Beppe Fenoglio e i letterati alla Nutella

Tra martedì 13 e giovedì 15 novembre ‘La casa della letteratura’ di Roma ha ospitato un simposio di critici impegnati su quella irsuta piega di scrittura nota come piega Fenoglio. Pagava la festa la fondazione Ferrero di Alba, ovvero la Nutella. Si può immaginare un triangolo più perverso e improbabile? Eppure s’è consumato perché, come spiega Pirandello, il bizzarro e il miracoloso è l’ordinario nella vita: non è forse stato mandato in Africa Craxi , e non a conquistare Cartagine, e affidata l’Italia a Berlusconi? Ma bando al meraviglioso, e cerchiamo invece di denutellizzare una volta per tutte Beppe Fenoglio. Ovvero sgromargli di dosso la nomea di memorialista della Resistenza: che sta a Fenoglio, per dirla con Angelo Jacomuzzi, come la guerra di Troia sta ad Omero.

Un buon avvio è partire dal primo romanzo scritto dal Nostro: ‘La paga del sabato’ e pubblicato postumo da Einaudi. Del libro due capitoli, extrapolati e ridotti a novella, saranno poi inclusi nell’opera prima di Fenoglio,comparsa nei vittoriniani ‘Gettoni’, ‘I 23 giorni della città di Alba’ (1952). ‘La paga del sabato’ Vittorini si rifiutò di pubblicarla perché romanzo scandaloso ai costumi dei tempi – anche se poi per l’Italia sono sempre quelli: si vedano oggi le barricate cattoliche contro il film tedesco su Lutero.

‘La paga del sabato’ offendeva sia la morale comunista civile pubblica che la morale sessuale cattolica d’ambito familiare privato. Se voleva pubblicare, il Beppe di Alba doveva conformistizzarsi. Ci provò nella raccolta di novelle: ‘I 23 giorni …’, ma mandò in bestia tutto il mondo di postexfassisti letterario, che la Resistenza non l’aveva fatta, e appunto per questo si sentiva in diritto di ragionarne competentemente. E Fenoglio, a riconformistizzarsi scrisse alla maniera del realismo socialista quella straordinaria novella che è ‘La malora’, ma intanto era stato deciso che doveva essere fuori dei giochi della cultura. Era uno che al tavolo dei letterati si scaccolava nello stile scorretto: anche sul realismo de ‘la Malora’ ci fu chi trovò da ridire, accusando l’opera di pessimismo borghese post verghiano. Purtroppo anche la critica letteraria, come tutta la critica, esiste ex post: è fatta per misurare il vecchio, contro gli spigoli del nuovo può solo prendere cantonate, al più arrivando a capire il bizzarro, il singolare, l’avanguardia appunto. Fenoglio è invece di quella linea di scrittura italiana che si fonda sul reale, attraverso una sua appropriazione retorica dichiarata. Fenoglio segue, la sua poetica è quella che Dante enunciò definendo l’arte ‘finctio retorica’. Lo si coglie anche nella minima unità narrativa d’ogni sua pagina: “Allora il Biondo offrì il suo mitra, ma nessuno poteva accettare il mitra del Biondo. Come disse Polo, era come farsi imprestare la penna da Dante Alighieri … – Il partigiano Johnny, X”

Attraverso una retorica di metafore e sintagmi esibita, immediatamente i personaggi si stagliano senza necessità di alcuna belluria di notazione psicologica, che invece caratterizza l’altro grande versante letterario; quello dei mimetisti sentimentali, il cui archetipo nelle patrie lettere è il non perfettibile Francesco Petrarca, dal quale discendono tutti i canoni letterari cortigiani europei, dove uno è il canone umile manzoniano. Di ascendenze petrarchesche però il manzonismo passa per i modelli della lingua e letteratura francesi, ottima lingua e letteratura, ma entro le cose di Francia, paese bigotto anche quando laico: non a caso vinse la rivoluzione giacobina, e per farla sgombrare si ricorse alla più vieta paccottiglia storica: il quinto o diciottesimo remake di impero romano, montando sulla seggetta il Nano, che come tutti gli italiani esterofilo per vocazione, lavorò a far danni al nostro paese (si veda G. Ferrero, Avventure, Guanda 2001), riuscendoci come neanche poi Mussolini. Un’appendice dei disastri Napoleonici è la scrittura manzoniana. Dun Lisander è il primo degli scrittori italiani a tradurre la sua lingua da una lingua neolatina. Fino a lui chi scriveva in italiano, teneva presente il latino: vedi Foscolo, Leopardi, ma Lisander era in testa francese: ecco anche perché sentirà poi la necessità di sciacquarsi i panni in Arno, prendendo, come scrittore, la più incredibile delle cantonate. Il fiorentino è soltanto un dialetto dell’italiano, ma non per dun Lisander quando si piccava di filologia.

