Una nota in margine alla felice novella di Roberto Bertoldo “LadyBoy”

Nelle patrie scritture del primo decennio di questo XXI secolo la personalità intellettuale di Roberto Bertoldo si è affermata in ragione d’una complessamente articolata attività di poligrafo, che lo ha portato a esplorare, e tanto attraverso l’indagine metafisica che letteraria, il disfarsi dei valori culturali e il loro ricomporsi, ma attento meno alla dimensione storica del processo che al dramma dell’individuo.

Scaturigine della scrittura di Bertoldo è la coscienza del ruolo centrale della dialettica ‘cultura-natura’, nelle sue opere e d’invenzione e dottrinali colta mentre prende forma per sempre nuove sintesi. Sono forme che istituzionalmente si definiscono, stabilizzano fenomenicamente, anche se sempre in modo transitorio, tra stato e religione; ora tra loro solidali, ora in contrasto, ma in ogni caso le due grandi istituzioni che costruiscono, dopo averlo generato, il tempo della storia, sempre impegnate in un controllo ricostruttivo culturale della soggettività.
Oppostamente, i personaggi di Bertoldo, in quanto soggetti, sono invece mossi da loro tensioni all’autonomia, in ragione del fondamento naturale: che si oppone e resiste, quando non insorge apertamente, contro i progetti di conformazione dei due poteri religioso e politico; dalla coscienza individuale culturalmente accettati soltanto come prezzo da pagare, forme di garanzia per la sicurezza e lo sviluppo della soggettività.

Impossibile dire se la pressione tirannica di religione e stato sull’ente umano sia la forma originaria e l’originaria funzione loro. Lo sarebbe, vera l’ipotesi freudiana della civiltà come repressione, contro quanti sostengono essere invece la repressione l’effetto d’un universale processo degenerativo di stato e religione, sotto l’incalzare della deriva dell’esercizio del potere; prigionieri nel quale, gli uomini poi, – come incapaci di uscire, attraverso l’autonomia della coscienza, alla kantiana maturità illuminata – restano nella minorità. Coinvolti nel processo storico, gli uomini sembra sappiano soltanto reagire all’oppressione di stato e religione creando nuovi stati e religioni, tra rivoluzioni e riforme varie, ma per ritrovarsi, come, anzi peggio di Sisifo: a spingere solo e sempre non uno solo, ma i due grandi massi oppressivi delle due logiche istituzionali statale e religiosa.
O per usare un’altre immagine mitologica pregnante, stato e religione, dove fonti del potere, sono le due strutture che tendono a diventare per l’individuo l’inesorabile, sventurato letto di Procuste; e quasi sempre in nome e a beffa del valore di libertà. Un’idea di libertà, ogni volta, dalla cultura dominate le strutture statali e/o religiose, sempre più dettagliatamente subordinata e integrata in disegni di morale universale, in sistemi di norme giuridiche, originariamente sorte per dare sviluppo alla personalità; darle a un tempo forma ed espressione entro la rete di relazioni sociali. Una soggettività, nel tempo della storia, tendenzialmente sempre più subordinata e condizionata al disegno politicoreligioso, come si coglie nelle grandi società storiche imperialiste dominate dal monoteismo, del quale la riduzione della filosofia di Marx a marxismo, fu la variante materialista, e il comunismo bolscevico la sua chiesa.

Nelle società monoteizzate dalla dottrina dello spirito divino è l’altrove del post mortem che diventa, per la mediazione delle invenzioni teologiche, preponderante, la salvazione eterna per le buone opere & della fede il solo senso autentico della vita sociale nel qui e ora.
Tutta la ricerca tanto metafisica che artistica di Roberto Bertoldo si è giocata intorno ed entro questo paradosso di una libertà sopraffatta, negata al singolo individuo dalla trame poste in essere nei giochi dialettici dei metavalori politicoreligiosi. E questa linea di ricerca di Bertoldo ritroviamo, con felice forza ideativa, nell’ultimo suo libro edito – R. Bertoldo, LadyBoy, pp. 143, ed Mimesis, Milano 2010, euro 14 – una novella che si colloca tra le opere d’invenzione letteraria più significative del nostro presente, malgrado l’eleganza stilistica della pagina non esente da alcune smagliature.
Sono smagliature dove parla una tendenza alla voracità creativa, per il premere della ricerca etica rispetto al momento della sua definizione ponderata nella scrittura, pur non considerata un minor valore, un puro medium, chiaro all’autore Bertoldo che ‘le parole sono cose’, ad usare la metafora cara ad un altro straordinario poligrafo, quel Carlo Levi i cui orizzonti furono gli stessi nei quali oggi si muove la scrittura di Roberto Bertoldo: l’antagonismo dialettico tra cultura e natura.

