Una riflessione in margine al romanzo di Roberto Bertoldo
“Satio”

La registrazione scritta della parola mentre tramanda memoria degli eventi accaduti non crea, ma connota, il tempo della storia, il cui tratto individuante è la frattura gerarchizzante dello spazio sociale, o NOI comunitario, tra dominanti e dominati; frattura resa possibile dall’istituzione stato, che stabilizza nel tempo storico le forme delle relazioni sociali, intorno ora all’occultamento: miti delle democrazie e delle utopie, ora legittimando: miti delle regalità e delle oligarchie, la dimidiazione dominanti/dominati. Questo occultamento e/o legittimazione della frattura sociale è compito svolto da locali racconti mitici, elaborati dalle diverse culture appestate dalla logica del dominio dell’uomo sull’uomo: miti della patria, religiosi, giuridici, politici ….
Per questo occultamento il mito diventa nel tempo della storia la forma per la quale si veicola la menzogna politica, spesso per la mediazione di credo religiosi, in un totale rovesciamento della funzione del mito, all’origine spiegazione del mondo naturale: della sua origine e destino, con al centro la figura umana.
Il processo di umanizzazione, attraverso il quale l’uomo si autonomizza dal e prende sotto controllo il suo fondamento naturale, è la funzione originaria del mito, che solo nel tempo storico diventa momento di occultamento e/o falsificazione della relazione fondativa del tempo storico: la relazione dominante/dominato.
Contro questa falsificazione, a denunciarla, nel tempo della storia insorge la ragione naturale, attraverso il reimpiego di uno strumento all’origine creato dal potere politico per controllare lo spazio sociale: la scrittura.

Entro la scrittura si gioca una complessa relazione dialettica tra la funzione originaria esplicativa del mito e una critica radicale alla ragione mitica in nome della ragione naturale, là dove la logica del dominio si veicola e a un tempo occulta entro la ragione mitica. Ma non tutta la ragione mitica nel tempo della storia diventa strumento di menzogna. Anche nel tempo della storia il racconto delle vicende umane si veicola ancora in gran parte per le forme del mito, per cui mentre la ragione mitica edifica la struttura delle grandi opere letterarie: il racconto, la ragione naturale se ne serve per una serrata critica ai miti asserviti alla logica statalista dei dominatori.
Questa contaminazione di ragione naturale e racconto favoloso fantastico: origine e forma perenne della ragione mitica, nel tempo della storia agisce in modo cospicuo nella letteratura, come si esemplifica in quella grande riflessione sul nesso eros potere, che prende forma per i racconti delle ‘Mille e una notte’, dove la bella Sherazad gioca ogni volta la propria vita intorno a un racconto, ma prende ancora forma per racconti come il don Chisciotte, o ‘Madame Bovary’, il residuo critico naturale combinandosi con l’invenzione mitica secondo forme e ragione critica proprie della singola cultura locale.

In questo breve critto ci proponiamo di esaminare il nesso scrittura mito entro un romanzo del nostro tempo:
‘Satio’ (ed. Achille e la Tartaruga, Torino 2015, euro 18) per le cui pagine Roberto Bertoldo dispiega un ambizioso progetto narrativo tutto concertato intorno ai poli oppositivi bene/male.
Nelle 400 pagine del racconto prende forma una allegoria del destino umano; un’epica inquisitivamente sorretta da una analitica dell’etica. È una complessa vicenda polifonica, il cui svolgersi a un tempo discende dalla e analizza la struttura archetipica fondativa del processo di umanizzazione; che si è giocata fin dall’origine della specie, e si giocherà fino alla sua estinzione, tra i poli della natura e del mito, per la mediazione figurale dalla rappresentazione simbolica.
E la scrittura, in quanto riflessione sull’umano e voce critica nel processo di umanizzazione non può che dispiegarsi entro questa dialettica tra mito e natura; dove il mito organizza entro un modello culturale le rappresentazioni umane della natura, mentre la ratio naturale critica le ricostruzioni del mito, quando e dove confliggono con le strutture della natura. Nello spazio sociale, ma non meno dello spazio letterario, ora prevale l’uno ora l’altro polo, come si esemplifica da un confronto tra i due capolavori che fondano la letteratura in lingua italiana, creando nel contempo l’etnia italica: la dantesca ‘Commedia’ e il ‘Decamerone’ del Boccaccio.
Nella ’Commedia’ prevale il polo del mito, l’universo di caratteri naturali l’esemplificazione a sostenere la razionalità del modello mitico cristiano, mentre nel ‘Decamerone’ il fondamento naturale umano insorge a svolgere una serata critica al mitologema cristiano, sul quale si fonda la “Commedia’.