Purtroppo, non solo in economia la moneta cattiva scaccia quella buona: la lingua tradotta manzoniana divenne il canone del romanzo italiano; lingua opaca di ‘Piccolo mondo antico” e poi giù giù fino ai Moravia e moravizzanti vari tamarricamente taroccanti, ma ogni vero scrittore la lingua italiana manzonizzata non la accettò mai. Già i tre grandi scrittori post risorgimentali Imbriani, Faldella e Verga lavorarono su strutture sintattiche e su un vocabolario recuperati dalla tradizione del realismo dantesco, poi precisato nella direzione borghese latinizzante dal Boccaccio. Questi tre scrittori produssero un immenso arricchimento sintattico e retorico della nostra lingua ma la critica incrocianita (qualche lodevole eccezione c’è però sempre stata) ha saputo tenacemente non tenerne conto, ormai presa dal gusto bariccato francese. E infatti anche Gadda tribolò a imporsi, ma mentre la scrittura di Gadda recupera le strutture latine dell’italiano, in Fenoglio la contaminazione dichiarata dell’italiano è con la lingua neolatina forse da esso più distante: l’inglese, nella coscienza che l’inglese sta all’italiano come il greco al latino.

L’inglese di Fenoglio è il simmetrico opposto del francese di Manzoni. Manzoni parla il francese perché è la lingua del potere, Fenoglio si volge all’inglese perché è la lingua della rivolta puritana ed è la lingua della nazione più invisa ai fascisti. Già prima di arruolarsi nell’antifascismo militante Fenoglio ha fatto la sua scelta linguisticoletteraria antifascista, a straniare il proprio pensiero dalla retorica occultata nei sentimenti, il velenoso gas tossico mentale che il fascismo diffondeva. L’inglese è per Fenoglio una salvifica maschera antigas, che poi si rivelerà anche il grande filtro contro l’altro velenoso gas che sente diffondersi: la retorica comunista.

Come abbiamo visto, Fenoglio la incontra da subito (Vittorini), nel suo sviluppo di scrittore. Questa retorica lo pone davanti a una scelta, che sarà quella non solo di tutti gli scrittori della sua generazione, ma di tutti gli intellettuali: o aderire alla retorica cattomarxista o l’esilio interno. I più capitoleranno, e ci sarà perfin chi, come Fortini, cercherà di immaginare una retorica marxista tutta sua. Non Fenoglio, esule in Alba che, proprio per il coraggio della sua scelta, come ha scritto Giampaolo Dossena (I luoghi letterari, ed Sugar 1970), diventa negli anni ‘950-60 la capitale della letteratura italiana. E’ un’Italia intellettuale laica nella morsa cattocomunista, vero arcipelago di esuli interni, e uno è Geno Pampaloni, appunto per questo ai miei vent’anni letterari diffamato velenosamente.

Se Fenoglio resta presente nel paesaggio letterario degli anni ‘960-70 è perché Pampaloni lo ha riproposto, come un altro dissidente letterario, Piero Ravasenga (si veda in P. Ravasenga, Roma Divina, ed. Stampa Alternativa, Viterbo 2001). Fenoglio pubblica, su istanza di Geno Pampaloni, da Garzanti, tre capolavori: il libro di racconti ‘Un giorno di fuoco’ e i due straordinari romanzi brevi ‘Primavera di Bellezza’ e ‘Una questione privata’, già postumi, ma ai quali lavorò con il conforto di sapere che sarebbero stati editi.

Secondo una dottrina invalsa, le due novelle non sarebbero altro che capitoli estratti da una grande cronaca partigiana, della quale il Johnny sarebbe il palinsesto. Ipotesi credibile soltanto se le due novelle contengono elementi strutturali comuni al Johnny. Ma se la prima può essere pensata una sorta di prologo all’epopea di Johnny, uno dei più tenaci frequentatori dei manoscritti fenogliani, Lorenzo Mondo, nel suo saggio su ‘Una questione Privata’ per la tre giorni romana della Nutella, ricostruisce il processo di invenzione autonoma della ‘Questione’, attraverso le riscritture, ma così automaticamente confutando la tesi del Johnny palinsesto.

