Una nota in margine al saggio ‘Lo scrittore nel tempo’ di Giuseppe Panella

La nostra sentenza non suona severa. Al condannato è scritto sul corpo il comandamento che ha trasgredito. A questo condannato, per esempio – e l’ufficiale indicò l’uomo – sarà scritto sul corpo ‘Onora il tuo superiore’ . Una condanna che non gli è stata letta, ma il condannato decifrerà seguendo con la percezione fisica del corpo il lavoro di una sorta di stampante ad aghi che gli tatua la norma violata. Così, nella novella, ‘La colonia penale’ Kafka affronta il problema centrale del riconoscimento della propria colpa da parte del reo in una società desacralizzata. Una società dov’è stata uccisa dalla nietzschiana morte di dio la dialettica trasgressione del codice sociale rimorso reintegrazione dell’errante nelia società, che ha la sua summa nella grande scrittura di ‘Delitto e Castigo’ e de ‘I fratelli Karamazov’.

Dopo la dissoluzione culturale dell’anima, inevitabilmente il corpo, la veste transitoria delle società del sacro, nella società desacralizzata deve diventare il centro: tutto sorge e ritorna al corpo, non più soltanto spazio fisico, ma ormai anche ente metafisico. Sì, gli dèi si sono ritirati dal mondo, ma la dinamica del dramma sociale della trasgressione individuale della legge comunitaria non solo permane, acquista forza devastante, bloccati nella società laica i rituali religiosi del perdono.

A discendere da Kafka legge e colpa si istituiscono in quell’unità devastante che san Paolo aveva denunciato nell’elaborazione della dottrina della grazia: “Senza legge non c’è peccato”, sottinteso perché non ci può essere trasgressione, ma un ben più importante elemento san Paolo sottintende: la legge cristiana si fonda sul perdono.

La vera catastrofe della morte di dio è la dissoluzione del luogo trascendente da dove legittimare il perdono, per cui, come nel ‘Processo’ Kafka individua, colpa e legge si tengono in una sventurata unità, dalla quale procederà tutta la grande scrittura del XX secolo, impegnata ad esplorare il nodo legge-trasgressione, secondo quella logica che già era stata al centro della tragedia greca, tra Elettra, Edipo e Antigone; prigionieri, vittime di una legge che fonda l’ordine attraverso l’azione ossessiva sadica di Procuste, forma simbolica mitica della ragion di stato.

La fine del cristianesimo nell’Europa laicizzata del XX secolo porta in primo piano la tragicità della legge, necessaria e soffocante, che in parte la coscienza europea cerca di eludere nell’utopia, la prima e la più tenace delle quali, l’anarchia, fu la tentazione e suggestione sulla quale indugiò, prima di esplorare l’inestricabile dramma tragico del nesso legge sociale destino individuale, lo stesso Kafka; ma la cui scrittura si disloca prima della maledizione epidemiologica dei conflitti nella storia tra individuo e legge, che sta al centro tanto delle tragedie bolscevica che nazifascista, soluzioni illusorie di un dramma che aveva dispiegato il suo scenario devastante già con la prima guera mondiale. Ma proprio come il mito ai tragici greci, la storia offre agli scrittori, dopo la prima guerra mondiale, – tra i dissidenti russi e Naipul, a discendere da Céline e Joyce – lo spazio mentale per una riflessione sulla logica strutturale attraverso la quale la storia trapassa a una fissità tragica, oltre le differenze contingenti della cronaca, nell’incontro sventurato tra l’ente umano naturale e la legge sociale che lo assoggetta a un codice culturale.

E a questa dialettica tragica non è sfuggito neanche il paese europeo che meglio è riuscito, con grande sapienza, a resistere ai bordi della grande temperie che ha sconvolto il XX secolo: la Svizzera. Infatti, generato dal suo contesto sociale, il maggior scrittore svizzero del XX secolo Friedrich Dürrenmatt (1921-90), ha esemplarmente percorso la devastante frattura tra legge e individuo entro la propria società, facendone il motore immobile di tutta la sua straordinaria vicenda di narratore. Giuseppe Panella (Lo scrittore e il tempo, ed Solfanelli, pp 95, € 7) ce ne offre una sintetica ricostruzione di grande forza incisiva, perché l’assunto teorico del nodo legge sociale destino individuale, formalizzato attraverso l’uso mitico della storia, – così ridotta a subalterno elemento didascalico del destino individuale – è ricostruito per illuminanti citazioni testuali dalle opere di Dürrenmatt , verso l’icastica constatazione: “La realtà della sua opera risiede tutta nella sua conclamata e irrimediabile irrealtà.’

A questa conclusione Giuseppe Panella, docente presso la Normale di Pisa di estetica, giunge da una scrittura che ha l’andamento del libello, e proprio mentre svolge una serrata analisi letteraria, il cui maggior risultato è, almeno per lo scrivente, di costringe irresistibilmente a riprendere in mano i testi di Dürrenmatt; di ritornare a un grande scrittore, che ha svolto la sua ricerca sull’uomo nella coscienza della profondità dei conflitti che dilacerano la psiche umana mentre prende forma sociale.
Sono lacerazioni tragiche inevitabili, quando la rassicurazione di una dogmatica teologica non è più capace di un articolato rituale religioso formativo delle coscienze individuali. Quale allora la soluzione dopo che l’intelletto umano ha ridotto la Legge di Dio al letto di Procuste della ragione?

A ognuno la risposta che si vale, di suo il bel saggio di Giuseppe Panella ci ricorda che Dürrenmatt ha individuato, dato forma alla sua scrittura, nella coscienza che se la soluzione dell’enigma ha salvato nell’immediato Edipo, è stato soltanto per calarlo più crudamente nel disperato dramma che è l’esistere.

Piero Flecchia

CONDIVIDI