Una ricostruzione supert partes, si tenta, della guerra civile cul-tura(r)e grattaucciellesca

In questo trascorrente novembre 2007, tra ipotesi di nuove leggi elettorali, riduzione, ma per i prossimi governi, del numero dei ministri e della spesa pubblica, il contributo di Torino alla malmostosità nazionale ha una sua originalità forte, il cui racconto vorrebbe però, a darne adeguata esposizione, un genio quale il Tassoni della ‘Secchia rapita’: ci proverà il modesto cronista.

Nella fu capitale del defunto regno sardo il political-pettegolaio verte sulla capitale domanda: è legittimo che si tirino su due grattacieli: l’uno per gli uffici della regione, di Fuksas il progetto, e l’altro per iniziativa del gruppo bancario San Paolo Intesa, progetto di Renzo Piano, e quest’ultimo, pare, sfrontatamente più alto della Mole.

Dicono il più fermo no: non meno decisi nel loro no di Gesù al diavolo, di Mastella al referendum elettorale, ecologisti, sinistristi altri vari e gente di raffinato amore per la tradizione vernacola, cui si giunta, contro il progetto Fuksas niente meno che l’altissima voce della sovrintendenza, in ragione del fatto che questo grattacielo andrebbe a fare ombra al complesso del Lingotto, ombra fisica però possibile solo con un crepuscolare sole nordico, perché la costruzione dovrebbe sorgere alle spalle e a circa un chilometro dalla fabbrica progettata da Matté Trucco agli inizi del XX secolo.

Mentre il corposo no complessivo ai due progetti di grattacielo tumultua per articoli di giornali, conferenze stampa, interventi televisivi, intanto si scopre che i progetti di grattacielo non sono due ma tre; il terzo in collina, altri duecento metri di torre, questi a raccogliere le varie antenne televisive radiofoniche e telefoniche pubbliche e private, a concentrare l’inquinamento elettrostatico in una sola area. Lo schieramento dei no anche alla terza torre, che non ha ancora avuto il tempo di mettersi assieme, è però già vasto quanto le ragioni degli altri due perentori no, motivati essenzialmente dalla decisiva ragione estetica che le due torri altererebbero il profilo sotto il cielo della città. Una tal obiezione non vale neanche le teste da niente che l’hanno pensata: una città è viva fin quando muta il suo profilo, o a dirla in gergo modaiolo “skyline”; poi decade, diventa spazio archeologico, come appunto archeologia del comico involontario è la tesi che a Torino le costruzioni non debbano superare in altezza la Mole Antonelliana.
La questione del contendere deve quindi, è giocoforza, essere altra, ma travisata dall’informazione.

Partiamo kantianamente dalla cosa in sé del contendere: il grattacielo. Che cos’è se non il monumento uno e trino all’avidità (speculazione edilizia) alla povertà di possibilità ideative in ragione del vincolo della forma prismica, che al più può essere stranizzata, ma non innovata, e all’imbecillità di massa ben orchestrata dai soliti pochi felici F.d.P. che i grattacieli progettano, edificano, vendono a proprio vantaggio ma ben guardandosi dall’usarli in proprio, preferendo per lavorare e/o viverci appartati edifici, di bassa skyline, Renzo Piano docet. Che poi un Donald Trump racconti di abitarci, fa parte dell’angelologia pubblicitaria alla Sgarbi, praticata non già a proprio vantaggio sulle spalle dei gonzi, ma per produrre quel necessario materiale grezzo che poi i grandi geni – gli Aristofane, i Giovenale, i Boccaccio, i Gogol e Imbriani – alchimizzeranno alla Tassoni in grandi pagine letterarie. Questo in metafisica, scendendo al pratico il punto è: vogliamo noi torinesi risultare da meno: meno speculatrivi dei milanesi, dei romani, dei padovani, dei bolognesi, che di grattacieli ne promettono allo stivale almeno venti? E noi non fare ventidue?

E poi abbiamo anche una ragione di rispetto umano verso i progettisti per sostenerne la realizzazione. Tanto Fuksas che Piano a Torino non hanno trovato né il loro architettare, né il giusto riconoscimento; Fuksas con il suo baraccotto posto ad abbellire il più grande mercato all’aperto d’Italia danneggiato dal burocratismo, Piano invece per meno chiare ragioni di filologia progettuale, ma entrambi hanno diritto a una riprova, e soprattutto Renzo Piano, il cui locale manufatto architettonico insigne, la pinacoteca Marella e Gianni Agnelli a forma di cupola, è una cosa che, almeno in rapporto al luogo su cui svetta, non ci sta.

