SULLA REPRESSIONE STATALE
origini forme storiche e superamento
“Noi non abbiamo altra base obbiettiva del conoscere
che l’esperienza; e non abbiamo altra via di progredire
nel conoscere, partendo dall’esperienza, che la sua
elaborazione formale.
Il primo risultato di questa elaborazione sono i
concetti; i quali non contengono altro materiale
intuitivo che quello dell’esperienza, ma per rinviarci
a un ordine, ad una realtà che è al di là dell’esperienza”.
P. Martinetti, Ragione e fede, III,8
Come in tutte le specie animali sociali, anche nella specie homo sapiens sapiens il singolo soggetto realizza i propri bisogni primari: sicurezza cibo e sesso, in uno spazio comunitario governata da regole condivise; che soprattutto gli insegnano a controllare e veicolare le pulsioni istintuali entro comportamenti appresi e condivisi dalla sua comunità, a discendere dal primo e fondamentale apprendimento che caratterizza il sapiens sapiens: l’apprendimento linguistico.
A differenza della più parte delle specie sociali, che in natura si riconoscono attraverso il comune odore di branco o di sciame, il sapiens sapiens riconosce la conspecificità di gruppo: il Noi comunitario, attraverso il linguaggio; ma che cosa tenga assieme: come prendano forma le società naturali è stato individuato e descritto in modo esaustivo solo nel corso del XX secolo dalla scienza etologica; per la quale le società naturali si costruiscono e articolano intorno al duello di gerarchia, scontro tra due individui del gruppo per stabilire il dominante; che così acquisisce la priorità nell’accesso al cibo e al sesso. Ne discende che le società animali sono società gerarchiche stratificate; e in modo tanto più accentuato quanto più la sicurezza del singolo dipende dalla collaborazione di gruppo; entro il quale solo l’animale alfa può affermare pienamente il proprio ego, che domina reprimendo gli altri ego subordinati. Questi, a loro volta, affermano il proprio ego sui propri subordinati, per cui in natura, sul piano sociale collettivo, le comunità animali sono società gerarchiche stratificate, governate dalla relazione dominante/dominato, che sul piano esistenziale si traduce in una rete di relazione la cui forma psichica soggettiva è governata dalla dialettica sadomasochista: piacere sadico dalla parte del/dei dominante/i piacere masochista dalla parte del/dei dominato/i.
Questo tipo di relazione dominante/dominato sul piano collettivo sociale, cui corrisponde la relazione psichica sadomasochista sul piano intersoggettivo, si realizza attraverso i duelli di gerarchia, e quindi l’uso della forza applicata a un fine ben preciso: reprimere e subordinare le pulsioni istintuali primarie del dominato a vantaggio del dominante e del suo piacere sadico, per cui il dominante reprime e controlla la dinamica istintuale del/dei dominato/i. Ne discende che le società animali sono società governate dalla forza, che si estrinseca nella direzione repressiva, per cui sono società organizzate intorno al principio della repressione: vocabolo a individuare il concetto che descrive nel nostro linguaggio umano la nostra percezione della forma dell’esistere in natura, e soprattutto dei mammiferi sociali.
Linguaggio e tecnica differenziano l’oggi storico del sapiens sapiens dalla sua originaria forma sociale naturale, entro il cui modello gerarchico repressivo l’antenato della specie sapiens sapiens è vissuto per milioni di anni; ma linguaggio e tecnica hanno bloccato, o almeno modificato la repressione gerarchica e sottratto gli individui di sapiens sapiens alla dialettica psicologica sadomasochista?
Se abbracciamo sinteticamente le forme di organizzazione sociale delle comunità umane del tempo della storia, esse si caratterizzano intorno a un particolare tipo di istituzione politica: lo stato, le cui prime forme la ricerca storiografica colloca nel medio oriente tra la Mesopotamia e l’Egitto, intorno al 3500 a.C. Forme di stato sorgono anche nelle attuali India e Cina intorno allo stesso evo; e intorno al mille a.C. nel continente americano per sviluppo autonomo. Ne discende che lo stato è una forma organizzativa della politica alla quale tende per deriva culturale interna una comunità umana quando raggiunge l’addensamento demografico conseguente la rivoluzione neolitica, che culmina nella struttura della città tempio; la forma originaria di stato, che si impone non per un processo imitativo a partire da un centro di diffusione, ma per evoluzione convergente, le cui caratteristiche universali sono:
– nell’immaginario sociale comunitario un predominante universo mitico teologico, che spiega l’origine e il destino dell’uomo come dettaglio entro un includente antecedente universale religioso, ma che la città tempio rielabora e sistematizza in sapere teologico;
– la convinzione universale che le fortune e del singolo individuo e della comunità dipendano dall’adesione scrupolosa agli obblighi rituali religiosi, il primo dei quali è la devoluzione di una parte della forza lavoro al culto del divino, nell’obbedienza ai dettati di questo culto gestito da una classe di specialisti: i sacerdoti;
– il culto, che consuma una parte della produzione e quindi del lavoro della comunità, comporta delle pratiche rituali al cui apice stanno annuali cicli di festa, nei quali la comunità conferma la sua identità specifica: la sua unità totalità fondata nella trascendenza del sacro;
– effetto del culto è lo sviluppo di una attività edilizia e manifatturiera artigiana, con la connessa promozione di iniziative commerciali, come ci documenta la ricerca archeologica di tutte le città tempio.
Lo sviluppo della città tempio, mentre porta a una differenziazione nelle attività produttive, generando ceti di specialisti, universalmente tende ad organizzare gerarchicamente i ceti produttivi, in rapporto alla funzione a loro assegnata dalla sfera del sacro.
