L’Islam secondo Salman Rushdie

I nostri circoli intellettuali, si declamino di destra o di sinistra, sono sostanzialmente “codisti”; e codisti di quella cosa arcicodista strutturalmente, che sono i politici.

Il codismo della nostra cultura è la conseguenza di una sua ingenua e patetica volontà di appartenenza, che ne ha cancellato il tratto originario, la ragion d’essere di ogni scrittura: il pensare in proprio e non al servizio di un qualche progetto di redenzione, la dcui irresistibile tentazione fa dei nostri scrittori, a discendere da Pasolini, dei neopatristi, la più parte orfani d’una patria spirituale linguistica italica.

Questa morte della capacità di giudizio autonomo rende disperatamente impegnati – fatte salve le poche eccezioni, ma così eccezionali che bisogna cercarle con perfin più tenacia che Diogene l’uomo – i nostri scrittori a mascherare, occultare, trasformare i conflitti reali, invece celebrando come immani scontri epici le varie sottosezioni di quella vera batracomiomachia nostrana che è il duello Prodi-Berlusconi, Ulivo-Casa delle Libertà, i grandi conflitti del mondo, cose di un altro mondo.

E del conflitto centrale del nostro oggi: quello tra islam e occidente, tratta da sempre la scrittura di Rushdie, dalla quale infatti la nostra critica militante si è tenuta sempre decisamente alla larga e dunque anche dall’esemplare momento di riflessione su questo conflitto Islam-Occidente che è il suo recente romanzo – Salman Rushdie ‘Shalimar il clown’ ed. it. . Mondadori, pp 472, euro 19 – romanzo pensato e scritto dopo circa un decennio di attive persecuzioni islamiche alla persona fisica dall’autore dei ‘Versetti satanici’, che solo per aver accuratamente evitato l’Europa continentale ed essersi affidato alla protezione anglosassone ha evitato la fine di Teo Van Gogh.
Ma che cosa le pagine di ‘Shalimar il clown’ contengono di così inaccettabile per la nostra cultura accattopostcattomarxista?

Per comprenderlo bisogna coglierne l’elemento cardine, il tratto che la caratterizza la nostra cultura lazzarona: l’idea di un interetnismo dove le differenze convivono armoniosamente e reciprocamente si rilanciano e sostengono. Il romanzo di Rushdie è invece la più radicale negazione di questo asserto, che la Casa delle Libertà condivide con i pacifondai più sfrenati, e che ha il suo grande sacerdote officiante nel papa.

Per la nostra cultura Islam e Occidente sono destinati a convivere, per Rushdie il conflitto non solo è inevitabile, ma è già in corso e il suo racconto ne è la veridica metafora, felicemente compendiata ed emblematizzata nel protagonista ed eroe eponimo della novella: Shalimar il clown, allegoria trasparente dell’Islam, religione nei suo tratti, all’analisi della ragione, essenzialmente comica e apparentemente conciliante, ma che poi si rivela aggressiva e determinata fino al genocidio davanti a culture etniche diverse.

Dalla vittoria del Cristianesimo, per sfuggire alle persecuzioni, modelli di verità dissenzienti, in Occidente, e con particolarmente complessa articolazione nel nostro Medio Evo, svilupparono un sistema di simboli e allegorie a trasmettere insegnamenti eterodossi rispetto al canone cristiano. Anche Rushdie in questa sua novella ritorna alla medioevale pratica dell’occultamento esoterico dell’insegnamento profondo, della verità ultima, fatto cosciente del rischio del dire la verità expressis verbis, dopo il violento attacco patito dai settari islamici. Questo occultamento non riesce arduo da progettare a Rushdie, uno straordinario narratore, la cui scrittura si disloca sul versante della complessità barocca, del piacere del gioco narrativo, a mutuare dalla nostra tradizione, gaddianamente portato alle divagazioni, al gusto per il dettaglio, e inevitabilmente l’inciso. La divagazione irrompe e frammenta il ritmo della narrazione, i personaggi minori, gli episodi periferici soffocano e occultano il tema narrativo centrale, che solo la vigile attenzione del lettore riesce a tener presente come elemento centrale, insegnamento ultimo e vero.
Proprio per questa sua tendenza alla complessità e alla cura nei dettagli, senza la sottolineatura nel titolo, difficilmente il clero sciita si sarebbe accorto dei contenuti eversivi anticlericali dei celeberrimi ‘Versetti satanici’, ma le vicende umane hanno svolte e percorsi ben bizzarri, e infatti mentre Rushdie, scrittore sostanzialmente per pochi, è diventato il grande nemico dell’Islam, Naipaul, lo scrittore che di questa religione ha tracciato il profilo più crudo e inquietante, non ha patito interdetti.

Questi due scrittori, le loro opere ci insegnano che il pericolo islamico è la coerente conseguenza della capacità della dottrina coranica di promuovere elementi marginali a detentori di una verità ultima e decisiva e quindi di renderli strumenti subalterni di una classe dirigente islamica metropolitana meccana che si sente minacciata dalla laiczzazione e che per sopravviversi e continuare a dominare tra i credenti deve rilanciare la funzione religiosa integralista.

