anni 28, la cui morte assume un rilievo simbolico non in quanto morte di un noto dj, ma di un tifoso, laziale nel genere, colpito mentre andava ad esercitare il suo ruolo di tifoso al seguito della propria squadra.

Non è la prima volta che un poliziotto sbaglia e qualcuno muore, ma è la prima volta che il fatto, la morte di uno che passava per caso nel momento sbagliato, scatena una immediata, vera rivolta nazionale. In moltissimi campi, e non solo di serie A, le curve, ovvero il tifo organizzato, si sono mosse attraverso il tam tam via internet e telefonini per scatenare una protesta violenta organizzata contro lo stato e nulla di più e nulla di meno che lo stato, negli organi che lo rappresentano, nel quale i tifosi delle curve lo identificano: la polizia e gli organi dirigenti del calcio.

Per quale ragione questa improvvisa levata di scudi violenta del tifo calcistico organizzato?
Nei suoi viscere sostanzialmente non si accetta che la polizia agisca come forza di interposizione, impedendo alle tifoserie opposte di scontrarsi. Questo intervento dello stato viene sentito come una intrusione ingiusta, espressione di un potere prevaricante. E nulla lo descrive quanto il modo delle curve di metabolizzare la morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti a Catania. Per i tifosi di calcio non è stato ucciso da un tifoso, ma da un’errata manovra di una camionetta della polizia. E a ribadire il tifo in questa convinzione il perdurare di un’inchiesta tutt’altro che chiusa.

Il mondo delle curve ha realizzato, intorno al gioco del calcio un suo apparire, un esistere dei singoli giovani intorno a un principio di identità vissuto come affermazione epica del proprio io entro una comunità solidale, dove si vive un’esperienza esaltante, tra l’invenzione linguistica: gli striscioni, la droga consumata in una sorta di area protetta, e l’autoaffermazione, perché nel mondo della curve si costruiscono autentiche carriere, si conquista e si attribuisce autorevolezza. In questo universo di socializzazione giovanile, che esiste da circa un secolo, si è insinuata la delinquenza: la curva, ogni curva, rigurgita di pregiudicati, che hanno nello stato il primo nemico. La stessa curva laziale, nota per i sentimenti filofascisti, maschera nel fascismo la sostanziale opposizione allo stato della logica criminale, che ormai ha colonizzato le molte curve, anche dove la criminalità non ha quasi peso. I giovani delle curve sono contro lo Stato, e il prossimo passo, la prossima rivolta, quando verrà, se intanto la cultura delle curve colonizzata da una qualche ideologia politica estremista, potrebbe puntare direttamente contro le istituzioni politiche elettive dello stato e non soltanto limitarsi a quelle burocratiche repressive o di gestione dello sport calcistico. Un indizio di questa possibile deriva sono le dichiarazioni di Bertinotti e soprattutto del verde Cento, in margine alle devastazioni scatenate dalla morte di Gabbo. Cento è un vero teppista del calcio, come fatto evidente dalle sue dichiarazioni per la morte di Raciti, che auspicavano una comprensione del fenomeno, in ragione della speranza segreta di recuperare una forza eversiva giovanile di lotta rivoluzionaria contro lo stato laico. Il sessantotto devastante, finito nelle Brigate Rosse, non fu altro che la politicizzazione estremista della curva scolastica.

Lo Stato deve reprimere questa deriva, intervenendo soprattutto con una perentoria interdizione allo spettacolo calcistico dei violenti e con una pulizia dell’ambiente, vietando alle società di sovvenzionare le curve, dare ai loro capi biglietti gratis con i quali fare lucroso commercio, e permettere un commercio extra lege dei gadget, ma soprattutto attivando una sistematica azione repressiva preventiva intorno agli stadi.

E qui giungiamo al secondo e decisivo punto della questione, che illumina in tutta la sua debolezza strutturale le ragioni dell’inefficacia dell’azione repressiva dello stato: il poliziotto che ha sparato, e del quale a ventiquattro ore dall’omicidio, si sa poco o niente. Che cosa si proponeva sparando quel poliziotto, di decennale esperienza e provate capacità, dice la macchina della disinformazione di stato, – che avrebbe potuto, con una telefonata, far bloccare quell’auto a uno dei caselli in uscita? Impedire una rissa che era già finita?