Al centro della vicenda di ‘LadyBoy’ è la più classica vicenda amorosa tra soggetti ai quali la cultura vieta di amarsi, come lo fu a Paolo e Francesca, Eloisa ed Abelardo, ma nella vicenda ideata da Bertoldo all’impedimento amoroso concorre, accanto al divieto culturale, una non meno inquietante imperfezione del disegno naturale.
I protagonisti della vicenda amorosa sono un prete di mezza età e un/una adolescente, nel quale alla struttura sessuale maschile di oppone una pulsione femminile; la volontà di definirsi eroticamente, e quindi esistenzialmente, secondo le forme storicamente agenti a individuare, e la sensibilità naturale psichica del genere femminile.

Nella novella, mentre in una soggettività sta la rinuncia alla dimensione sessuale in nome di una trascendenza religiosa, nell’altra, una imperfezione del progetto naturale nella sessuazione ha attivato una contraddizione tra la forma esterna naturale e la non meno naturale forma psichica interiore. Siamo dunque entro una natura imperfetta, incerta nel suo definirsi, bisognosa di soccorso e sostegno esterno, che solo la dimensione umana: il processo culturale di umanizzazione, può portare a chiarificazione, consolare.
La/l’adolescente, si dibatte, malgrado abbia scelto, contro la forma maschile del suo sesso, i segni identitari femminili dello spazio sociale, – ed è la forma entro la quale appare al maturo prete – in un suo privato segreto dramma, che cerca spiegazione, comprensione, ma che per trovare il conforto, deve incrociare il soccorso e il sostegno di una autentica compassione amorosa della parola.

Il prete e l’adolescente si incontrano in una scuola per immigrati, dove il prete insegna le forme della comunicazione in lingua italiana a giovani figli di immigrati, ma entro una coscienza religiosa dell’azione pedagogica, che così la scrittura di Bertoldo definisce: “Glielo diceva don Giuseppe, rispettate sempre la persona, non la situazione, quella vien dopo, ogni persona è un bambino invecchiato, c’ è debolezza dentro.” Questo prete: “Guardò la chiesa spopolarsi, le fredde ombre stantie delle colonne dei banchi, dei tabernacoli farsi vuote. Era l’ora in cui anche la felicità è torpida, ma per di più non era felice, questo santo in miniatura …”, mentre dalla sua chiesa si avvia verso la sua scuola, dove l’attende l’incontro imprevisto e sconvolgente, ma non per una mobilitazione immediata degli istinti contro l’eros della religione verso quello amoroso di coppia: “… tutti intorno alla cattedra, Liza raccontò, i gomiti appoggiati e sbilanciata in avanti, la sua vita. Con un dolore che macchiava lo sguardo, le trecce spioventi e le labbra protese a lui, un bisogno irresponsabile. Lì le aveva dato la carezza.”, una carezza, uguale a tante altre date agli altri allievi dal prete: “C’era fiducia nel maestro. Lui sapeva capirli e sdrammatizzare.”, ma quella carezza scende, per la mediazione del corpo, in un’anima anela di tenerezza: “Quella carezza mi sorprese. Non lo immaginavo così affettuoso. Provai altre volte a strappargli quella carezza, ma per molto tempo non ci riuscii più. Diventammo amici però. Figlia mia, mi chiamava, ma era una follia. Sapevo che non era una soluzione definitiva. Ho nei polmoni tanta miseria per lui. Anche adesso vorrei raccontargliela, si adombrano i suoi occhi, mi sento amata.”

Il bisogno d’amore sorprende anche il prete e lo stringe a Liza. È un percorso delineato in pagine di grande suggestione lirica, nelle quali don Giuseppe si stacca del proprio vissuto culturale e a un tempo si interroga sulla liceità etica della propria pulsione fisica: “Ogni bellezza parlava dalla sua gioventù. Non c’era bramosia nel suo sguardo indagatore ma la sorpresa di ciò che era stato senza accorgersene … I pedofili ambiscono, lui rimpiangeva. Non era un vampiro, conosceva troppo bene l’irreversibilità. Ma non era solo questo con Liza, non era solo questione di corpo, anche se nel corpo tutto si compie.”