Le città tempio, in ragione delle attività cultuali che concentrano, sono anche luoghi di accumulazione e di consumo programmato di scorte alimentari e di beni durevoli, come minerali di pregio e pietre preziose, spesso aggregate in mirabili oggetti di culto, come lo stendardo di Ur, capolavori artistici nella loro dimensione estetica, chiamati a svolgere importanti funzioni cultuali.
L‘accumulazione di beni delle città nel tempio si realizza in nome del sacro; tempio che è originariamente bene di tutta la comunità dei credenti, e centro del culto; luogo di giunzione tra il divino e l’umano è un tempio di dimensioni sopraffacenti, dove raccogliersi e celebrare la bellezza dell’esistere comunitario. Ma queste comunità sono anche dei grandi scrigni, che tendono a richiamare orde mosse da puro desiderio di saccheggio, nonché conflitti con altre città tempio per ragioni connesse a complesse questioni teologiche. Da qui la rapida evoluzione, come si esemplifica nell’archetipo sumero mesopotamico a partire dal 3mila a.C., delle originarie città tempio in città fortezza, circondate da possenti mura sorvegliate da un nuovo ceto di specialisti: i militari; i cui capi ben presto affiancano e poi subordinano, accentuando il peso del principio gerarchico nella struttura sociale, il ceto sacerdotale, imponendo un vertice alfa: il re, che si ritiene investito dal sacro, ma che comanda in quanto controlla l’apparato militare: che se difende la comunità, ma agisce anche come strumento repressivo, quando e dove la comunità entri in conflitto con la volontà del dominio politico come si esprime per la persona del re sacro.
Quando la città-tempio si cinge di mura e il suo vertice politico è anche il vertice, religiosamente legittimato, di una macchina militare, ha preso forma compiuta lo stato, struttura politica che ritroviamo in tutte le società del tempo della storia, pur nella varietà di teologie e linguaggi e culti. La città tempio stato si è universalmente diffusa sulla terra tanto per processi imitativi locali che per evoluzione convergente delle varie rivoluzioni agricole neolitiche locali, il cui stabile surplus alimentare permette l’esistenza di ceti di specialisti: fabbri, orefici, muratori, conciatori … intorno a un ceto di specialisti della politica e della teologia, depositari e gestori di tecniche amministrative, a discendere dalla scrittura, che sorge come strumento contabile.
In ragione della parcelizzazione del lavoro, e quindi della conoscenza, la città tempio fortezza deve coordinare i vari gruppi, per la mediazione dell’azione politica, gestita da un ceto di specialisti, entro un sistema di relazioni gerarchiche, in quanto il vertice religioso politico decide e governa i singoli ambiti e li orienta ai propri fini. Si afferma così nello spazio sociale, intorno al primato del sacro, una visione gerarchica, il cui effetto è la stratificazione sociale, che assume tratti sempre più accentuati al prevalere della logica militarista, che trasforma alcune città stato templari in imperi, che articolano ormai del tutto la funzione politica come struttura gerarchica burocratica intorno alla relazione sociologica dominante/dominato, che sul piano psichico interpersonale produce la relazione libidinale sadomasochista.
Ne discende che lo sviluppo tecnologico, mentre crea la città stato imperiale tempio fortezza, ovvero lo stato, fonda lo stato sulla esaltazione delle due pulsioni istintuali naturali che governano la società naturale: la relazione dominante/dominato sul piano comunitario, e la relazione sadomasochista sul piano psichico interpersonale.
Detto entro le categorie della logica aristotelica, la combinazione dello sviluppo della cultura tecnica e dell’elaborazione linguistica dei miti teologici ha condotto le società storiche sotto il primato degli stessi elementi psichici istintuali arcaici che organizzano le società animali naturali intorno al principio di gerarchia entro la catena dominante/dominato e lo sviluppo delle connesse forme libidinali sadomasochiste. Ne discende che lo stato, istituzione politica delle società storiche costruita sul linguaggio simbolico e sostenuta dallo sviluppo delle tecniche, nel contempo affonda la propria forza mobilitante su una pulsione arcaica istintuale pre linguistica: la struttura gerarchica costruita sui duelli di gerarchia, per cui se la specie umana vuole trascendere nel tempo della storia le forme di società burocratiche altamente gerarchizzate, la cui tragicità per l’essere umano: sul suo processo di umanizzazione, è stata descritta con impareggiabile forza dal Kafka de ‘Il processo’ e ‘Il castello’, la specie homo deve superare il modello politico statale gerarchico e la sua legittimazione teologica, ma in quale direzione?
Istituzione culturale del tutto post naturale, che aggrega società umane tra le decine di migliaia e le centinaia di milioni di individui, uno stato realizza nello spazio sociale che regola un ordine fondato sulla repressione, attraverso il monopolio dell’uso della forza, e la crisi e dissoluzione di uno stato si realizza quando perde il monopolio dell’uso della forza, e quindi la gestione della repressione come principio regolatore della spazio comunitario.
L’evidenza impone di concludere che nelle società storiche lo stato svolge quella funzione repressiva che in natura si realizza attraverso il duello di gerarchia, che lo stato inibisce e sostituisce con un codice culturale condiviso; che impone come il solo legittimo in ragione del monopolio della forza, e quindi, attraverso l’impiego della forza, reprime tutte le devianze dal codice culturale nel quale quello stato si identifica.