Il Lingotto è un capolavoro di architettura industriale, forse anche perché l’allora cavalier Agnelli ragionò solo in termini di funzionalità, puntando su un ingegnere impegnato a una totale subalternità dei materiali alla funzione. Le ragioni della statica dei materiali (cemento armato) e dei carichi da sopportare, definitori nel calcolo strutturale, determinano lo stile del Lingotto, la cui volumetria è scandita da forme geometriche lineari, il corpo principale due prismi inseriti l’uno nell’altro a creare una grande T, nella percezione visiva del cui sviluppo volumetrico prevalente è il dispiegarsi frontale, insieme definito da linee rette; e che cos’ha pensato Renzo Piano? Di porvi sopra una cupola: sul tettopiano della copertura, dov’era la pista di collaudo delle auto, la cui costruzione procedeva in progresso, piano dopo piano, risalendo nei viscere della fabbrica, per sbucare, ultimate, sulla pista di prova.

Fortunatamente, a una visione dal basso, la linea della costruzione resta intatta, ma da tutte le mansarde che affacciano, e attici, sulla prospettiva larga della città verso ponente, quella cupola sovrapposta è ostrogota rispetto al piano di appoggio. Fin dalla prima volta che l’ho vista – dalla terrazza di un amico, che me la vantava arricchimento clamoroso del paesaggio cittadino -, osservando la cosa in tanto clamore elogiativo, non mi sono sentito di dire che a me la coppolotta, a dirla in geroglifico ieratico, sembrava tanto, nella prospettiva della costruzione dov’era appoggiata, entro la cosiddetta “skyline” cittadina, una di quelle tortificazioni che impellenti necessità canine, ma a volte non solo, depositano sull’asfalto urbano. E che non solo a me sia venuto quell’accostamento l’ho carpito l’altra sera in una conversazione in tram tra due giovanotte architettanti la loro serata. L’una diceva all’altra, in brutale demotico nostrano, di essere andata quel pomeriggio a vedere una mostra d’arte africana dentro “lo stronzo”. E di mostre d’arte africana in città c’era solo quella allestita dentro la coppolotta di Renzo Piano, la cui simbolizzazione, o metaforizzazione linguistica, tira verso quella non dignitosa immagine. Appunto per questo mi sembra che l’illustre architetto, come il collega Fuksas, abbia diritto alla riprova, e così vedremo se partoriranno di meglio, anche se i loro parti sotto il cielo fossero sventuratamente più alti della mole Antonelliana, e non così memorabili come l’opera dell’Antonelli.
E anche per altre due sode ragioni mi sembra vada riconcessa la licenza poetica, pardon architettonica, ai due magni ingegni.

La prima è che se anche fossero due altri dei tanti anonimi grattacieli che sorgono qui e là, a Torino non disturberebbero particolarmente: e per una ragione ben precisa. Anzi, due.
Torino ha un esemplare impianto urbanistico tardo ottocentesco, che le ha permesso un flessibile sviluppo nel novecento industriale, in qualche modo riscattato anche nelle sue brutture dalle scansioni dei rettifili alberati; che aprono su due scenari opposti e dissonanti come soltanto possono essere una linea gobbuta di colline e il chiudersi avvolgente della volumetria cubista della chiostra alpina. Gli urbanisti dell’ottocento hanno sapientemente usato l’architettare locale della natura, come scenario alle grandi linee alberate dei corsi, ancora oggi capaci, se non di salvare dalla, di certo almeno attenuare nella città i disastri dell’automobilificazione. Si aggiunga che nella prima metà del ‘900 un buon liberty e una certa attenzione al dettaglio di bravi architetti modernisti – si pensi al perfetto palazzo degli uffici di Riccardo Gualino, centro direzionale del suo impero economico confiscato dal fascio, ma edificio che negli interni il comune ha deturpato e oggi pensa di vendere per sostenere piccole cialtronate pseudoculturali – hanno tirato su accondominiamenti a volte perfin accettabili, ed episodicamente riusciti, solo obbrobrio, ma che in qualche modo riportava nel centro storico l’impianto urbanistico ottocentesco, la retorica della piacentiniana via Roma, dove si coniugano, a ribadire: nulla di nuovo sotto il sole, l’epica dell’ignavia politica, allora marca stupidità fascista e l’avidità immutabile della speculazione edilizia, capintesta d’allora il senatore Agnelli. E ancora negli anni ‘950 la città realizzò, con ‘le Vallette’ uno dei pochi quartieri di edilizia popolare italiana accettabili, va da sé senza altro luogo di socializzazione che la chiesa, ma quella era un’Italia tutta benedettina: ora et labora, perfin far la spesa perdere tempo, e così alle Vallette non solo niente cinema, palestre, ma neanche niente negozi. Ed ecco che da una carenza di aggregazione sociale, gli insediati trassero il tempo necessario per creare degli orti, vuoi affittando, vuoi acquistando, piccoli lotti di terreno agricolo, quando non occupando proletariamente pezzi di suolo demaniale, avviando proprio dalle Vallette un grandioso fenomeno di orticoltura periurbana spontanea, che regola corsi di torrenti, avvolge la tangenziale e abita gli argini dei tre fiumi minori, il fenomeno originale della periferia torinese, anche se poco studiato e spesso avversato dalle varie amministrazioni politiche d’ogni colore.

