La nostra InterSvista a Roberto Pazzi

D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
– Bisogna intendersi sull’espressione scrivere “da professionisti”. Se si intende scrittori di successo, temo che il talento innato non basti, ma occorra anche un’abile capacità di relazioni, l’attitudine a trovare appoggi e protezioni, tutta una serie di elementi tattici che guastano la purezza dello scrittore, la sua autenticità. E tutti elementi che, da vivo, possono giovargli, ma quando non ci sarà più cadranno, e la pagina rivelerà da sola quanto artificio e abbaglio avesse catalizzato l’attenzione positiva del suo successo. Il tempo rende giustizia a chi vale, ma fa anche giustizia di chi non vale.
Se invece scrivere “da professionisti” si intenda da veri scrittori, dico che il talento innato è fondamentale, ma un minimo di fortuna aiuta, come l’ambiente in cui uno si trova a scrivere, l’epoca storica, la nazione in cui vive e il suo regime politico. I regimi totalitari non aiutano per niente, anzi mortificano la scrittura, tanto per fare un esempio. Anche se è vero che non essere liberi di dire il proprio pensiero paradossalmente si è rivelato a volte una fortuna perché ci ha dato scrittori del calibro di Tacito e Bulkagov, costretti a inventare uno stile oscuro ma potente e una fabula molto originale per alludere al proprio tempo. 

D. Su per giù quanti libri hai letto, e quanto ti sono stati utili per poter scrivere?
– Ne ho letti molte migliaia, non saprei quanti di preciso. In casa ne ho circa ottomila. Leggere gli altri è fondamentale per scrivere i nostri libri. E’ il gusto che fa la scelta. Non ho mai amato le avanguardie, ma sono sempre stato attratto dai classici di ogni tempo.
Mi sono stati utili tanti autori, soprattutto classici, greci, latini in primis, come Omero, Platone, Saffo, Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, Luciano e poi Lucrezio, Catullo, Orazio, Cesare, Virgilio, Tacito, Apuleio e poi autori delle letterature romanze e moderne. Ma anche la letteratura orientale, come quella giapponese mi ha molto arricchito, se penso a Mishima, Kawabata e Tanizaki, sommi maestri nell’arte di esplorare l’animo umano, soprattutto sul mistero dell’eros.
Riconosco quale sia stato il più influente sulla mia opera, legata com’è al problema del Tempo e delle trasformazioni che compie in noi : Marcel Proust. Poi ci sono il magico realismo di Garcia Marquez, il fantastico di Bulgakov, e poi Dostoevskij, la Yourcenar, Buzzati, Leopardi, Petrarca, Dante, Mann, Shakespeare, Ariosto, Kafka, Rilke, Tolstoij, Canetti, Manzoni, Salinas, Saba, Penna, Pasolini, Montale, Foscolo, Pascoli, elencandoli non in ordine di importanza, né temporale, ma per libera associazione di sintonia.

D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perché?
Penso che la poesia sia la forma espressiva che più mi seduce, per il carattere di sintesi fulminea che può possedere. Facendo mia una metafora di Heidegger, la poesia è un sentiero di alta montagna, solo per buone gambe, se la narrativa è una autostrada per un’ auto di media cilindrata. Il sentiero di montagna porta a godere la vista di paesaggi più rari e impervi, conduce più in alto… ma occorrono una lena e una forma fisica particolare, non comune a tutti. La narrativa è accessibile a tutti, o quasi, per chi dotato di patente d’auto si contenta di vedere il paesaggio di volata, dal finestrino, senza entrare in mezzo alla natura.

D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
– Ma certo, i tempi cambiano, e con i tempi mutano la lingua, lo sfondo storico, i mezzi di comunicazione.
Sono sicuro che in qualche modo internet e il computer abbiano cambiato anche la scrittura letteraria. Calvino nelle lezioni americane ha dato una bella radiografia delle condizioni moderne della scrittura. 

D. Di chi è la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
– Di nessuno, a parte forse la scuola, anche se fa quello che può. Ma è il carattere degli italiani che li porta a leggere poco. E’ un carattere estroverso, teatrale, abituato più a vivere all’aperto in piazza, che in camera, da solo, a leggere in silenzio. Gli italiani sono quello che sono perché figli del clima del “giardino dell’Imperio”, mite, solare, adatto a vivere all’aperto, nelle vie, al bar, alle feste patronali, alle sagre, ai riti di massa dello stadio dove corrono a tifare i loro eroi del piede. Gli italiani preferiscono parlare più che leggere… un poco come i Greci e gli Spagnoli, grandi ciarlieri, poco introspettivi, poco etici, piuttosto superficiali, emotivi, teatrali. Bisogna andare a nord, nei rigidi climi baltici e slavi per incontrare lettori forti, inclini a restare in camera, a leggere e a capire attraverso la scrittura come sono fatti gli esseri umani… Perché la lettura esige due condizioni che sono poco congeniali agli italiani, sapere stare soli e saper stare in silenzio.