Il primato linguistico simbolico come elemento caratterizzante le strutture dei singoli stati ne evidenzia l’origine culturale post naturale. E infatti negli stati anche l’organizzazione e l’impiego della forza si media per codici culturali a base religiosa, ma i meccanismi di gerarchizzazione, e l’azione di controllo repressivo a governarli attivano e si connettono alla sfera istintuale naturale, per cui lo stato organizza un sistema di relazioni sociali come nello società naturali: fondato sulla repressione, e che struttura la società entro la relazione dominate/dominato, ma così attivando modelli psichici di tipo sadomasochista, ai quali già nelle società naturali il singolo soggetto tende a ribellarsi, come prova proprio il duello di gerarchia, se analizzato come resistenza alla subordinazione. E questa rivolta contro la relazione di dominio percorre tutte le società statali storiche, espressa al livello linguistico dal mito della libertà, che indica in una direzione altra rispetto all’ordine statale, a partire da una critica radicale alla forma culturale stabilizzante del mito dello stato: la visione religiosa monoteista patriarcale beduina. Ma è possibile una forma di convivenza comunitaria non fondata sulla repressione; detto altrimenti un Noi comunitario non gerarchico che subentri al e sopprima nello spazio sociale il concetto culturale di patriarcato, come modellato dalla teologia monoteista?
E soprattutto è possibile un Noi comunitario nel cui ambito si trascenda la necessità di un immanente momento repressivo, realizzando la ricorrente suggestione mitica simbolica, anche nelle simbolizzazioni religiose, dei vari paradisi ed età dell’oro; che non stanno forse a indicare un profondo bisogno umano di superare la repressione, come da sempre parla nel linguaggio del sogno?
Tra fine ‘700 e primi ‘800, mentre esplodeva la grande rivoluzione scientifica culminata nel ‘900 con la fisica atomica, un grande studioso del diritto e del mondo antico J. J. Bachofen intravide in alcuni miti il racconto di un mondo organizzato secondo un principio aggregante opposto a quello del patriarcato, e nel quale Bachofen individuò, rispetto al patriarcato, un più antico universale modo di organizzarsi delle società umane intorno al principio femminile materno; ma nel quale vide anche, entro la visione culturale evoluzionista allora imperante, una fase arcaica del processo di umanizzazione, poi superata dal superiore principio del patriarcato.
Il primato politico del principio materno fu dalla più parte degli studiosi relegato nel puro fantastico, ma il continuo emergere della dimensione matriarcale come dimensione egemone nei miti più arcaici, e a un tempo la scoperta, soprattutto nell’area sarmatico danubiana, delle veneri del paleolitico, detto altrimenti, l’assoluto primato della figura femminile nella costruzione della ritualità del sacro arcaico, impose un serio riesame di quella che i più tendevano a considerare una scogitazione fantastica di un grande erudito. Le nuove ricerche condotte nel XX secolo sui relitti mitici e archeologici del neolitico imponevano di concludere che il matriarcato non era una fantasia letteraria di J.J. Bachofen, ma in esso si sintetizzava un lungo evo nel quale l’umanità aveva assunto come criterio modellante lo spazio sociale il principio altruistico amoroso della figura materna, quale parlava dalle tante statuette di madri con in braccio il figlio, che ritroviamo come iconografia diffusa a partire dal 15/12mila a.C., mentre da ricerche archeologiche e indagini sui miti dell’area anatolico danubiano baltica condotte dalla grande Marija Gimbutas emergeva un lungo evo, tra 12mila e il 4mila a.C. di comunità pacifiche, organizzate intorno al principio altruistico egualitario della madre.
Dalla raffinata capacità di analisi tanto dei dati archeologici che dei dati mitico linguistici di Marija Gimbutas emerge una unitaria preistoria che, tra il baltico e la valle dell’Eufrate vede l’affermarsi di comunità governate da una spiritualizzazione del principio materno altruistico; che per rapida evoluzione sviluppano tessitura, ceramica, metallurgia, addomesticamento del bestiame, agricoltura degli orti, selezione di tutta una serie di alberi tra l’olivo e l’albicocco, di verdure e semi alimentari tra l’orzo e il grano. E questa civiltà della Madre viveva in una socialità di tipo egualitario, come anche confermato incontrovertibilmente da un clamoroso dato archeologico individuato dal toponimo Çatal Huyuk, sito nell’altopiano anatolico orientale, che ha rivelato una autentica città di oltre 13 ettari, più volte riedificata tra il 7400 e il 5400. La topografia di questa città permette di dedurre che lungo tutto il suo arco di tempo vi prevalse una forma di società egualitaria. Le unità abitative sono infatti tutte composte da una camera principale spesso affrescata con immagini della dea Madre, un ripostigli e un cortiletto. Le unità abitative erano le une addossate alle altre, l’accesso dal tetto, come gli insediamenti degli indiani Hopi dell’Arizona.
Per gli studi della Ginbutas questa civiltà della Madre, pacifica, egualitaria, attenta all’equilibrio ecologico, e fondata sul principio del piacere, fu travolta, a partire dal 3500 a.C. dall’irruzione di popoli delle steppe, che avevano addomesticato il cavallo, e sviluppato una cultura aggressiva predatrice; il cui ricordo si è fissato nel ciclo di invasione degli indoari, che imposero una visione culturale gerarchica militarista patriarcale. E la imposero in tutto il continente europeo e il bacino del mediterraneo, cancellando la civiltà delle madri; la cui ricostruzione nei suoi tratti tipicizzanti, intorno a quello centrale: il tratto egualitario non gerarchico, è certa un grande contributo di Marija Gimbutas. Ma la dissoluzione della civiltà egualitaria materna non è tanto da attribuirsi a cause esterne quanto a un processo di dissoluzione interna, come si scorge chiaro se si ritorno al luogo originario della nascita dello stato, istituzione gerarchica per eccellenza: la bassa Mesopotamia dei sumeri.