Tutta la scrittura creativa alta si gioca tra i due poli della ragione e del mito. E infatti, anche ‘Satio’ ha la sua ragione costitutiva qui, analisi nell’oggi della dialettica tra il mito: forma simbolizzata umana del mondo naturale, e la natura come manifestazione fenomenica della fisis, dalla narrazione di Roberto Bertoldo svolta entro le modalità: nei canoni delle nostre strutture culturali. E questa dialettica tra natura e mito è appunto l’aspetto del romanzo di Roberto Bertoldo che qui ci proponiamo di esaminare, a discendere da una universale premessa: nel tempo della storia la rappresentazione della dialettica tra ragione mitica e ratio naturale nella metafora narrativa assume prevalentemente i tratti della descrizione della psiche soggettiva, per lo spostamento nelle società storiche del centro dell’attenzione dal ‘NOI’ comunitario alla soggettività egotica, come illustra in politica la figura del leader, in arte il titanismo, nello spettacolo il divismo.

L’affermarsi della soggettività egotica nell’oggi della storia è poi la ragione causale della preminenza dell’esposizione linguistica nella modalità narrativa estetizzante del complesso rapporto tra mito e natura; che alle origini, come si individua per la sua rappresentazione nelle culture primitive, ha il luogo di formalizzazione nella mimesi rituale e la forma dell’allegoria sacra.
Nell’universo primitivo il NOI comunitario si definisce: prende forma evidente, nell’articolato complex rituale di canti, danze, e pitture tribali; tutte forme delle azioni iniziatiche rituali attraverso le quali la soggettività egotica naturale viene riplasmata fino ad assumere i tratti: riconoscersi come parte integrata subalterna nel NOI comunitario culturale. L’azione iniziatica rituale rende evidente nelle comunità il suo NOI per la mediazione di un’immagine complessa, ma unitaria nel fine, sotto la preminenza della ragione mitica, che subordina a sé la ragione naturale. Oppostamente, nella storia la rappresentazione del NOI comunitario diventa composita e conflittuale, in quanto e per quanto ratio naturale e ragione mitica configgono intorno alla rappresentazione simbolica della faglia politica dominanti/dominati, che divide lo spazio sociale – da dove poi il prevalere dell’ego leaderistico sul NOI -, come si coglie, e con particolare evidenza per il suo teatro, in quel grandioso tentativo abortito di ricomposizione mitica dell’unità del NOI comunitario nel tempo della storia che fu la democrazia ateniese.

Tra Eschilo ed Aristofane l’analitica critica naturale della scrittura mentre sembra dislocarsi entro le categorie del mito ne svolge una serrata critica etica, arte scissa e in lotta con il suo fondamento mitico politico-religioso, a rifondarlo.
Il conflitto tra ratio naturale e ragione mitica non è solo del teatro ateniese, ma di tutta la scrittura, dove riflette sulla forma del processo di umanizzazione nel tempo della storia, segnato dalla faglia politica dominanti/dominati, padroni/servi eletti/elettori. Da qui discende nel tempo della storia la forma drammatica conflittuale della relazione tra ragione mitica: che aspira a instaurare, come nell’universo primitivo, l’unità del NOI comunitario, e la ragione naturale, che svolge una serrata critica alle varie forme di ricomposizione fittizia del NOI comunitario per miti unitari illusori, quali ne propagandano le religioni politiche monoteiste e/o le utopie politiche .
Come tra i primitivi, anche nel tempo della storia l’unificante ragione mitica prende forma per l’azione nello spazio sociale di grandi miti collettivi, e i connessi rituali, quali della patria, del proletariato, dell’amore universale …. mentre la ratio naturale, denuncia il persistere, sotto l’occultamento mitico, della frattura dominati/dominati nel NOI comunitario; e quindi la natura di finzione, ergo menzogna, del narrato mitico, ma dove universalmente si fonda la legittimazione politica del NOI comunitario. Da qui la funzione critica della creazione estetica; nei suoi momenti alti sempre anche smascheramento della menzogna insediata nel fare politica.