D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
– Premesso che questo caso non mi è ancora successo, e sono abituato se mai più al contrario, anche se mi è capitato di godere l’uno e l’altro, lo vivrei come una manna per il portafoglio… in attesa di rifarmi e vendicarmi col prossimo romanzo.

D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
– Con l’ editore Livio Garzanti fu di paura, meno rapporti avevo con lui, più mi sentivo garantito per l’esito dei miei libri. Aveva l’inconscia idea di essere più bravo dei suoi autori, avendo alcuni romanzi nel cassetto che poi pubblicò, due da Longanesi e uno da se stesso. Quindi se stimava un autore, entrava in una crescente competizione, era meglio mediare con l’aiuto del direttore letterario che era il bravissimo Piero Gelli. Parise scrisse un romanzo sui suoi tormentati rapporti con Garzanti, Il padrone.
Il mitico e abilissimo Mario Spagnol, della Longanesi, ti amava solo se vendevi molto, non appena si accorgeva di un declino nelle vendite, a poco a poco cominciava a trovare mille rilievi da fare al libro, ma erano pretestuosi… la verità era l’altra, quella economica, non quella stilistica.
Carla Tanzi della Frassinelli era adorabile, sapeva contemperare qualità e quantità, gusto e commerciabilità dei libri, con lei mi trovavo benissimo. Cercava sempre la collaborazione con l’autore anche nella scelta delle copertine, per fare un esempio. Era capace di opporsi al direttore del commerciale se un autore non vendeva molto, ma aveva ottima critica e molte traduzioni all’estero.
Marina Berlusconi, quando comprando la Mondadori divenne padrona anche della Frassinelli e Carla Tanzi era già malata, non più al timone della casa editrice, impose il primato della direzione commerciale su quella letteraria, con le conseguenze che possiamo tutti immaginare, sullo scadimento delle opere. Solo i piccoli editori con molta fatica potevano tentare di difendere la qualità contro la commerciabilità. Io stesso sono nato con un piccolo editore, Marietti, nel 1985, poi sono passato a Garzanti, Longanesi e Frassinelli.
Con gli editori di oggi il rapporto è meno personale e continuo di quelli che avevo con gli editori di trent’anni fa, stretti come sono da una situazione sempre meno facile per il mercato librario. E poi non sono più editori padroni, come una volta, quando Garzanti e Bompiani dirigevano case di loro proprietà, oggi sono membri di un gruppo, funzionari che quindi devono sempre rispondere a qualche capo di quel gruppo. Non possono imprimere una linea editoriale personale. In generale direi che gli editori con cui ho iniziato la mia attività di romanziere e poeta, tendevano a seguire tutto, a prendere posizione su tutto, mentre quelli di oggi devono delegare molto spesso ai loro collaboratori. Ma li capisco, la situazione è molto cambiata in 30 anni. 

D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
– Direi in egual misura, siamo uomini, non dèi. 

D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica o ad una lobby culturale?
Certo che incide. Il conformismo di sinistra non è ancora vinto, rimane forte ad aiutare i Baricco, i Veronesi, i Camilleri. L’Italia è un paese in cui conta far parte di qualche giro, da soli è molto molto più difficile farcela, se la RAI è lottizzata dai partiti, i media in generale lo sono tutti, compreso Mediaset.
Ci si mette pure la Chiesa, con le sue tv e l’influenza su certi giornali, certe università e case editrici. La mafia non esiste solo per la politica, è nella mentalità prevalente degli italiani in ogni settore, e l’editoria non sfugge a questa tendenza che punisce i solisti, che sono come iscritti solo all’anagrafe.

D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
– Sicuramente. Non li conosco, ma sono certo che cinque o sei capolavori abbiano ricevuto quest’anno sonori rifiuti editoriali. Del resto basta che pensi a quella che è accaduto a me, anche se poi è andata bene. La mia esperienza conta cinque rifiuti per “Cercando l’imperatore” e otto per “Conclave”, che poi furono tradotti il primo in 14 lingue, il secondo in 18.  