La prima città tempio ha un nome, Uruk, ed un evo ben precisi. Siamo intorno al 5mila a.C. nella bassa Mesopotamia abitata dai Sumeri. Qui si sviluppa un particolare tipo di grande campo irriguo arato con una coppia di buoi e coltivato ad orzo, che realizza una altissima resa produttiva, permettendo una stabile accumulazione di una grande eccedenza alimentare. Questa straordinaria e stabile eccedenza alimentare permette l’avvio, nel sito noto come Uruk, di un grande progetto templare, dove celebrare un ciclo di festività. Gli scavi hanno dimostrato che all’origine il solo elemento di differenziazione è il tempio, intorno al quale si sviluppano magazzini e insediamenti abitativi di sacerdoti e servitori, che non si distinguono dagli insediamenti dei villaggi circostanti, le cui unità abitative hanno strutture che individuano una cultura egualitaria. Solo a partire dal 3500, accanto al tempio sorge un palazzo reale e un insieme di residenze che individuano una struttura sociale diseguale, che rapidamente si diffonde, a individuare una mutazione strutturale interna, che rapidamente porta alla militarizzazione delle comunità della Mesopotamia, in un processo di degenerazione interna promossa dall’emergere di una teologia che pone il destino della comunità, e quindi dei singoli sotto la volontà trascendente del sacro. Da dove discende un collocarsi differenziato delle persone entro la topologia del sacro, che si afferma intorno ai grandi riti, che esigono un personale specialistico, depositario di un sapere teologico, essenziale per le fortune della comunità.
Un sacerdozio, che per quanto si intravede dalle tavolette sumere era imparzialmente tenuto da uomini e donne, mentre all’origine la divinità principale di Uruk è una dea, con la quale si congiunge poi in un matrimonio mistico, la posteriore figura del capo militare quando assurge a re sacro. Siamo ormai entro un processo di emersione, attraverso il sacro, del principio di gerarchia, che emargina il principio egualitario, ma per una ragione ben precisa: il principio egualitario non era garantito dal sacro, ma dall’assemblea della comunità, solo esautorare la quale sarà possibile l’affermarsi del primato del sacro come elemento unificante tutto lo spazio sociale. E infatti nei sei poemi Sumeri, dove si racconta la storia dell’universo a legittimare il principio della regalità come elemento di giunzione tra l’umano e il divino, il re si afferma sempre guidando l’esercito cittadino contro il nemico, ma dopo aver sconfitto e l’assemblea degli anziani e l’assemblea dei guerrieri, inclini a un accordo di compromesso con il nemico.
L’universo del sacro produce quindi, per autocombustione sociale interna, la distruzione della precedente forma politica assembleare egualitaria, facendo emergere una logica gerarchizzante, che si fissa nel mito culturale del patriarcato, e si legittima intorno al prezzo che l’umano deve pagare al divino, in uno scambio la cui origine e senso ci accingiamo ad analizzare, a procedere da una forma sociale: la comunità primitiva, con la quale l’uomo sedicente civilizzato è stato da sempre in contatto, ma mal comprendendone il significato, e più spesso fraintendendolo.
Per cercare di comprendere le cause del prevalere nelle società storiche della dimensione religiosa nella politica: il trasferimento del centro della politica dalla comunità a una trascendenza; da dove discende la legittimazione del saccheggio fiscale, ergo la divisione del corpo sociale in dominanti e dominati, detto altrimenti in sfruttatori e sfruttati – il dominio politico operativamente è sfruttamento economico -, risaliremo al prima: a quando la comunità umana si presentava come unità-totalità del Noi comunitario, capace di controllare la sua relazione politica dal proprio interno e a vantaggio di tutta la comunità, e non attraverso una trascendenza religiosa.
Detto altrimenti, bisogna andare alla comunità primitiva come ci è descritta dalla ricerca etnografica, dove ricostruisce l’essere sociale delle tribù delle grandi praterie e selve del nord e sud America; comunità primitiva già individuata nella sua specificità dai gesuiti tra ‘600 e ‘700 (si veda la voce selvaggi nei Saggi di Montaigne) e ricostruita nel suo senso e strutture generali dall’antropologia del XX secolo (B. Malinowski, E. Evans-Prithard, C. Lévi-Strauss), ma la cui dinamica e senso politico sono stati definiti esaustivamente soltanto per le folgoranti intuizioni del Pierre Clastres de ‘La società contro lo stato’ e di ‘Archeologia della violenza’.
Forma originaria della società umana in quanto società sotto il primato linguistico simbolico, gli elementi che individuano il carattere universale complesso delle società primitiva sono la sua diffusione planetaria tanto temporale che geografica e la grande varietà della sua demografia.
L‘etnologia, tra ‘800 e ‘900, ha individuato forme di società primitiva su tutta la superficie del pianeta. Erano società primitive tanto quelle degli eschimesi, o inuit, intorno al circolo polare artico, che degli abitanti del deserto del Kalahari; comunità articolate in gruppi di poche decine di individui; ma erano ancora società primitive le grandi unità tribali delle pianure tanto del nord che sud America pre colombiano. Società primitiva era quella degli aborigeni australiani, come quella dei Nuer africani: una popolazione nilotica semi nomade, a fine ‘800 di alcune centinaia di migliaia di persone, con una economia organizzata intorno alla pastorizia; che quando fu studiata, agli inizi del XX secolo, rivelò all’etnografo un popolo capace di tener testa tanto alle regalità africane che lo minacciavano da sud, che da est all’aggressione islamica; popolo forte di una propria dinamica sociopolitica espansiva, che rendeva i Nuer capaci di assimilare culturalmente a sé le altre etnie finitime: riprimitivizzarle dov’erano cadute sotto forme di dispotismo regio protostorico, o di deliri religiosi monoteisti islamici.
I tratti che accomunano, oltre il tempo e lo spazio, le comunità primitive sono: un forte individualismo, che si coniuga con e si fonda su un voluto egualitarismo, il cui tratto di immediata evidenza è la sostanziale uguaglianza tra il maschile e il femminile, anche se da una forte sottolineatura di genere, che ripartisce il lavoro tra i due sessi.