E da questa funzione critica della scrittura rispetto alla politica bisogna partire per comprendere la forte originalità di ‘Satio’, la sua difformità rispetto alla corrente narrativa italiana.
Nella macchina narrativa ‘Satio’ si individua una forma e un momento nel qui ed ora del conflitto nel tempo diviso della storia tra ratio naturale e ragione mitica, ma non nella sua forma immediata di critica politica.
La macchina narrativa ‘Satio’ si istituisce come conoscenza e riflessione sulla frattura che mina nel presente il processo di umanizzazione; conoscenza esposta attraverso una complessa operazione di invenzione strutturale, dove la ragione naturale si dispiega come desiderio: di successo, di bellezza sentimentale come paesaggio dell’azione umana, perseguiti operando in ambito artistico attraverso le tecniche della creazione nella forme mitiche umanizzanti archetipiche: musica, pittura, poesia, forme estetiche per le quali il mito assume il controllo della ragione naturale. Ma nel tempo della storia la ricomposizione dialettica della natura nel mito assurge e forma archetipica della menzogna, in quanto e per quanto occulta in ogni NOI comunitario storico la forma locale della frattura inconciliabile dominatori / dominati, che vulnera l’unità-totalità universale del genere umano, mentre nella sintesi dialettica di natura e mito sta l’essenza visionaria del processo di umanizzazione, del quale i personaggi di ‘Satio’ si sentono partecipi, in ragione dello stilema delle loro vite, del tutto sottratto e garantito rispetto allo spazio della menzogna politica; che infatti non ha luogo nelle vicende narrative; descrizioni non di un mondo realizzato nello spazio e per lo slancio creativo dall’arte, ma nello spazio-tempo di un progressivo cedere e disgregarsi dei valori estetici, sempre anche valori morali, per effetto della sottostante frattura dominanti/dominati tectonicamente attiva negli eventi. Vediamo come.

Lo spazio sociale della narrazione è il salotto letterario creato da una ricca vedova; madama che esercita il piacere del comando nella forma tipica di chi sta al centro, regge un gioco di potere: conferire la fama, e quindi il successo e la ricchezza, qui svelando nuovi artisti e imponendoli, per quanto si subordinano alla sua signoria.
Ecco per quale metafora narrativa Roberto Bertoldo istituisce nella sua vicenda lo spazio della politica come estetica, entro quale microcosmo esplora il locale istaurarsi della menzogna del tempo diviso della storia.
Ma c’è una seconda questione capitale nei visceri dei NOI comunitari storici.

Nel tempo della storia il dominio sulla natura diventa spesso il pretesto per legittimare il dominio dell’uomo sull’uomo nello spazio della politica, come di nuovo si coglie con particolare chiarezza facendo centro nel NOI culturale ellenico, dimidiato tra la visione oligarchica spartana: legittimazione culturale della divisione dell’umano in dominanti/ dominati, e la visione democratica ateniese: grande disegno, attraverso la politica democratica, di ricomposizione di un NOI comunitario storico in unità-totalità, ma al prezzo e per la mediazione del trasferimento dal NOI comunitario alle relazioni politiche esterne del conflitto dominanti/dominati, attraverso la costruzione politico militare dell’impero.

