Il caso Alitalia oltre le mitologie
Nel redazionale del quotidiano ‘La Stampa’ di venerdì u.s., a titolo ‘Nostalgia di Pertini’ per il sempre attento e acuto Marcello Sorgi: “La rottura della trattativa per il salvataggio Alitalia, sempre che sia davvero definitiva, segna la prima sconfitta del governo Berlusconi, e la vittoria dei sindacati … ma segna prima di tutto una sconfitta per il paese.” E perché il fallimento delle trattative tra la cordata e il personale Alitalia per Berlusconi sia una sconfitta, Sorgi lo spiega così: “Trent’anni fa, in una delle prime volte che gli aerei rimasero a terra e i passeggeri abbandonati negli aeroporti per via di aquila selvaggia, intervenne Pertini … non dovette alzare la voce: si fede obbedire mettendo sul tavolo solo il peso della sua storia personale e il ruolo di primo cittadino d’Italia.”
Nel punto di vista di Sorgi sul caso Alitalia: la sua similitudine pertiniana, c’è anche la spiegazione del singolare, paradossale grido liberatorio del personale Alitalia di Fiumicino, alla notizia che la trattativa era fallita, come la sensazione di sconfitta del partito berlusconiano, ma siamo davanti a una lettura dei fatti deformata dal mitologema che ha organizzato il ‘disastro Prima Repubblica’, orchestrata da una ben precisa forza politica trasversale: il partito del debito pubblico, capace di iniettare nel paese un virus culturale che continua a mantenersi attivo e devastante entro le strutture non solo della burocrazia statale, ma anche e soprattutto nel mondo della cultura, ed è la vera ragione che fa apparire Brunetta un alieno e la maestra unica un pericoloso colpo alla democrazia.
Il sistema della Prima Repubblica si reggeva su un modello familistico cattocomunista di socialdemocrazia, che aveva anche abrogato l’idea svedese dell’uso del capitalismo come animale da tiro, forza di sostegno dello stato assistenziale, che era chiamato a svolgere una mediazione concreta tra l’utopismo operista bolscevico e l’economia di mercato, una mediazione politica nata dal conflitto tra capitalismo e rivoluzione proletaria.
Lo stato socialdemocratico, anche nella versione USA, è stato una creazione vincente della mediazione politica, ma fondato sul basso costo delle materie prime e dell’energia, ovvero, oggi a cose viste e consumate, su una condizione di sottosviluppo endemico di aree continentali e di una situazione di conflitto radicale, anche se non guerreggiato, tra capitalismo e comunismo, che costringeva il capitalismo a costi aggiuntivi per comprarsi il consenso di vaste aree sociali.
In questa situazione, in quanto terra di confine tra i due imperi, l’Italia ha goduto di una rendita aggiuntiva di posizione, incamerando sovraprofitti perfin dal sempre più stremato impero comunista, costretto a sostenere il PCI e la organizzazione economica parallela nel paese, articolata tra COOP e costosa macchina della propaganda.
Il modello socialdemocratico, anche in paesi a bassissimo tasso di corruzione: Scandinavia, Inghilterra, Germania, è entrato in crisi per deriva propria, tra gli anni ‘970-80, sotto la pressione di crescenti attese dei ceti medi burocratizzati verso lo stato assistenziale, avviando quell’onda politica liberista che in Italia è giunta tardi e male, intorno alla leadership Craxi, del quale i Brunetta, i Tremonti, i Sacconi erano parte, e non a caso troviamo oggi ai vertici dello stato italiano.
La crisi del modello di stato socialdemocratico in Italia si delinea con la vittoria sul modello di Berlinguer della marcia dei ‘quarantamila’, che avvia il paese a un’economia di mercato, ma che deve fare i conti con il familismo cattolico, con la presenza capillare e massiccia del crimine organizzato: che ha sapientemente usato la crisi di tangentopoli per riorganizzarsi, mentre nella crisi di tangentopoli era intanto andata smarrita anche l’istanza culturale neoliberista, sopraffatta da quella etica giustizialista, che chiedeva anch’essa attive riforme del sistema.