Questo egualitarismo ha il suo luogo di fondazione nel tipo di conoscenza che l’individuo, a procede dal rito iniziatico, acquisisce della vita comunitaria: non c’è società primitiva senza iniziazione, per la quale ogni singolo individuo della comunità entra in contatto con la trascendenza in modo differenziato e personale. Infatti, il segno certo della dissoluzione delle società primitiva è la scomparsa del rito iniziatico generalizzato, dov’è il fondamento rituale operativo dell’eguaglianza politica primitiva.
L‘iniziazione selvaggia ha sempre i tratti di una autoiniziazione guidata, sorvegliata dagli anziani. Esemplarmente, tra gli indiani delle pianure dell’America del nord, l’adolescente deve allontanarsi, solo e senz’armi, dalla comunità e appartarsi in un luogo elevato solitario, per digiunare e attendere un sogno rivelatore, per il quale entra in contatto con il sacro stando concretamente nel grembo della natura, della quale così riconoscere la dimensione sacra, e quindi del vivente tutto.
Abbiamo qui il centro pedagogico dell’educazione selvaggia alla libertà: il suo naturalismo e individualismo fortemente accentuati, sui quali si fonda la libertà della comunità primitiva, il cui tratto politico caratterizzante Pierre Clastres enuclea con una metafora di grande forza illuminante; per la quale, mentre si coglie la specificità politica e la natura libertaria della società primitiva, di riflesso si illumina il senso e le linee di sviluppo dell’universo politico delle nostre società storiche: si misura quanto profonda la caduta nella servitù gerarchica burocratica delle società statali.
La metafora clastriana procede dalla constatazione che nelle società storiche la forma dell’asservimento, per la mediazione dello stato, dei dominati ai dominanti, è il prelievo fiscale; che è confisca di quote di lavoro dei dominati, e loro trasformazione in beni e servizi per i dominatori. Il prelievo fiscale può assumere molte forme, tra la immediata ed evidente dello sfruttamento schiavile e/o coloniale, e le più sofisticate, che propagandano l’esazione fiscale come un servizio per tutta la comunità.
Questa predazione fiscale Clastres la definisce il debito inestinguibile che i popoli della storia, per la mediazione dello stato, devono pagare ai loro signori, e che individua l’asservimento dei dominati ai loro dominatori; circolazione del debito fiscale che nelle società storiche universalmente procede, per la mediazione dello stato, dai dominati ai dominatori. Ecco anche perché universalmente nelle società storiche la questione politica ha il suo centro motore nella resistenza fiscale dei dominati, per cui le rivoluzioni perseguono tutte una radicale riduzione della pressione fiscale, e soprattutto il controllo politico popolare sulla macchina fiscale. Controllo che deve investire tutti i tre momenti della struttura fiscale: il momento legislativo, il momento dell’esazione e infine il momento della redistribuzione. E un controllo di un popolo sui tre momenti della macchina fiscale si è realizzato entro il tempo della storia, osserviamo per inciso, nelle società non statali (polis antica, comune medioevale) attraverso la gestione politica assembleare del processo fiscale.
A procedere dalla dialettica fiscale delle società statali, Pierre Clastres si domanda se esista nelle comunità primitiva prelievo fiscale, e come si organizzi; detto in linguaggio clastriano: quale sia nella società primitiva la circolazione del debito.
Pierre Clastres, analizzando la società primitiva, scopre che la sua struttura politica si determina intorno al debito che i suoi capi politici hanno con il proprio gruppo. Un debito stabilito da una tradizione che risale agli antenati: è coeva all’emergere mitico dal caos della comunità, e stabilisce che chi ha il comando politico deve, al cambio del prestigio che il gruppo gli riconosce, assicurare l’ordinato procedere della vita comunitaria entro le direttive delle leggi emanate dagli antenati al tempo delle origini; soprattutto nei momenti di crisi assicurandole unità di direzione, e individuazione di fonti alimentari.
Il capo selvaggio deve non solo assicurare che la vita comunitaria proceda entro le linee egualitarie della tradizione voluta dagli antenati, ma anche deve lavorare più degli altri, e per gli altri: dare quanto possiede a chi non ha. Questo accade perché il capo dipende: il suo riconoscimento come capo, dalla comunità, sia essa quella dei piccoli gruppi che decidono informalmente nel cerchio che si forma intorno al fuoco notturno del bivacco, o la grande assemblea tribale delle popolose tribù dei Nuer africani o dei pellerossa delle pianure americane un tempo. È sempre questa assemblea comunitaria che determina il destino dei capi, che sono capi solo fin quando servono gli interessi generali. Detto nel linguaggio clastriano: comprano con i servizi che rendono alla comunità il diritto a svolgere la funzione di capo, in uno scambio nel quale la comunità dona il prestigio ai suoi capi, ma soltanto se questi conferiscono i loro servizi concreti alla comunità.
Nella comunità primitiva sono i capi in debito con il popolo, in una relazione invertita rispetto alle comunità statali, ma perché la relazione tra capi e popolo si media per lo scambio:
– prestigio: conferito dalla comunità ai suoi capi, in cambio di
– lavoro: conferito dai suoi capi alla comunità.
Nella società primitiva la circolazione del debito va dai capi alla comunità, in uno scambio tra lavoro e prestigio, lavoro conferito dai capi alla comunità contro prestigio assicurato dalla comunità ai capi, entro un contratto del quale la comunità detiene le chiavi. In questa relazione politica i capi, prigionieri del loro desiderio di prestigio, sono l’elemento subordinato debole, costretto a pagare alla comunità primitiva Ma può anche accadere, e lo confermano non pochi casi, che un capo voglia esercitare il potere a suo proprio vantaggio: pretenda che la comunità gli conferisca lavoro, o lo segua in una impresa militare che il gruppo non ritiene necessario, e la comunità lo abbandona, quando non lo uccide.