L’analisi critica del conflitto scatenato dallo scontro tra oligarchia spartana e imperialismo democratico ateniese è al centro della grande riflessione tucididea sulla guerra del Peloponneso negli annali della storia, che nel concreto fu guerra civile ellenica, nella quale quell’altissimo universo culturale si suicidò. E la descrizione di quel suicidio è tutta nell’icastica affermazione del Trasimaco platoniano, dove il sofista afferma: “Il giusto non è che l’utile del più forte”; voce chiara della ratio naturale, che descrive il fondamento operativo dell’agire politico nel concreto degli eventi, come raccontati dal Tucidide del dialogo tra ateniesi e meli.
Tutta l’opera del Platone politico, in quanto tesa ad affermare una superiore legge trascendente, perseguirà la confutazione di Trasimaco, ma possibile solo ignorando i fatti storci, per l’approdo un un’utopia che riveste di e trasferisce sul piano del mito quella che la ricerca etologica ha oggi individuato come la forma naturale delle società animali: la gerarchia; che appunto orchestra tutto l’ordine culturale della repubblica platonica, sublimazione metafisica del modello spartano.
Non solo in Platone, in tutta l’utopia politica abbiamo il ritorno alla funzione originaria della ratio mitica: costruire, oltre la natura, un mondo umanizzato intorno a un NOI comunitario indiviso, ma al prezzo dell’espulsione nella sfera del male – che nella natura non esiste – di quanto resiste al disegno politico utopico.Operazione efferatamente arbitraria, possibile solo uccidendo il diritto di udienza alla ratio naturale, da dove poi i vari disastri dove e quando le utopie si incarnano nella storia, anche per la mediazione religiosa, a guidare la politica.

Già con Aristotele, la sua speculazione, si affaccia chiara la coscienza che la politica si realizza come azione oligarchica, anche quando si ammanta di democrazia, nella dimensione mitica della politica l’occultamento culturale del principio naturale di gerarchia: la dimidiazione dominante/dominato, che l’universo religioso maschera e legittima in quanto e per quanto insegna il servaggio dell’umano al divino. Ma trovando il suo modello in cielo, la servitù diventa legittima anche in terra. Per questa svolta culturale strategica si riconcilia il processo di umanizzazione e il principio naturale di gerarchia, ma introducendo nell’umano culturale la legittimazione della disumanizzazione.
Ad evitare questa caduta riconciliatrice nella cultura del servire, Epicuro prima e gli stoici poi, insegneranno l’allontanamento degli dèi in un altrove: la loro estraneità esemplare rispetto al mondo, e la necessità di costruire gli spazi umani in un altrove rispetto alla dimensione della religione politica: luogo simbolico fondativo della legittimazione della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, e quindi negazione del principio di eguaglianza: il postulato simbolico sul quale si fonda ogni processo di umanizzazione.
La critica alla religione in quanto momento istitutivo entro l’universo culturale della forma naturale dominante/dominato della relazione politica, ebbe nella tradizione greca la forma garbata di Epicuro e degli stoici, perché il paganesimo greco pesava poco nel peso complessivo della menzogna politica, ma non più nella posteriore ricostruzione dell’unità-totalità dei NOI comunitari occidentali intorno al postulato teologico monoteista, da dove poi la violenza dello scontro tra ragione naturale e ragione mitica, tra processo di umanizzazione e religione.

Non so se al tempo della stesura di ‘Satio’ Roberto Bertoldo avesse meditata conoscenza del postulato politico di Trasimaco, che separa irreconciliabilmente politica ed etica, e conseguentemente ci svela la ragione per la quale ogni creazione estetica è, per quanto partecipa, si pone come voce del processo di umanizzazione, momento critico dell’azione politica, ma certamente la coscienza dell’estraneità del fare politico rispetto al processo di umanizzazione caratterizza tutta la vicenda di ‘Satio’, la cui analisi delle dinamiche conflittuali dell’esistere umano, come abbiamo sopra individuato, si articola, prende forma a distanza da ogni utopia politica e quindi religiosa, attraverso personaggi dislocati in professioni artistiche vissute come luoghi del loro processo di maturazione umanistica.