Nella tesi di Mondo però il Johnny diventa un romanzo abbandonato perché l’uomo Fenoglio si stava deideologizzando del mito partigiano, per cui ‘Una questione privata’ è una presa di distanza dalla sua gioventù di resistente, un passo verso la maturità. Ma a questa tesi si oppone la questione del mai scritto capitolo 8, del ‘Partigiano Johnny, del quale sappiamo la trama e del suo contesto, che ha al centro una meditata riflessione sul comunismo nell’Italia della Resistenza.

Se il nemico frontale è il fascista, già nei capitoli d’attacco del Johnny: quelli nella città di Alba post badogliana, mentre è chiaro che si dovrà combattere, il problema è su quali posizioni e per quali traguardi. Fenoglio enuclea il problema attraverso il confronto tra Cocito e Chiodi, ovvero tra cultura marxista e laica. Indicati col loro nome anagrafico, Cocito e Chiodi sono due professori di filosofia, che sono stati maestri di Fenoglio e se ne disputano “l’Anima” mentre stanno entrambi per entrare nella Resistenza. Cocito sarà ucciso dai tedeschi, Pietro Chiodi, poi professore di filosofia all’università di Torino, sarà anche l’autore di uno straordinario libro documento sulla lotta partigiana ‘Banditi’.
Che cos’è questo comunismo che viene avanti: lo si deve accettare o combattere come altra forma di fascismo? Questo è il nucleo speculativo del grande romanzo di Fenoglio. Romanzo perfezionato fino alla frase conclusiva: “Due mesi dopo la guerra era finita.” nella meccaniuca narrativa, ma della cui forma retorica Fenoglio non era soddisfatto, perché il grande tema della questione comunista non aveva ancora trovato l’adeguata formulazione.

Non si capisce il Johnny se non si scorge che la struttura dell’opera è determinata dalla questione comunista: la necessità di indagarla e chiarirla, darne una esatta esposizione e convincente determina i capitoli e i personaggi. Un solo esempio basta a chiarire. Tito è il primo partigiano che Johnny, salito in Langa ad arruolarsi, incontra. Ha sul cappello una stella rossa e Johnny gli domanda: “Sei comunista?”. Altrettanto chiaro è Tito: è tra i partigiani per combattere i fascisti, e a guerra finita non accetterà di essere preso per comunista, anche perché non sa chi siano. Ma poi Tito morto in battaglia, dopo che il prete lo avrà benedetto, sarà sepolto come comunista per ordine del commissario Niméga, al quale Johnny: “Che hai fatto! Tito non era affatto comunista.” Ma Niméga il commissario con perfetto sillogismo gesuitico, a legittimare la bandiera rossa, dove avvolto, è stato sepolto Tito: “Non è la bandiera del suo reparto? … Sia chiaro, Tito è un morto garibaldino, è un morto comunista.” Tutta la scena è di chiara invenzione retorica, battaglia di idee a contestare un processo di travestimento, molto manzoneggiante, della realtà. Nei funerali di Tito l’identità nazionale futura cattomarxista è già individuata. Fenoglio nel Johnny sta ricostruendo un flusso storico che non gli piace. Sta mostrando dentro la lotta partigiana l’altra posteriore lotta in fieri: tra visione laica e dogmatismo clericomarxista. Questo è il grande tema del Johnny, la ragione della sua straordinaria importanza ed il perché l’opera non era finita quando Fenoglio morì. Egli voleva creare con il suo Johnny quel grande strumento esplicativo che mostrasse il rischio, la minaccia in apparizione nella società italiana, che ne è stata travagliata per tutto il XX secolo e ancora ne vive gli ultimi fuochi. L’attacco all’illusione nell’ideologia palingenetica, la necessità di speranza e le sue trappole: questo fa del Johnny un libro straordinariamente importante e di Fenoglio il più grande scrittore della seconda metà del XX secolo, e uno dei grandi maestri della nostra letteratura. Ed è tempo che in questa chiave vada letto e insegnato ai giovani, e così insegnando loro la Resistenza in tutta la sua complessità.

La mente non è il palato: il palato gode della nutella, la mente ne è invece pericolosamente letificata, perché distolta da quella radice del conoscere che Dante definisce amara. E amara fu la radice del conoscere anche per Beppe Fenoglio. E lo è sempre.

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