Dagli anni ‘960, con la vittoria della linea rosso PCI, urbanisticamente tutto cambia. Non che si edifichino luoghi per spazi sociali alle Vallette; non esageriamo con il dirigismo bolscevico, bastino a socializzare gli orti creati dai singoli, ma c’è in compenso, ad opera dell’amministrazione rossa, con un sistematico e ragionato recupero del centro storico, l’invenzione delle lillipuziane ed episodiche ciclovie dove due bici affiancate non ci stanno, e l’epica delle sedicenti metropolitane di superficie, che frammentano lo spazio urbano, nonché il buonsenso cittadino con una pura logica propagandistica orweliana. È vero che, proprio come ai due grattacieli oggi, c’era allora e c’è ancora chi in città guarda soprattutto al meritevole recupero del centro storico, il solo tratto concreto che sopravviva di quel vero tsunami propagandistico che fu l’urbanistica piccista, da una “skyline” cultura sbagliata. Vede berlusconianamente in quel recupero la più riuscita operazione di speculazione edilizia in un grande centro storico, portata avanti dalle varie giunte Novelli, appartamento per appartamento, occupando tutti gli spazi lasciati liberi dall’immigrazione meridionale, che dal fatiscente centro storico nel decennio 1970 migrava – investendoci risparmi e foraggiando via mutui le banche – in più vivibili condomini di periferia, tirati su dall’imprenditoria privata, visto che di edilizia popolare non se ne faceva più, se non nella forma di cooperative per gerarchi e gerarchetti della politica e papaveri e papere della burocrazia.
La skyline rossa decide poi, dagli anni ‘Novanta del secolo scorso, dopo aver cooperato ad affossare l’industria cittadina, di lasciare un segno nelle intanto dismesse aree industriali. Anche qui un progetto di riqualificazione speculativa, teso a distorcere l’impianto urbanistico ottocentesco della città, con una devastazione degli edifici della produzione d’officina: solo per affarismo il Lingotto è sopravvissuto.

A discendere dai non meno memorabili capannoni dell’officina Grandi Motori, che sono per diventare memoria tramandata dalla fotografia, a Torino la lista degli scempi architettonici, e soprattutto urbanistici è particolarmente lunga e squallida. Un solo esempio: la memorabile cosiddetta spina Uno, con la sua serie di vere vergogne di arredo urbano, dove svettano le gradi H tubolari di Cagnardi, che riescono a esaltare a manufatti architettonici felici perfin le ville pollaio progettate in Italia dai tanti geometri cadastrari per i fratelli ragioniercommercialisti o cognati farmacisti. Tutto l’orrevole della cosiddetta filosofia architettonica dell’arredo urbano trova la sua celebrazione sull’epica spina Uno, segnata dal peggio delle opere di grandi artisti quali un Merz e contornanti ciurmagliatori dell’arte di regime. La spina Uno è il nulla architettonico che si coniuga con il nulla urbanistico a realizzare prezzi esorbitanti per le abitazioni, fatto salvo il principio che per tutto il suo sviluppo non ombra di edilizia popolare a offenderne l’imbecillità decorata. Il grattacielo Piano dovrebbe inserirsi lì, a circa cinque chilometri dalla Mole; dunque danno non ne potrà fare, al più ammeliorare.