Ricapitolando, nelle società primitive – primitive in quanto in esse prende forma quel processo di umanizzazione fondato sulla reciprocità scambista che determina l’egualitarismo selvaggio – la circolazione del debito, come ha dimostrato incontrovertibilmente Pierre Clastres in ‘Archeologia della violenza’, procede dai capi verso la comunità; ovvero in senso inverso rispetto alle società storiche, ma non in tutte le società storiche, ci sia consentito di precisare.
C‘è nel tempo della storia, come abbiamo già accennato, almeno un tipo di società a-statale, nella quale il debito circola dai capi al popolo: è la società comunale, ben esemplificata dalla Atene del comunalismo realizzato con una serie di riforme tra Solone (600 a.C. Circa) Efialte (495-61) e l’occupazione Macedone (322 a.C.). E l’esempio clamoroso di questo debito dei capi ateniesi verso il loro popolo è il grande teatro tragico, spettacolo pagato dai ricchi per tutta la comunità, segno della circolazione del debito, nell’ambito della polis ateniese, dai capi alla comunità. E lo ribadisce l’allestimento della flotta militare, la cui spesa sostenuta dai ricchi a vantaggio di tutta la comunità. Di più, Pericle, non possedendo le grandi ricchezze prima di Cimone e poi di Nicia, suoi antagonisti politici, a contendere loro il potere avviò la polis ateniese in un ciclo di guerre imperialiste, con le cui rapine corrompere il popolo; politica che condussero ai disastri delle campane d’Egitto e di Sicilia, e che costeranno poi la sconfitta ateniese nella guerra contro Sparta, Corinto e Tebe, nota come guerra sacra, in quanto combattuta per il controllo politico sull’oracolo di Delfi, o guerra del Peloponneso, che ci è stata tramandata per il racconto di Tucidice, in uno dei massimi capolavori delle umane scritture.
Pur se episodicamente, anche nel tempo della storia, la circolazione del debito nelle società comunali è andato dai capi al popolo, la ricchezza usata nell’interesse comune, come descrive la città antica classica, ma anche il comune medioevale, che si emblematizza in due grandi opere edificatrici che concentrano il surplus a vantaggio di tutta la comunità: le cattedrali e il palazzo comunale, come esemplarmente Siena comunale.
Al trar delle somme, nella società primitiva se i capi politici non rispettano il patto che li vincola e li investe del potere politico, la comunità, semplicemente li abbandona, e se un capo insiste nel pretendere di continuare a esercitare la funzione di comando dopo che non ha più il consenso della comunità, questa lo uccide. Accade insomma l’opposto che nelle società storiche, dove sono i capi a imprigionare e, se necessario, uccidere chi non onora i debiti che i suoi capi gli attribuiscono. Detto in demotico, non paga le quota di tasse che gli/le è stata d’imperio assegnata. Ma questa logica fiscale delle società statali storiche ha, torniamo a ribadirlo, una rilevante eccezione nella polis antica e nel comune medioevale, la cui ascesa corrisponde a una riforma fiscale che tassa i ricchi a vantaggio della comunità dei cittadini di pieno diritto, la cui assemblea dirige la politica e vota le leggi. Nelle società comunali ritroviamo quindi la stessa strategia politica della comunità primitiva. E questo accade tanto nella polis mediterranea che nel comune medioevale, in quanto il potere è nelle mani della comunità, che ne delega l’esercizio mai in toto, ogni volta investendo il singolo d’una funzione operativa delimitata (magistratura), ma da una precisa coscienza universale da parte della comunità degli obblighi del detentore della funzione di comando politico; per cui il comune è una forma politica altra rispetto allo stato, in quanto, come le comunità selvagge ad alta intensità demografica: Nuer, amerindi delle pianure …, ha al centro della dinamica politica l’assemblea comunitaria, che elegge le magistrature, e soprattutto fraziona il potere politico in magistrature di breve durata, e al cui termine sottopone ad indagine i titolari della magistratura, a verificare se hanno lavorato a vantaggio della comunità o proprio. Ne discende un’azione repressiva rovesciata rispetto all’ordine statale, e che culmina nel prelievo fiscale differenziato, al servizio della comunità in senso egualitario.
Proprio come nella società primitiva, nella società comunale la relazione di dominio non governa più tutto lo spazio sociale, ma si contrae allo spazio politico entro la sfera del controllo assembleare sulla politica gestita dai capi che, come nella società primitiva, sono chiamati a realizzare un ordine stabilito dall’assemblea dei comunalisti, che stabilisce il disegno politico e incarica i capi, di nuovo come nella società primitiva, di realizzare le decisioni politiche dell’assemblea dei comunalisti.
La società comunale sorge per una precisa trasformazione, in ambito mediterraneo ellenico, della città tempio fortezza, attraverso la marginalizzazione della figura del re sacro o basileus, che viene esautorato dal potere da una coalizione di oligarchi, prima forma di circolo democratico ristretto, ma che sarà il modello della posteriore democrazia, che si realizza non solo attraverso il trasferimento fisico del potere politico dal palazzo alla piazza, ma parallelamente all’emarginazione del potere religioso nello spazio politico, per cui nasce una forma di città non più egemonizzata dalla casta sacerdotale sul piano culturale e da un re sacro, capo a un tempo religioso e militare.
