‘Dialoghi muti’ e ‘Come una resa’: i versi di Paola Novaria
Campanotto Editore – 2003, 2010
“COME UNA RESA”
Come un ospite sulla soglia, scrivo qualche parola per presentare la nuova raccolta di Paola Novaria, avendo come solo titolo, oltre all’invito ricevuto, quello di appartenere a un genere non troppo diffuso: il lettore di poesia che non scrive versi e non legge per professione ma per puro piacere.
Diceva Contini che la poesia è «saper riunire una favola a un meccanismo formale», dove per favola, nel linguaggio del critico, si intendeva una storia che si voleva raccontare. Il segreto poetico sta ovviamente nell’ingranaggio formale, che deve rendere evidente la sua necessità, convincendo il lettore che quella storia particolare ha trovato la resa migliore che poteva darsi, cioè la resa sua propria in termini di parole. Con i Dialoghi muti, usciti nel 2003 per raccogliere poesie del periodo 1993-2003, Paola Novaria ci aveva già convinto di ciò. Come qui, in quel piccolo libro la storia era soprattutto una storia d’amore difficile, dalla quale si prendevano le distanze in poesia con vari accorgimenti: un rifiuto ostentato di ogni maledettismo, l’ironia, la convivenza esperta di registri quotidiani e di registri alti, sì che Saffo e Cavalcanti andavano insieme con Patrizia Cavalli; e ancora, la liquidazione dei buoni sentimenti a profitto, ogni tanto, di una voluta sgradevolezza fatta di gelosia, eccitazione, odori e umori del corpo.
In queste poesie del 2004-2009, che traggono da uno dei versi il titolo Come una resa per indicare la scrittura come difesa ultima ma sempre votata alla sconfitta di fronte alle cose, il percorso continua e qualcosa cambia nel panorama. Diciamo innanzitutto che l’atmosfera si fa più rarefatta e le sentenze un po’ più scandite, per via di un certo sviluppo in direzione epigrammatica. Non sarà casuale perciò una qualche diminuzione dell‘enjambe-ment, assai presente nella prima raccolta, perché ora si tende di più a far coincidere la portata dell’affermazione con la misura del verso, come qui, a puro titolo d’esempio: È la giusta distanza, I sono già diventata così saggia? Rimangono d’altra parte i numi tutelari già sperimentati, dalla lirica antica a una Patrizia Cavalli evocata già in esergo e poi di nuovo nel corpo di un testo. Rimane un’agilità formale consapevole, tanto consapevole infatti da permettersi lo scherzo sulla sua propria ricercatezza: Nel buio della sala I soffoco le parole. Mi assorda I giulivo il tuo odore, dove la sineste-sia rischiosa sull’odore che assorda è corretta dal «giulivo» che fa sorridere. Rimane, dentro un prevalente registro alto, la transizione controllata verso i linguaggi quotidiani: Tracimo, con buon effetto di tensione con l’immediatamente seguente Hai per specchio il mio cuore); Rinchiusa rendiconto; Desta scrivo al telefono «Un abbraccio», che è un verso bellissimo; Leggi che ti passa. Rimane, sempre, l’ironia (Una sola competenza ti manca, l’amore, e non si sa bene da ultimo chi la vinca tra l’ironia e l’emozione timorosa dell’incontro, quell’epifania d’amore due volte evocata.
E tuttavia, se vogliamo cercare i tratti più propri di questa raccolta nuova, mi pare che due soprattutto s’impongano. Primo, il movimento. Intendo un movimento vero, di persone che si spostano e viaggiano e vedono strade autobus e treni, e questi entrano nella poesia come parte della vita e occasioni di incontro e punti di osservazione del mondo. È bello appunto, anche se triste, il Commiato al capolinea dell’autobus, o il passaggio rapido tra un treno e l’altro, o la preparazione di un viaggio amoroso a Parigi (Stampo mappe, verifica percorsi, I preparo la valigia, I con diligenza. Sarà certo in un viaggio la scena spiata delle ragazze che dormono l’una sull’altra, e ancora rimanda a un muoversi con sguardo acuto la strada che percorro ogni giorno o la visione di bracieri agli incroci . Si potrà dire che Paola Novaria disegna ora una sua geografia personale?
Secondo tratto, in prosecuzione ma anche con sicura incentivazione della raccolta precedente, il repertorio delle cose. Qui si afferma un gusto della nominazione, l’esattezza di un inventario che non esclude nulla, perché sa bene che è lo sguardo, e non sono gli oggetti in sé, a determinare poesia. E allora, e forse qualcosa sfugge: antitarmico, rossetto di cera, borotalco, telefono, agende, mezza bottiglia di passito, un sacchetto di nylon, caldarroste, risotto, cipolla, aglio, patate (tre chili), un paio di ciabatte. La scena di una storia, che dimostra appunto quanto possono essere precisi gli ingranaggi della forma che la racconta.
Enrico Artifoni