Questa è la versione trasmessa alla prima ora, e che descrive come funzioni la disinformazione, ovvero l’informazione serva soltanto a recitare in commedia, come poi confermerà tutta la rappresentazione dei fatti, al cui vertice sta la ripresa nelle trasmissioni sportive del comunicato del sindacato dei vigili urbani di Roma, che denuncia come altrettanto teppista degli ultrà il potere politico in quanto li ha abbandonati alla mercé dei rivoltosi.

Recentemente il parlamento ha bocciato un’ipotesi di commissione di inchiesta sui fatti di Genova, intorno al G8, al centro dei quali stava e resta non tanto la morte di Carlo Giuliani, gestita dall’ultrasinistra alla maniera Cento-Bertinotti circa le violenze della curva, ma l’intervento e il pestaggio di un gruppo di manifestanti, a manifestazioni concluse, in una scuola, da parte della polizia.

Che cos’avevano in testa quei poliziotti per accettare in quella notte di Genova quei comandi pervertiti e assurdi? Ora abbiamo la risposta. Ce l’ha data il colpo di pistola che ha ucciso il povero dj lazialista Gabbo. Quel colpo ci dice che i nostri corpi repressivi vivono in una loro realtà separata, dove vengono eccitati da una interpretazione irrazionalista e terrorista della realtà sociopolitica del paese, elaborata in tale direzione dai quadri dirigenti, o almeno che ne permettono tale lettura. Quel poliziotto che ha ucciso ‘Gabbo’ avrebbe sparato senza la vergognosa caccia razzista all’immigrato scatenato dal delitto Reggiani?

I giovani che entrano nei corpi di polizia ci entrano con la miseria culturale che è l’inevitabile effetto delle nostre scuole, dove ha vinto, trionfato il precariato culturale in nome di un ipotetico diritto al lavoro di tutti, e così dalle elementari all’Università ha vinto il puro teppismo culturale, un cui fiore, nato dall’autogestione organizzata dell’ignoranza, è il mondo delle curve calcistiche.
Da questo dato base si dovrebbe almeno cercare di sottrarre chi entra nei corpi dello stato, spiegando loro il tipo di servizio che una società democratica si aspetta da loro, che sono molto meglio pagati e tutelati del lavoro di fabbrica, ma del quale da tempo il sindacato ha smesso di occuparsi, per concentrarsi sulla realtà ipergarantita degli statali, alla quale appartengono anche i poliziotti. A questi poliziotti cosa dicono i sindacati? Che il loro è un lavoro sottopagato e pericoloso. Di certo i poliziotti sono sottopagati rispetto alle burocrazie sindacali, ma non più sottopagati e pericoloso il loro lavoro, se assunto come parametro il cittadino medio: lo conferma un confronto tra medie di morti violente per attività professionali. In Italia oggi è perfin più rischioso fare il pensionato che il poliziotto. Basta leggere un po’ di nera. Ecco perché, o si impara la lezione dai fatti come quelli della trascorsa domenica del 10 novembre 2007: si ricomincia della scuole; soprattutto da quelle di addestramento dei corpi dello stato, a trasmettere una cultura formativa centrata sui valori civili, a partire da quelli per i quali morirono tanti giovani nella Resistenza, magari leggendo nei corsi di polizia le lettere di quei condannati a morte, o la deriva verso una degenerazione completa della nostra già degenerato democrazia continuerà.

Fatti come quello della domenica trascorsa, e soprattutto la loro lettura politica, ci dicono quanto la nostra sventurata democrazia, per usare il vecchio buon Aristotele, sia degenerata in una demagogia, ovvero la forma peggiore di governo, dalla quale si esce soltanto, va ribadito, o restaurando una vera democrazia con una attiva iniziativa politica, o il paese cadrà un’altra volta in una qualche forma di tirannide, poi usata dai demagoghi, come oggi gli storici revisionisti il fascismo, come pretesto di salvazione del paese.
Dai fatti della trascorsa domenica non c’è altra lezione da trarre, altra verità da scorgere.

Piero Flecchia

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