La polis mediterranea, che ha il suo centro propulsore nell’Ellade, è non più solo un centro politico religioso intorno a un tempio, ma anche un centro religioso, dove però prevalgono nella dimensione politica gli aspetti economico manifatturieri e commerciali. Questa polis comunalista ellenica, che domina un certo ambito territoriale, ha al suo centro l’assemblea dei comunalisti in armi, che militarmente organizzati in falange, si garantiscono reciprocamente il controllo d’un ambito territoriale, coltivato con il contributo di mano d’opera servile; questa tenuta sotto controllo da un patto di reciproca difesa dei proprietari, mentre ogni polis sviluppa un reticolo di relazioni politiche e militari intorno a un elemento dirimente: la cinta muraria; che assicura ai difensori un incomparabile vantaggio fino a tutto il terzo secolo a.C., quando le tecniche ossidionali permetteranno all’attaccante che disponga di forze preponderanti di aprire brecce nelle mura, cosa che gli spartani del IV secolo a.C. mai osarono nel corso di tutta la guerra del Peloponneso, quando la superiorità oplitica permetteva loro di invadere e devastare a ogni primavera l’Attica.
Il vantaggio degli assediati sugli assedianti è la ragione per la quale si impose nel mediterraneo la struttura localista della polis comunale, gestita dall’assemblea dei comunalisti, la cui evoluzione produsse un residuo culturale e giuridico e storico e letterario altro rispetto alle culture delle regalità statali, e che si ricapitolano nella straordinaria parabola della res publica romana, auto annientatasi in una serie di guerre civili a un tempo guerre sociali, che vanno dal conflitto tra i Gracchi e il senato (130- 20 a.C.) intorno all’ager publicus, la guerra civile tra Mario e Silla (88-82 a.C), via passando per il conflitto tra Cesare e Pompeo, fino alla stabilizzazione del potere politico in forma di struttura burocratica militare realizzata da Augusto e perfezionata dai cesari successivi, ma che trova compiuta stabilità statale soltanto quando la macchina burocratico militare imperiale si salda con la macchina burocratica della religione cristiana, che infatti si incarna in una nuova grande città santuario stato Costantinopoli.
E però il residuo culturale del mondo della polis greco romana sarà capace di provocare nel medio evo la grande rivoluzione comunale, la cui discendenza dalla classicità si coglie con particolare evidenza tanto nel pensiero di Dante che di Boccaccio e Petrarca. La rivoluzione comunale medioevale sconfitta dagli stati burocratici a cultura feudale cristiana, aveva però recuperato una coscienza della libertà della polis capace di provocare, attraverso rinascimento e illuminismo, quel ciclo di rivoluzioni prima borghesi e poi operaie che, tra XVI e XX secolo hanno portato alla nascita di una forma di stato assolutamente anomala e paradossale: lo stato democratico, che ha a un tempo salvato lo stato burocratico nazionale come organizzato dalle monarchie assolute cristiane, ma ne ha delimitato l’azione attraverso una grande finzione retorica di grande suggestione: la macchina elettorale ad ideologia liberale, dove formalmente vive, ridotta a una unica manifestazione di volontà, l’assemblea dei comunalisti, che scelgono il corpo legislativo, al quale affidano l’altra capitale funzioni politica che già fu dell’assemblea dei comunalisti: la scelta delle magistrature e l’esercizio del potere che da esse emana, ora ridotte e subordinate sotto un unico centro: il potere esecutivo, che realizza i suoi disegni usando la macchina burocratica dell’antecedente stato burocratico assoluto, con i suoi apparati propagandistici religiosi e repressivi militari, polizieschi e finanziari.
Lo stato democratico occidentale, che ha preso forma tra XVIII e XX secolo è una combinazione di stato burocratico e di istanze comunaliste assembleari, che si sono mediate, nel corso del XIX secolo intorno al meccanismo elettorale come strumento di selezione del personale politico, che tende a chiudersi in oligarchia castale, (dottrina delle élite di Gaestano Mosca) e servirsi della macchina statale in funzione repressiva, soprattutto quando e dove la massa elettorale, avvertendo di essere usata dalla politica, si organizza per gestire un reale controllo sul potere politico, avviando iniziative politiche di restaurazione assembleare del controllo e gestione delle magistrature ed istituzioni politiche, riattualizzando quel modello di repressione sui capi, ovvero sul principio di gerarchia, che caratterizzò la società primitiva e la società comunale. A questa strategia repressiva popolare gli apparati burocratici castali statali reagiscono con strategie bonapartiste, che vanno nella direzione della restaurazione dello stato nella sua forma storica repressiva gerarchica totalitaria a base religiosa; e per nulla paradossalmente la repressione burocratica statale può assumere anche i tratti teologici del materialismo marxista, come tra i bolscevichi ieri e oggi in Cina.
Questa deriva verso lo stato burocratico puro è immanente in tutta la politica democratica, per quanto essa è agita da centri dirigenti che gestiscono la politica democratica a proprio vantaggio, come si esemplifica nella democrazia americana, che nella sua prima fase ha trovato l’elemento coesivo nell’esproprio degli amerindi dalle loro terre, agitando l’ideologia del missionario e della civilizzazione, identificati con lo stato sedicente federale USA. Questo stato ha poi perseguitato, nella seconda metà dell’800, nella fase dell’industrializzazione, le istanze dei ceti subalterni ad autonomizzarsi politicamente attraverso il socialismo, perseguendo una politica demografica che giocava i nuovi immigrati con il vecchio ceto operaio per deprimere i salari. Una strategia politica riflettendo sulla quale il sottile ingegno di Mark Twain concluse: “Se votare servisse al popolo, non lo farebbero votare”.
La classe dirigente degli Stati Uniti, come già la Roma delle guerre puniche nel mediterraneo, attraverso le due guerre mondiali egemonizza l’occidente con una combinazione di ingegneria finanziaria militarismo e mitologia democratica, che coprono e tutelano una planetaria macchina di rapina burocratica, che impoverisce sempre più vasti ceti e popoli: fenomeno della terzomondizzazione, governando la situazione conflittuale attraverso la parcellizzazione e ingabbiamento dei popoli nelle mitologie politico religiose degli stati nazionali, il cui sviluppo verso esiti fascisti, finisce per restaurare quella catena burocratica organizzata intorno alla relazione dominante/dominato e che evoca relazioni interpersonali di tipo sadomasochista, come si legge con particolare evidente in società governate da mitologie religiose monoteiste, per le quali riemerge la struttura arcaica che organizza le società naturali.