D. Può durare oltre la sua generazione la fama di un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
– Non credo, prima o poi la verità della sua mediocrità emerge. Il tempo rende giustizia di molti successi immeritati, amplificati dal cinema e dalla tv. Un esempio per tutti Valerio Massimo Manfredi, coi suoi romanzi furbi precotti per diventare film, che oggi vendono molto meno.  

D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
Durante il parto sono felice, vivo finalmente altre vite, non più solo la mia. E il tempo vola. Non subisco più la vita, ma la dirigo, la creo, la faccio andare dove voglio io coi miei personaggi.
Dopo, è come tornare a terra da un lungo volo, risvegliarsi da un bellissimo sogno. Una inevitabile leggera depressione, ma subito comincia l’attesa di un nuovo volo, di un nuovo sogno. 

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
– Di solito mi sembra di aver dato tutto quello che potevo, di rado mi è capitato di sentire che mancava qualcosa che potevo ancora offrire. Forse un solo rimpianto, non riuscire a scrivere un’opera che mi porti via anni e anni, perché sono molto rapido, impiego pochi mesi. “Conclave”, il mio romanzo più tradotto, 18 lingue, l’ho scritto in un raptus di 31 giorni esatti. Anche “L’erede”, 32 giorni. E poco di più gli altri, forse solo “Il signore degli occhi” mi è costato 8 mesi, il periodo di gestazione più lungo.

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
– No, mai.

D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
–  Mi provoca un salutare attacco di invidia, l’altra faccia dell’amore, che subito precipita in uno stato di febbrile ammirazione. Mi è capitato con “Il deserto dei Tartari” di Buzzati e “Memorie di Adriano” della Yourcenar che certamente hanno ispirato qualcosa del mio romanzo di esordio, “Cercando l’Imperatore”. Ma anche il mio recente “Lazzaro”, uscito da Bompiani, deve qualcosa a “L’autunno del patriarca” di Marquez e a “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, come la critica ha indicato.

D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
– Sì, due, la prima, sulla fine del Romanov, “Cercando l’Imperatore”, pubblicato nel 1985, di recente riedita da Bompiani; la seconda su “Napoleone in vista di Sant’Elena”, che ho appena terminato.

D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui vivi? Cosa detesti?
– Del mio tempo amo la velocità. Detesto invece la massificazione. E la mercificazione della letteratura per colpa della sua sudditanza all’immagine, alla tv, troppi scrittori anche in Italia scrivono cose già pronte per diventare serial tv o telenovela. Ed è il dio denaro a spingerli a scrivere così, perché sanno quale mercato si apra con le loro scritture prostituite all’immagine, che invece non godrebbero se scrivessero letteratura pura.
La letteratura vera è ‘Stile’, non ‘plot’, non intreccio mozzafiato, cose che servono per tenere incatenati dei telespettatori. Non tutto ciò che è leggibile è visibile, e viceversa non tutto ciò che è visibile è leggibile. “Delitto e castigo” di Dostoevskij, secondo uno dei massimi maestri del cinema come Hitchcock, è intrasformabile in film, perché, diceva, “mi ci vorrebbero almeno 8 o 9 ore di film per rendere quella perfezione delle parole, quindi impossibile” … 

D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
– Che le repubbliche sono meglio delle monarchie. Non è vero, dipende dagli uomini che le rappresentano. Certi re sono una manna anche oggi, vedi la regina d’Inghilterra, quello del Marocco, quello di Giordania, quello di Tailandia appena scomparso. Mentre certi presidenti sono una sciagura perché sono solo dittatori travestiti, vedi quello di Turchia, del Venezuela, della Bielorussia e per molto aspetti Putin, capo della Russia. 

D. Qual è il valore più importante che ritieni vada difeso o recuperato?
– La fedeltà a chi vale, non a chi vince, a chi “è”, non a chi appare. Affascinato forse da quel valore da ragazzo tenevo per i Troiani, e non per i Greci, ma da grande non sono molto cambiato. E’ il motivo ispiratore del mio romanzo d’esordio, “Cercando l’Imperatore”, che rivisita la rivoluzione russa con simpatia per chi la perde, e sospetto per chi l’aveva vinta. La Storia poi, con la caduta del comunismo sovietico, ha dato ragione al romanzo che è invecchiato molto meglio della rivoluzione bolscevica, se ancora oggi lo stanno traducendo in coreano.

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