C’è chiara nell’autore Bertoldo, all’epoca della stesura del suo romanzo, la coscienza che il mito religioso può difendersi dal logos soltanto arroccandosi nella più rigorosa negazione della natura; come esemplifica la strategia culturale delle teologie monoteiste: che rovesciano il fallimento del loro universo mitico religioso nel formare e governare l’umano, nella negazione dell’umanità, degradata a preda da sottrarre al male, se necessario fino ai roghi inquisitori ali, ai furori mussulmani.
Soltanto a questo prezzo il mito nella sua forma religiosa può essere preservato dall’azione critica della ragione naturale nell’evo della scrittura, come si evidenzia nella più grande costruzione mitica post omerica: la dantesca Commedia, che ha al centro il Divino Amore, e si svolge come grande discorso esplicativo del conflitto tra bene e male, come appunto anche ‘Satio’; ma dato trascurato della critica estetica borghese, è che proprio la fede nella struttura del mito cristiano regge la scrittura dantesca. Di più: la licenzia. Infatti, non meno grande era la capacità di scrittura di Guido Cavalcanti, – ma: “Tutto volto a provar che dio non fusse”, nel ritratto icastico del Boccaccio, resta proprio per questo impigliata nella sua ragione naturale. Come scrittore Guido non può procedere oltre l’orizzonte della coscienza liricizzata del dolore dell’esistere, proprio come poi sarà nelle scritture di Leopardi e di Baudelaire, mentre altri due grandi pessimisti di grande respiro artistico, Schopenhauer e Byron, per costruire la loro grande scrittura epica dovranno rispettivamente appoggiarsi al mito buddhista e al mito tardo medioevale occidentale che ha permeato tutta la scrittura europea post rinascimentale: il mito naturalista, quindi anti cristiano, di don Giovanni, una cui variante è il mito di Faust: forma nordica mediata nel cristianesimo del mito di don Giovanni.

Inscritto in questo quadro simbolico è anche l’orizzonte culturale di Roberto Bertoldo, il cui anelito a una scrittura di impianto epico, quale egli realizza in ‘Satio’, sarebbe stato l’inaccadibile, senza il supporto di una struttura mitica, dove trovare il luogo e lo spazio del proprio narrare epico. E la struttura mitica chiamata a reggere la dimensione epica della scrittura nella macchina narrativa di Roberto Bertoldo è il mito di don Giovanni, ma nella versione nordica faustiana. Scelta obbligata perché nel mito di Faust permane l’opposizione bene/male, del tutto assente nella dimensione del don Giovanni, personaggio mitico del tutto calato nella natura: che non conosce l’opposizione bene/male.
E l’opposizione bene/male è la sola struttura psicosimbolica dalla quale può emerge tutto il processo di umanizzazione intorno al racconto mitico della trascendenza del sesso in eros amoroso; ma processo al quale la figura simbolica di don Giovanni oppone la più radicale critica, come si precisa con implacabile rigore metafisico nell’analitica kierkegaardiana. E qui sta anche la ragione per la quale Bertoldo scrittore sceglie la forma cristianizzante faustiana del mito di don Giovanni. E
trovato nel mito faustiano il luogo mitico per la sua epica, poi Roberto Bertoldo la svolge per una scrittura d’impianto musiliano, continuo concertato ironico nei dialoghi dove i personaggi si lacerano. E però poi, per la filigrana analitica della sua scrittura, nel ‘Satio’ di Roberto Bertoldo si coglie anche, e perfin più marcata del mito faustiano, la presenza dell’altra versione del mito: quella del burlador di Siviglia, entro la quale si è consolidata la psiche maschile europea libertina; mito cardine per la negazione del valore simbolico conoscitivo della sublimazione della copula nell’eros amoroso.

A questo guado simbolico ‘Satio’ è riconferma della sconfitta nel qui e ora storico della ragione mitica davanti alla ragione naturale, per cui il romanzo si inscrive in quel pessimismo esistenziale europeo che prende forma per il mito di don Giovanni, nel quale e per il quale cade quella dimensione mitica immemorabile una delle cui forma simboliche è il mito di Iside. In questo archetipo il divino si incarna nell’umano attraverso la sublimazione erotica.
La dantesca Commedia è la più grandiosa affermazione dl questa visione mitica, per la quale, per la mediazione della Madre originaria, il sesso si trascende in eros creatore – nella variante cristiana il mito mariano della Vergine Madre fecondata dallo Spirito Santo -, a trasmettere il capitale insegnamento che, proprio come nella copula si perpetua la vita fisica, nella relazione amorosa si perpetua e perfeziona la dimensione trascendente del sacro nell’umano; guida oltre il non seno dell’esistere terreno. Negare l’Amor che tutte cose move è minacciare ogni possibilità di senso trascendente nell’esistere umano, vulnerare a morte la dimensione del sacro, riducendo conseguentemente la fruizione delle scritture dogmatico-teologiche a pura letterarietà metastorica, come nella lettura crociana della Commedia.