Da quanto fin qui esposto discende che lo stato parlamentare democratico è una forma culturale di soluzione del problema politico estremamente instabile, perché sorge dal compromesso tra i due modi possibili, in quanto storicamente sperimentati, di organizzare la politica, ma tra loro antitetici:
– il principio statale gerarchico burocratico, il cui esito è sul piano sociale la relazione dominante/dominato e su quello interpersonale la relazione sado masochista
– il principio comunalista assembleare, che persegue il controllo della funzione politica da parte dell’assemblea dei comunalisti, che svolge l’attività legislativa e gestisce l’esercizio del potere politico repressivo investendo i singoli individui di un potere locale ben definito, o magistratura, e sempre per brevi periodi. Qui la relazione di dominio: la repressione procede dal popolo al ceto politico, ma non dilaga oltre, permettendo quella libertà di costumi che è propria delle individualità libere.
Rompere con i residui stataliti e imporre il modello assembleare comunalista è oggi la sola strategia politica che proceda nella direzione umanistica. Come però possa oggi sorgere sul piano locale una assemblea di comunalisti tesi a imporre il loro primato politico solo nel concreto degli accadimenti politici si potrà determinare. Ma l’azione politica libertaria oltre lo stato: l’affermazione di una politica di controllo assembleare diventa possibile solo per quanto in un gruppo umano si realizzi l’esatta comprensione culturale delle reali dinamiche nei conflitti politici; dove la repressione:
– aut è gestita da un gruppo separata a proprio vantaggio, e abbiamo nelle società storiche lo stato
– aut è gestita dalla comunità complessiva attraverso il modello assembleare sulle magistrature, e abbiamo nelle società storiche il modello comunalista.
Senza questa comprensione della centralità della repressione nello spazio politico non è possibile nessuna politica libertaria, perché per deriva interna, come la nascita dello stato dalla città tempio racconta, lo spazio politico per deriva interna tende ad articolarsi intorno alla arcaica pulsione gerarchica della socialità naturale, che può essere contrastata solo da una strategia culturale coscientemente tesa ad un orizzonte umano di libertà nell’eguaglianza, attraverso il controllo delle assemblee sulle magistrature, come realizzato tanto nella società primitiva che nel modello politico comunalista, e tentato dalle politiche socialdemocratiche radicali di ispirazione anarchica tra fine XIX e inizi XX secolo con i consigli di fabbrica.
Oggi la rivoluzione informatica nel campo dei linguaggi e della comunicazione ha portato alla creazione di nuovi modelli settoriali di comunità assembleari, al cui interno va ripensata l’articolazione democratica a garantire quel primato comunitario nell’organizzazione e gestione del potere, senza la quale non è possibile delimitarne l’area; ergo impedire che tutta una società si trasformi, per un tracimamento del potere politico legittimato dalle legislazioni in una struttura gerarchica totalizzante retta dalla logica fondativa della società naturale dominante/dominato: lo stato burocratico a base religiosa. Ma poiché la politica è concretezza, vogliamo concludere il periplo di questa nostra riflessione sul fatto politico nello spazio sociale con un concreto esempio del ruolo dell’assemblea comunalista nel trasformare la sfera della politica, a discendere da uno scandalo che ha investito l’Italia degli anni del crollo del muro di Berlino, il cui effetto fu nella penisola l’esplodere dello scandalo ‘Mani Pulite’, che travolse, all’emergere pubblico del fenomeno corruzione tutta una classe politica.
L’emergere della corruzione del ceto politico italiano del tempo di mani pulite: anni ‘990 del XX secolo fu possibile per la regola democratica liberale che, contro l’accentramento burocratico, stabilisce la divisione del potere politico in tre potere separati: legislativo, esecutivo e giudiziario. Il potere giudiziario, potere organizzato burocraticamente, ma entro un rigoroso principio egualitario dalla costituzione italiana antifascista, ha per questa autonomia potuto condurre una azione inquisitiva esemplare, ma che non ha arrestato la corruzione, ne ha solo mutato le forme in quanto l’azione repressiva è rimasta interna alla macchina burocratica statale: non ha investito l’universo politico italiano come si compendia nella dinamica elettorale. Detto altrimenti, la corruzione italiana continua per l’impossibilità tecnica del popolo di mutarsi in struttura di controllo dello spazio politico attraverso l’azione inquisitiva popolare con magistrature designate dalle assemblee popolari.
Mancato questo momento, la casta politica ha serrato i ranghi, sacrificando i capi precedenti e riorganizzandosi attraverso il leaderismo populista post comunista e il simmetrico dialettico che lo ha ispirato: il berlusconismo, in un progetto di pseudodemocrazia alla quale le masse popolari hanno reagito con un diffuso astensionismo elettorale e il movimento assemblearista cosiddetto dei 5 stelle, dove parla una diffusa aspirazione a un egualitarismo politico reale, ma che potrà realizzarsi entro la dinamica politica della democrazia rappresentativa soltanto se 5S conquisteranno il potere legislativo ed esecutivo prima di corrompersi, ma progetto ad alto tasso utopico, come nella logica del sistema è ben descritto dalla rapida putrefazione del leghismo.
Il parlamentarismo di matrice liberale appare quindi come una struttura tendenzialmente di garanzia delle minoranze prevaricatrici organizzate, ma anche l’espressione imperfetta di quell’aspirazione comunalista che diventa realtà politica soltanto dove una comunità politica esercita in solido la repressione sui suoi capi, a garantire l’eguaglianza concreta di tutti i suoi sodali.
Piero Flecchia
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