Quando la relazione amorosa, la tenerezza del prete verso l’umanità ferita e quella ferita che è la figura e la vita di Liza si congiungono, l’idillio si compie, e in uno la perfezione armoniosa della scrittura che racconta questo compimento dell’amore, questo dialogo di due anime che si riconoscono per la mediazione dei corpi. Ma il dato concreto della fisicità, che si realizza come unità, ricostruzione dell’androgino platonico primevo, pone la rilevante affermazione nello spazio sociale, lo scandalo di questa identità ricomposta, per cui presenza l’eros si disloca sullo scenario pubblico. Un eros trapassato da fatto privato della coppia ad accadimento politico, ergo imprigionato nella dualità eticogiuridica permesso/vietato, nonché religiosa azione giusta/peccaminosa .
L’amore tra il prete e la/il giovane si disloca ora entro una comunità che contiene in nuce, ricapitola la realtà sociale italiana presente. Lo scrittore l’ha delineata come fondale nel tratteggiare il sorgere della passione, ma fondale che diviene primo attore al trapassare nel pubblico della passione. Sono figure tutte emblematiche, portatrici di un loro ruolo e destino, a incominciare dal muratore spacciatore magrebino, anche testimone dell’altro volto del monoteismo, fino ai poliziotti, preposti dallo stato a garantire un certo ordine, dove si delinea una certa idea sulla forma delle relazioni sociali permesse, e in uno degli ambiti di trasgressione tollerati.
Intanto, la forma del racconto trapassa dal lirico dell’eros di coppia alla coralità teatrale epicotragica dello spazio sociale, permeato da un’idea erotica sua propria, inevitabilmente giudicante la forma della relazione tra il don e Liza.

Prende forma un contrasto etico tra l’articolarsi dell’eros di coppia e un’idea esterna e imposta delle relazioni tra persone nel loro definirsi reciproco fisico concreto, ma non siamo nel fondale sociale della hotorniana ‘Lettera scarlatta’. Siamo in un paradigma più accettato come finzione che condiviso, poco creduto e difeso, dove parla la debolezza estenuata d’una alterità politico-religiosa ben poco sostenuta dal popolo. Questa alterità deve in ogni caso prendere possesso, controllare il corpo fisico individuale, esso l’attore anche delle relazioni politico-religiose, in quanto, come osserva Bertoldo, ‘tutto passa per il corporale’.
La discriminante è che nello spazio pubblico la storia d’amore tra il don e Liza, nel suo farsi al di fuori del paradigma, porta alla luce nella coscienza sociale la natura, anche se non più repressiva, comunque sempre umanamente repulsiva, dell’ordine trascendente. Detto in linguaggio freudiano, svela il vissuto nella sua dimensione repressiva in ogni coscienza toccata dal contatto-conoscenza con la visione dell’eros della coppia don Giuseppe-Liza.

Il rifiuto di mantenere entro il ‘secretum’ la forma della relazione da parte della coppia di “LadyBoy”, questo trasferirsi del loro eros dalla sfera del privato personale al pubblico sociale; l’irrompere nello spazio pubblico della loro vicenda amorosa sotto la pulsione della volontà del corpo di esistere nell’unità che realizza il mito archetipico dell’androgino; l’apparire sociale sempre scandaloso dell’essere androgino ricomposto, permette, a procedere dalla novella “LadyBoy”, di svolgere una non marginale considerazione intorno alla immemorabile, eppure capitale questione della dislocazione dell’arte nella trama delle relazioni sociali, che per primo Platone formulò con lucidità paradigmatica: il poeta va onorato, ma accompagnato fuori dalla collettività: esiliato.
Per quale ragione quest’esilio, cosa lo impone?