Con e approfittando della perdita di capacità di intervento della politica, per l’effetto tangentopoli, l’articolazione parassitaria corporativa del partito del debito pubblico, fortemente sostenuto dal crimine organizzato, si è anch’esso riorganizzato intorno a un potere bancario pericolosamente autonimizzatosi e postosi come solo referente per il paese. Detto altrimenti, in Italia il partito trasversale del debito pubblico si è massicciamente rafforzato, mentre nelle altre nazioni europee si dissolveva al mutare del quadro economico in ragione e attraverso un sostanziale cambiamento dei modelli concettuali, giocati intorno all’onda lunga neoliberista.
Un’onda lunga comunque poco liberale, in quanto guidata dalla finanza e dalla speculazione: da una volontà di ricchezza facile, realizzata non attraverso la produzione d’impresa, ma attraverso la speculazione finanziaria, articolata intorno ai grandi fondi di investimento, che hanno creato un mercato sovrapposto e avulso di fatto dalla produzione delle imprese; imprese ridotte dalla fenomenologia della finanziarizzazione come fine a puri valori cartacei azionari.
In Italia, il partito del debito pubblico non poteva non balzare su quest’onda, ben cavalcata tra gli altri da Massimo D’Alema e i suoi capitani coraggiosi, fino alla devastazione economica di Telecom, fonte di molte grandi ricchezze private.
A darsi una legittimazione sociale, il partito del debito pubblico doveva intanto difendere la vecchia logica pseudo-socialdemocratica all’italiana appena attenuata, e di questo logica affaristica del partito del debito pubblico Alitalia è il caso paradigmatico.
Venduta dallo Stato, i suoi titoli hanno prodotto profitti e ricchezza per i ceti dirigenti, ma in ragione di una totale disgiunzione tra valore di mercato dei titoli e valore economico reale dell’impresa; ma a suo modo singolarmente solida, in quanto i suoi debiti ripianati, fin dagli anni ‘980, dallo Stato, ovvero dai contribuenti, chiamati in solido a sostenere un soffocante debito pubblico, dov’è la ragione prima dell’alta imposizione fiscale.
Paese che non ha ristrutturato, se non alle sue periferie produttive, la propria macchina economica, oggi l’Italia si trova a dover affrontare la grande crisi per l’esplosione della grande bolla speculativa planetaria – effetto della globalizzazione -, che ha imposto al più liberista degli stati: gli USA, e retto da una presidenza liberista, di intervenire pesantemente per la mano dello Stato, ovvero a contraddire l’assunto politico con il quale il Presidente era giunto al potere. E il fatto segnala in modo inequivocabile che l’onda lunga liberista, davanti al crollo del suo modello finanziario speculativo, deve arrestarsi, e per una ragione cardine: bisogna salvare la base produttiva reale dal coinvolgimento, o la crisi andrebbe ben oltre le dimensioni socialmente tragiche del ‘929, dove furono poste le premesse della seconda guerra mondiale, determinata dalla scelta di ogni Stato di puntare su soluzioni autonome concorrenziali, o autarchiche.
Questa visione autarchica, il suo modello culturale simbolico, in Italia non è mai stato sconfitto, in quanto tutte le grandi operazioni infrastrutturali del Paese nel secondo dopo guerra sono state realizzate dallo Stato, che negli anni ‘970-80 ha di fatto nazionalizzato la penisola: l’economia pubblica nell’Italia era percentualmente superiore che nella Polonia bolscevizzata.
Quest’economia pubblica è finita nei grandi disastri che hanno affossato la chimica italiana, e ridotto il paese a una economia subalterna, dopo essere stata trainante nello sviluppo economico mondiale.