Dove vulnerata la dimensione del sacro isiaco materno, nel tempo della storia il processo di umanizzazione può permanere solo se la dimensione etica viene fondata entro la visione metafisica, che inevitabilmente assurge non solo a riflessione sulla natura, ma anche, e prima ancora, a ripensamento della dimensione sociale umana, ergo anche strumento critico di analisi della politica.
Nel mondo classico questa linea culturale, che conduce all’emarginazione del mito per la via della metafiica, culmina nella visione epicurea, instaurazione del primato della conoscenza naturale, che in ambito occidentale nel darwinismo si completa; un epicureismo che anche Dante, a difesa della ragione mitica, sente la necessità di condannare perentoriamente.

Contro la deriva neoepicurea dell’Occidente illuminista insorge tutta la grande campata romantica, a discendere dalla stessa rivisitazione del mito faustiano nell’Olimpico Goethe, la cui chiusa “e ci solleva l’eterno femminino”, apre a un completo rovesciamento della dialettica culturale nella direzione della trascendenza mitica, intorno al primato del femminile nella fondazione e nello sviluppo del processo di umanizzazione, quale si individua lungo la linea speculativa Bachofen Gimbutas.
La formazione culturale di Roberto Bertoldo ha preso forma in anni dominati dalla coscienza del rifiuto della valenza naturalista; che in politica si afferma, intorno al principio di gerarchia, culturalmente affermazione del primato del maschile patriarcale. Contro questa visione insorge, tra XIX e XX secolo, la strategia culturale di opporre al tipo di socializzazione naturalista fondato sul primato del maschile, ergo della gerarchia patriarcale, il primato del polo simbolico mitico fondato sulla figura della Grande Madre. Detto altrimenti, il processo di umanizzazione può superare nello spazio sociale la minaccia della gerarchizzazione politica intorno alla frattura dominanti/dominati soltanto istituendo l’esserci per la comunità entro la forma mitica materna isiaco-femminile, affermata nel ‘900 per scritture quali quella di un Klages, di un George.

Completamente altra, rispetto alla linea isiaco-materna, è la dialettica tra natura e mito nella scrittura di Roberto Bertoldo. Ad analizzarne l’impianto strutturale nel romanzo con una metafora critica musiliana, egli ricorre a un’azione parallela. Non solo il protagonista maschile, ma anche quello femminile, dal nome trasparentemente allegorico di Angèle Bien, cede la propria anima, ma all’archetipo femminile del sacro: a Diana, a segnare una chiara autonomia del femminile rispetto al maschile nello spazio psicosimbolico dell’economia narrativa, ma anche la sostanziale simmetria psichica tra maschile e femminile, entrambi i principi posseduti, nei singoli individui, dallo stesso desiderio di potere. E infatti, tanto Rudy Steiger: “… illibato giovinotto di campagna, nonché trasognato cantautore …” che la pittrice Angèle Bien: i due protagonisti della vicenda, accettano per vie autonome di stringere un patto che aliena le loro fisicità ad una enigmatica trascendenza, al cambio del successo mondano, ma che nessuno dei due compiutamente otterrà; e non in ragione della perfidia dell’altra parte contraente il patto, bensì in ragione del residuo umano che in entrambi i personaggi si oppone e resiste al mito del patto: alla sua falsa ricomposizione unitaria di natura e mito nella soggettività trionfante.

Nello spazio psichico tanto del contraente maschile che femminile del patto scellerato il desiderio di libertà confligge con il successo mondano, la cui evidenza nello spazio sociale è la relazione amorosa tra i due protagonisti.
Se le ragioni del successo mondano costringono la pittrice e il cantautore a fare coppia amorosa, il desiderio di libertà li muove all’odio reciproco, spingendo lui allo stupro sul corpo di lei che si rifiuta, e lei a uccidere lo stupratore, in questo gioco tragico il percorso necessario, dalla parte dell’umano, a sconfiggere il patto scellerato con il sacro, e riconquistare la propria libertà.