Platone, egli stesso grande poeta, scorse, intravide che l’attenzione dell’arte ai moti dell’anima ha una sua particolare forza autonoma, in quanto legge questi moti sempre nella loro concretezza fisica, svelandone spesso il loro porsi in contraddizione con il paradigma culturale, le forme che a quei moti il paradigma politicoreligioso vorrebbe conferire. Ne consegue che il manufatto poetico finisce inevitabilmente per scontrarsi con e mettere in rilievo le forme della repressione politico-religiosa, ma non denunciandole, bensì per coerenza interna del narrare, la cui meccanica ideativi svela inesorabile l’assurdità del progressivo accrescersi dell’ingerenza delle dogmatiche del potere politico religioso nella vita della soggettività. Nasce da qui e così la denuncia poetica di una metalogica istituzionale governata da una trascendenza, cui l’arte oppone le esigenze concrete non eludibili dell’immanenza corporale. Una critica, dunque, che non procede da un’altra trascendenza politico-religiosa, non avviene attraverso una proposta alternativa di dogmatiche, che ricondurrebbe l’arte alla sfera del politico e/o del religioso, facendo del poeta una figura di propagandista-profeta, ma per una schietta azione liberatrice trasformativi dei simboli imprigionati entro le dogmatiche teologico-politiche, operata dalla scrittura poetica. E questo accade perché la scrittura poetica, in quanto in primis comunicazione, non può rompere e staccarsi dal contesto e linguistico-lessicale e mitico condiviso, nel quale comunica e si svolge; ma mentre recupera questo contesto simbolico, lo trasforma e libera, mostra in un’altra possibile valenza; valenza però distruttiva per l’ordine trascendente, tanto più pericolosa in quanto non agisce per rottura ma per trasformazione: “Il simbolo diviene così mutevole … Artemide-Diana, in Asia figura statica e ricoperta di tutti i segni della fertilità e della pienezza della forza della terra, apparve in Omero in vesti succinte, spezzò le catene e vagò inquieta per monti e per valli. Quanto al simbolo, il suo senso, che parla al cuore e all’intuito, fu smembrato e trasformato nei miti. L’Ellade fu la loro patria, Omero il padre … Il progresso della razza umana in faccende religiose appare dunque come un processo di corruzione graduale e progressiva, un peccato originale ininterrotto, o, come già stato ben detto, un peccato incessante, e il poeta il grande promotore della corruzione. Con la bellezza della forma fu perduta la profondità del contenuto, finché grandi uomini, opponendo ferma resistenza alla decadenza, cercarono di riportare in onore il simbolismo dell’età antica e il suo alto significato. Come loro antesignano Platone non ha rivali. – J.J. Bachofen, Viaggio in Grecia.”

Nella novella di Bertoldo ritorna e trova conferma quella fondamentale dialettica tra lo sguardo della poesia e lo sguardo sociale costruito e controllato dal blocco politicoreligioso, ovvero represso, che trasforma in scandalo ogni scrittura che sorga dalla coscienza della frattura tra ordine sociale e istanze naturali personali individuali.
Questo in universale, ma la più accora logica repressiva del nostro evo, facendo lezione del fallimento sperimentato della pura azione censoria della trascendenza, e il non meno clamoroso fallimento della repressione per la via dialettica processuale giuridica, come fu sperimentato nel tardo Ottocento tra Francia e Inghilterra, ha messo a punto una nuova più efficace forma di censura, fondata sulla ridondanza dei segnali codificati letterari, a sopraffare e allontanare l’effetto di scritture costruite su uno sguardo libero.
Il potere realizza oggi la censura utilizzando il mercato artistico, ma solo dopo e per averlo affidato a menti soggiogate dalla libidine del potere e dalla passione politicoteologica, cui demanda il compito capitale non solo di celebrare i paradigmi del potere come si incarnano nelle soggettività storiche, ma prima ancora e soprattutto di scatenare una ipercelebrazione produttivista di scritture falsamente scandalose, producendo a getto continuo falsi scandali, in un calcolato disegno di mitridatizzazione del senso etico dello scandalo.
Questo è il vero rischio che sovrasta oggi la lettura pubblica, nel mercato librario falsificato, di scritture come la novella ‘LadyBoy’, rischio universale che minaccia nel presente ogni scrittura che agisca secondo la logica libertaria della coscienza naturale umanizzata, ovvero mediata nella kantiana illuminazione metafisica della ragione critica.

Tra l’ordine dell’arte, in quanto istanza delle dinamiche della soggettività, e l’ordine tendente alla stabilizzazione statica sociale del soggetto entro i disegni dogmatici di religione e politica agisce, entro il tempo della storia, un conflitto endemico; tempo della storia che prede forma nella dialettica tra stato e religione.
L’opposizione della poesia è intrinseca alla sua logica simbolica, e procede entro la dialettica magistralmente individuato e descritta nel passo sopra citato dal grande genio di J.J. Bachofen, la cui opera infatti colpita tenacemente dall’interdetto dei platonisti esercitanti nel secolo trascorso, e ben attivi anche nell’oggi.

Piero Flecchia

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