Di quell’economia di Stato l’Alitalia è un relitto fossile che si desta a nuova speranza, anche in ragione delle stesse dichiarazioni del Presidente del Consiglio, quando e dove difende il diritto del Paese ad avere una grande compagnia di bandiera, in ragione del suo primato turistico.
Chi in Italia fa quattro righe di conto, da almeno trent’anni evita di volare Alitalia, perché più cara, e appunto per questo soprattutto i turisti esteri giungono in Italia con voli delle loro compagnie. Per quale ragione Berlusconi ha sostenuto la singolare tesi del nesso Paese- compagnia di bandiera?
Perché anch’egli, in qualche modo, partecipa dello stesso mitologema che fa scrivere a Marcello Sorsi che la fine di Alitalia sarebbe un disastro per il Paese. E un altro richiamo mitico comune e universale lo denota: la difesa dei posti di lavoro, a cui i dipendenti Alitalia hanno risposto a quel modo che si vede nelle foto sui giornali.
Ventimila dipendenti sono esattamente un quinto dei licenziamenti FIAT e un po’ meno di un quarto di quelli di Telecom, e neanche un terzo di quelli previsti dalla riforma scolastica Gelmini, tutti certamente meno visibili, ma che dicono come nella questione Alitalia il problema dei licenziamenti sia, come la questione nazionale, pura mitologia accessoria, il vero centro della questione la riforma della macchina sociale complessiva verso forme di economia fondate sulla logica di bilancio, ma che, sostenuta da una struttura simbolica culturale legittimante, il partito del debito pubblico è fermamente deciso a impedire, il caso Alitalia la sua linea Piave.
Un disastro reale è per il paese se Alitalia continua a volare secondo i mitologemi che la reclamano nel cielo entro la portanza parassitaria che ha sostenuto fin qui la sua ala nei cieli: fabbricare privilegio per pochi e debiti per tutti, sottraendo denaro all’economia reale del paese.
Questa situazione disastrosa per il Paese continuano a reclamare i dipendenti Alitalia di Fiumicino; questo parla dal loro liberatorio grido alla notizia del fallimento delle trattative con la possibile nuova proprietà, venuta con un preciso disegno: ricondurre l’industria dei trasporti aerei italiana entro quella logica ardua del profitto che un vasto complex politico- burocratico e imprenditoriale del Paese è ben deciso a rifiutare, ma la cui vittoria significherebbe un’ulteriore crescita della già immane voragine del debito pubblico. Sarebbe la riduzione dell’Italia a una seconda Argentina: il cui debito pubblico corrisponde grosso modo ai capitali esportati e al sicuro in banche svizzere e affini dalla sua classe dirigente; e così andrà anche in Italia, se il partito del debito pubblico vincerà la battaglia Alitalia.
Quanto grande in Italia la forza del partito del debito pubblico, lo individua l’assoluta impopolarità a suo tempo dell’allora ministro Bersani, reo di aver tentato riforme minori e periferiche, che ledevano i piccoli interessi di notai e taxisti e farmacisti.
Il personaggio ancora recentemente è stato sbertucciato dal ministro Gasparri per quegli esiti, pagati cari in termini elettorali dal centrosinistra. Ma il ministro Gasparri è, e non solo idealmente, del partito del debito pubblico, come lo è Veltroni, ma Berlusconi è stato votato maggioritariamente proprio da quella parte del Paese che deve pagare il debito pubblico. Quella parte, fatta di ceto medio basso produttivo che, se si arrivasse alla bancarotta argentina, dovrebbe pagarne il costo, il ceto dirigente ben poco toccato.
Berlusconi lo ricordi: il suo destino politico, come il giudizio della storia sulla sua parabola politica, non saranno determinati né dal caso Napoli né dal caso Alitalia, ma da come e quanto saprà umiliare e tenere ai margini il partiti del debito pubblico: questo si gioca oggi nel Paese, questo è il vero senso anche del caso Alitalia.
Piero Flecchia