Questo ribadisce anche la storia di ‘Shalimar il clown’ al centro del cui meccanismo narrativo c’è il deliberato ritorno al più universale e classico tema della fabula: mette in movimento e regge la vicenda una storia d’amore, scientemente consumato l’atto sessuale per iniziativa della ragazza.
Shalimar e Boonyi sono due adolescenti di uno stesso villaggio del Kashmir, ma lei di religione e cultura indù e lui mussulmana.

All’inizio la loro relazione si muove su un puro fondamento naturale erotico sessuale, nel quale, per gradi e per pressioni esterne inferiscono i modelli culturali, che rendono progressivamente estranei e poi nemici i due amanti e poi sposi.
Il mondo chiuso del matrimonio e della morale tradizionale, della quale l’Islam è la forma semplificata ultima e definitiva, ben presto la giovane donna li sente intollerabili. Decide di andarsene, sentendosi sempre più estranea al mondo del marito, di professione comico, ovvero l’arte che esige maggiore disciplina e comprensione della natura umana, ma anche una sua unilaterale semplificazione, da qui l’identità comicità Islam, religione della semplificazione.
Lei seduce un europeo-americano, che la ingravida, e alla fine del libro la figlia di Boonyi, dall’emblematico nome di Kaschimira, e Shalimar il comico, intanto diventato terrorista, si troveranno di fronte in un duello mortale.

Trasparentemente siamo davanti al duello mortale finale tra l’Islam e la civiltà indoccidentale, perché per il Nostro nessuna soluzione di compromesso è possibile tra l’Islam e l’altro mondo, ma Rushdie ha imparato la necessità della scrittura criptica, della quale ‘Shalimar il clown’ è un notevole esempio, il meccanismo della narrazione percorso da riflessioni e divagazioni, morali e storie tutte di notevoli suggestioni, ma che si rivelano tutte, entro la logica del racconto, false piste, maschere e occultamenti, ma anche a un tempo indicazioni criptiche.
Esemplare è l’identità, debole e manifestamente falsa, e Rushdie per primo ne è cosciente, tra la storia del Kashmir, terra di confine tra culture indostana e islamica, e l’Alsazia, antica provincia dell’impero germanico, che la Francia del re Sole si annette, avviando poi il lungo processo di assimilazione culturale francofona, dov’è l’uovo del drago che partorirà due guerre mondiali e la fine dell’egemonia europea.

Il conflitto per l’Alsazia fu un conflitto tra due nazionalismi, che nei loro giochi di alleanze sconvolsero il mondo, e che nei momenti di peggior delirio pensarono di poter dominare il mondo intero aut francesizzandolo aut germanizzandolo. L’Unione europea è la svolta paradossale, il gioco con il quale la storia risolve il nodo e lo dissolve. Può la follia islamica di dominio planetario conoscere la stessa svolta? Rushdie lo auspica, ma romanziere non utopista e non politico, nel contempo constata la tenace suggestione degli islamici di impadronirsi del mondo, ridurlo al dettato coranico. Ecco perché molta parte e attenzione della narrazione segue le vicende della guerriglia terrorista islamica con scrupoloso realismo.

Un realismo tatticamente impiegato dall’autore a nascondere la natura metaforica della vicenda dei due amanti, la cui storia non ha quasi dimensione psicologica, i movimenti che ne scandiscono le vicende, – fino alla separazione e alla grande trasformazione in odio del grande amore di Shalimar per la sposa traditrice – sono tutti costruiti entro lo spazio del mito dalla parte della donna, mentre per l’uomo la fede come rancore e volontà di giustizia diventano i tratti totalizzanti di una guerra religiosa infinita per la sottomissione della natura.
Dopo la caduta del comunismo, che si pensava superamento e crescita spirituale della civiltà borghese laica di matrice illuminista, dall’ultimo decennio del secolo scorso l’Occidente si è trovato davanti a un antagonista ancor più deciso a proporre una propria soluzione alternativa totalitaria: l’Islam.

La cultura occidentale, sia nel corno europeo che atlantico, non sembrano voler prendere atto di questa sfida, la cui coscienza profonda ci viene portata da scrittori di confine come Naipaul e Rushdie. Questo è il valore e il contributo delle loro opere, una delle quali appunto ‘Shalimar il clown’, che pur nella sua forma insistitamente simbolica, nelle sue divagazioni e barocchismi si rivela capace di contenere informazioni decisive sulla realtà nella quale viviamo, a differenza dei vari racconti della letteratura nostrana corrente, troppo spesso neanche provinciale, solo fatuamente cosmopolita alla maniera della cucina dei grandi alberghi, come appunto le opere finaliste del recente premio del PEN club, della cui sezione newyorkese Rushdie è una colonna, ma a dire quanto poco basti e conti l’appartenenza a fare uno scrittore.

Piero Flecchia

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