A favore dell’edificazione del grattacielo Piano c’è poi un’ancor più forte ragione aggiuntiva: costerà un sacco di soldi alla committenza, ovvero al San Paolo; che almeno tre volte, tra inflazione e sballo dei titoli fondiari, ha saccheggiato il risparmio della città nella seconda metà del secolo scorso, e in questo con i tangobond e le obbligazioni Parmalat. Dunque, viva il grattacielo di Renzo Piano, purché sia alto alto, a costare alla banca caro: molto caro. Ma attenzione: quando la committenza della Mole, la comunità ebraica, si accorse che le spese salivano troppo, andò dal re, pianse, perorò, e i costi furono rovesciati sulla città. Non vorremmo che andasse un’altra volta così con la torre del Sanpaolo, mentre così già sta andando con il grattacielo della regione, circa il quale da cittadino piemontese, ergo cointeressato concretamente all’edificio, mi sia concessa una sommessa considerazione a partire dalle proprie esperienze ottiche newyorkesi, dove, presi a uno a uno, perfin i più bei grattacieli restano ognuno segna di dismisura. Soltanto il loro concertato li riscatta attraverso il reciproco rispecchiarsi e il paesaggio che creano a percorre le strade lungo le quali sorgono. Nulla è segnale più certo di dismisura di un grattacielo da solo, ma che diventa una dismisura inquietante quando il grattacielo appartiene a e connota un’istituzione pubblica, perché un edificio ha sempre una funzione anche simbolica, e che diventa preminente in un edificio pubblico.

Un edificio pubblico ha prima ancora che un ruolo funzionale sempre un ruolo simbolico, in quanto la sua forma esprime l’idea di potere dell’istituzione che lo ha realizzato. La regione Piemonte dovrebbe essere una istituzione garante di una piena democrazia realizzata, ergo di un potere diffuso sul territorio, del quale i politici non sono né i garanti né i depositari, ma solo gli esecutori, entro un disegno comunitario condiviso. Ebbene, si può progettare un edificio più chiuso in sé, che segnali una più netta separazione e gerarchizzazione della realtà di un grattacielo, e quindi nella sua dimensione simbolica qualcosa di più lontano dalla realtà democratica? Nel pensare le sue strutture, o contenitori funzionali, una classe politica democratica avrebbe potuto volgersi alla forma grattacielo soltanto in una situazione di povertà di suolo edificabile, ma lo spazio dove sorgerà il grattacielo della regione Piemonte è un’ampia spianata di terreni degradati dalla post industrializzazione, già officine della FIAT Avio, nella più parte, e dove si staglierà, attraverso l’occhio, nella coscienza dell’osservatore come dismisura. Soltanto una volontà egotica puerile fondata su una autosupponenza adolescenziale che immagina il potere politico oltre e sopra i cittadini, poteva condurre la dirigenza della Regione, capintesta Mercedes Bresso, a pensarsi formigonescamente al sommo di un grattacielo, dal quale dominare anche fisicamente tutto il territorio.
E infine la forma grattacielo come soluzione architettonica è anche un pensate limite all’invenzione del progettista. Un Fuksas, lasciato libero di creare, stante la disponibilità di suolo, avrebbe potuto svolgere tutto il suo genio ideando in uno i luoghi della politica accadente e quelli della sua memoria storica, tra biblioteche e musei e spazi verdi, in una contiguità simbolicamente significativa, e che la soluzione grattacielo esclude. Peggio, tradisce una volontà di chiusura castale del sedicente ceto dirigente. Ecco perché speriamo che la sovrintendenza non receda, rifiuti l’oggetto grattacielo dove parla l’idea simbolica di una politica-obelisco faraonica, che si impone, e oppone al costituirsi di una identità collettiva dal basso. E poiché ormai la pagina è andata verso l’utopia, concludiamo in chiave di accentuazione utopica, proponendo al SanPaolo-Intesa questa non irragionevole intesa con la città, a slanciarne la “skyline”: che il bel manufatto grattacielesco di Renzo Piano sia completato con la sua coppolotta oggi al Lingotto: un prefabbricato, ergo facilmente smontabile e ricostruibile, e così, piano dopo piano, il grattacielo risulterebbe di Renzo Piano fin in quel culmine cupolare. La cupola, se messa ad apice al grattacielo, non saprebbe più suggestionare la volgare metafora fecale nell’occhio che osserva, ma felicemente goduriosa allegoria fallica, vuoi per le architettanti serate di festa, vuoi per quanti ascenderanno in simmetriche altitudini e fisiche e spirituali ai capolavori e alle mostre della pinacoteca Marella e Giovanni Agnelli.

Piero Flecchia

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