Secondo Edgard Quinet

In Italia oggi due questioni occupano tutto lo spazio sociale:
– la questione economica del debito pubblico,
– la questione criminale della corruzione diffusa.

In quale rapporto stanno?

Una attendibile risposta è in un breve capitolo di un grande testo di filosofia della storia, edito in Francia negli anni 1860, di Edgard Quinet, ‘La rivoluzione, libro XXIV, I popoli debitori’, del quale proponiamo questa sintesi, illuminante circa il nostro presente di generale corruzione politica e devastante debito pubblico.

Scriveva il Quinet nel 1863: “Io non so se siano state considerate con la dovuta attenzione le conseguenze del sistema del debito pubblico; è certamente una delle cose che debbono più influire sul carattere e sulle condizioni spirituali della società moderna. Spinto ai suoi limiti estremi (come appunto in Italia oggi) questo sistema creerebbe popoli debitori legati in massa e incarcerati per debito (vedi Grecia) nelle prigioni e negli ergastoli dei creditori […]
A me sembra che, quanto più gli stati si indebitano, tanto più i popoli diventano estranei all’umanità, e la coscienza morale decade. La vita di ciascuno, infatti, dipende dalla facilità con cui lo Stato paga i suoi debiti. Questa considerazione finisce per diventare la sola che preoccupi la mente degli uomini. Il corso dei titoli pubblici è il criterio con il quale si giudicano tutti gli avvenimenti del mondo. Lo spirito umano è tenuto in ceppi dal debito; esso pesa e giudica ogni cosa attraverso le sbarre di questa prigione. L’orizzonte scompare, l’uomo svanisce; non rimane che un debitore. […]
Qualunque cosa si faccia, il peso di quest’enorme carico nazionale finisce col dare alla società intiera il carattere del debitore processato per un debito vergognoso, e in pericolo di fallimento. E questa condizione cancella la delicatezza morale, la pietà, lo scrupolo e, fino a un certo punto, l’onestà; ma soprattutto cancella la simpatia per la giustizia, l’orrore dell’ingiustizia. A tutto questo si sostituisce il fermo proposito di amicasi sempre il più forte, e perfino il più colpevole, purché sia il più ricco o il più fortunato. La conclusione di questo processo è la soppressione totale della coscienza di un popolo.”

Quanto profetiche le parole del Quinet lo dice l’Italia d’oggi, a partire dal processo corruttivo del sistema mediatico attraverso i contributi politici a stampa e TiVu, permessi dal debito pubblico, come senza il debito pubblico la classe politica non avrebbe trovato i soldi per comprare i voti dalla mafia, dal clero, e dai sindacati, per costruire, legittimata da una legislazione indecente e vergognosa, e un sistema di amnistie spudorate, una pletorica, corrotta, incapace burocrazia pubblica, fabbricata per raccomandazioni e concorsi truccati, soprattutto nei vertici.
Non altro che debito pubblico trasferito e finalizzato quello dell’assessore lombardo che ha comprato dalla ‘ndrengheta, a 50 euro al voto, 4mila voti, come debito pubblico trasferito la pletora di opere pubbliche mai finite, superflue, i preventivi gonfiati, le leggi che permettono l’assegnazione diretta di lavori per la pubblica amministrazione inferiori a ventimila euro, a ingrassare compari e parenti e puttane di contorno e puttani. Ma soprattutto è debito pubblico finalizzato la massa di denaro che hanno divorato i vari Dalema e Veltroni e Berlusconi e loro sodali, con le loro varie imprese e fondazioni ingrassate dal debito pubblico, mentre indultavano ladri assisi nelle aule parlamentari.

Soltanto la illimitata possibilità di debito pubblico ha permesso a queste bande organizzate in sedicenti pariti politici, quali agitando le bandiere del liberalismo e quali della rivoluzione prima e poi della socialdemocrazia, di dominare il Paese, di corromperlo sistematicamente deviando flussi di denaro dal processo produttivo a investimenti a favore di consorterie, fino al presente disastro. Ne consegue che solo eliminando il debito pubblico, qualunque il modo non importa, il Paese potrà sanarsi.

Piero Flecchia

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