È attraverso questo percorso crudele che la strategia narrativa di Roberto Bertoldo mira a vulnerare in chiave naturalistica il mito, nel chiaro disegno di una rifondazione critica neoepicurea del narrare.
Questa è la grande ambizione sottesa a tutta la scrittura di ‘Satio’, il suo ampio respiro costruito su una visione della dialettica non come ricomposizione degli opposti, ma come conflitto per il totale annientamento dell’altro, qui a svelare e liquidare il falso mito dell’amore come conoscenza ultima, ergo la più alta. Questa visione discende: si individua e fonda nella paradossale ipotesi teologica, di chiara matrice gnostica neoplotiniana, che con una scansione da tema del bolero di Ravel ritorna insistentemente nei molti scontri dialettici tra i personaggi della vicenda, e con il massimo di coscienza nei due protagonisti. Questo postulato teologico recita: “Se Dio è il sommo bene, come Dio può conoscere il mondo nella sua dimensione più profonda e dolente: il Male?”
Entro l’economia simbolica di ‘Satio’ il paradosso non ammette che una soluzione logica possibile: per raggiungere la conoscenza vera e piena il principio del Bene deve farsi contaminare dal male a conoscerlo, ma anche il Male, nella sua tensione alla conoscenza totale, non ha altra soluzione che volgersi al bene.
Per la paradossale inversione nella dimensione mitica della sua epica dei ruoli bene/male, Bertoldo rovescia anche l’ipotesi di Goethe. In ‘Satio’ Satana non è più la forza che eternamente vuole il male e realizza il bene, ma la forza che, sedotta dalla conoscenza assoluta, cerca coscientemente il bene.

In questo quadro mitico-teologico, ed entro questo disegno di grandi opposizioni conflittuali, la scelta delle professioni artistiche a caratterizzare lo svolgersi narrativo dei singoli personaggi era obbligata, come il primato dei temi estetici, entro i quali, e solo per i quali, prendono forma le grandi questioni etiche. Nell’economia del racconto sono antagonismi dialettici che articolano momenti di grande felicità narrativa, ma anche alcune cadute in momenti di puro virtuosismo logico, che chiede al lettore un atletismo mentale non sempre adeguatamente remunerato dalla fruizione della pagina.
In alcuni episodi la pagina non sempre raggiunge l’ampio respiro dello straordinario incipit:
“Gli uomini hanno più possibilità di essere divini che umani, in particolare quando giudicano se stessi. Pensò a questo, Rudy Steiger, illibato giovanotto di campagna nonché trasognato cantautore, una volta aperta la finestra sulla piazza fiaccata dal vento e aver respirato una boccata d’aria polverosa. Un pensiero polveroso, pensò. In effetti da tempo li accatastava nella mente i pensieri, senza mai spolverarli.”

Con la finestra che si apre sulla piazza consuona l’apertura della finestra romanzesca sul dramma umano, finestra narrativa a individuare la cui importanza nello sviluppo della scrittura di Roberto Bertoldo valga in sintesi la nota a conclusione delle 400 pagine del romanzo:
“Satio. La vera leggenda della fine del mondo” è stato scritto tra il 1986 e il 1994. È un postromanzo, come ho chiamato questo genere in un mio saggio ad esso posteriore …. La versione originale, di circa 800 pagine comprendeva tre inserti narrativi … già pubblicati a parte … [qui] sostituiti da un breve riassunto … e altri due inserti, uno narrativo e uno filosofico, eliminati del tutto”
L’autore ha dunque lavorato a ‘Satio’ per quasi dieci anni, in questo spazio di tempo per la meditata operazione di scrittura della sua epica ponendo le fondamenta non solo della sua posteriore narrativa, tra ‘Anche gli ebrei sono cattivi’ (2002), e ‘Ladyboy’ (2011), che collocano il loro autore tra le voci più alte della narrativa contemporanea, ma anche in ‘Satio’ sono prefigurate in nuce tutte le posteriori tematiche tanto del poeta del ‘Calvario delle gru’ e di ‘Pergamena dei ribelli’, che del metafisico di ‘Nullismo e letteratura’ e di ‘Principi di fenomenognomica’, percorsi di una ricerca culturale che ha proceduto nella perfetta coscienza dell’amara verità di Trasimaco: “Il giusto non è che l’utile del più forte”; e che si sfugge a questa maledizione solo uscendo dell’universo politico religioso verso un’etica rifondata in ambito e con gli strumenti dell’estetica. Solo per questa via si realizza, ma solo come cammino individuale metafisico-estetico, il processo di umanizzazione nel tempo della storia. E qui sta anche la ragione forte che invita alla lettura di ‘Satio’, il suo elemento di valore assoluto.

Piero Flecchia

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