La nostra InterSvista a Stefano Vitale

D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
Non direi. Il talento in sé nessuno sa cosa sia. Credo sia più importante il desiderio di esprimersi e la passione che si mette nel fare le cose. Per fare bene qualcosa, anche scrivere, occorre tenerci come raccontava Robert Pirsig nel suo “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”. Penso anche che abbia un ruolo fondamentale l’ambiente in cui si è cresciuti, le persone che si sono incontrate, le esperienze vissute. Poi, dentro tutto questo, hanno un valore importante le letture che si sono potute fare e che hanno quindi concorso alla formazione della persona, dello scrittore.
    Ma ci vuole anche del tempo a disposizione ed anche dei mezzi, materiali ed economici. Specialmente oggi. Niente viene da nulla.
Sono necessarie una grande applicazione, costanza, studio, sia specifico che culturalmente più ampio. E tanta curiosità e interesse per gli altri. Ovviamente uno scrittore deve anche essere narcisista, ma in senso “buono” per così dire: ovvero attento a se stesso, alla vita che gli capita di vivere. In questo senso vi sono certamente “persone e scrittori di talento” capaci di cogliere, prima e più profondamente degli altri, il senso di una storia possibile, di un verso ben fatto.
A poco a poco si pensa e scrive da scrittori, da poeti. Diciamo che non si nasce scrittori, ma ci si deve impegnare per far venir fuori lo scrittore che c’è, eventualmente, in noi sapendo che la letteratura è una causa persa, ma della quale non si può fare a meno.

D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto? Oppure: quanti libri occorre leggere per poter scrivere professionalmente?
Impossibile quantificare. La lettura deve durare per tutta la vita. Vero è che a volte può bastare la lettura di un solo libro per far scattare la scintilla giusta. E si possono leggere tantissimi libri senza mai diventare scrittori. Oggi sono in molti, tra i non molti lettori, i lettori compulsivi, quelli che devono aver letto ad ogni costo l’ultimo libro appena uscito. Il fatto è che ne escono troppi… Poi ci sono quelli che devono leggere per poter aver qualcosa da dire nelle cene tra amici e quelli che leggono solo alcuni generi, pensate alla giallistica, e nient’altro. Nel caso della poesia, che conosco meglio, per scrivere è indispensabile sentire dentro che essa è un modo di essere e di pensare che ti appartiene. Poi è fondamentale l’incontro con altri poeti e anche il costante confronto con la poesia degli altri. Sia quella del passato, dei classici che quella dei contemporanei. Mi pare impossibile, anche per quei poeti che vivono ai margini dei clan e dei premi letterari, scrivere stando chiusi nella propria stanzetta. Lo stesso Leopardi, che pure ha vissuto a lungo isolato, aveva la compagnia di una vasta biblioteca. In ogni caso ogni libro che ho scritto è anche i risultato di molte letture, alcune esplicitate altre rimaste inconsce. Ogni libro è il frutto di una ricerca personale che dialoga con altri mondi all’interno di una trama di riferimenti non sempre chiari, neppure a chi scrive. Per questo si è poeti, scrittori e non saggisti.
    Va detto che per chi scrive è essenziale l’osservazione della vita, delle cose che accadono, sia personalmente che sul piano sociale. Senza contesto, dal mio punto di vista, non c’è scrittura. Ciò non significa che la scrittura sia la riproduzione della realtà. La scrittura, ancora una volta, dialoga con la realtà, la trasforma, la rielabora, ne offre una chiave di lettura.
    Infine sono fondamentali i riferimenti alla Lingua. La conoscenza della retorica, della punteggiatura, ad esempio, sono indispensabili. Tanta letteratura odierna è insopportabile proprio perché non ha una forma. E allora per scrivere è necessario leggere.

D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perché?
Partiamo dal giornalismo. Non amo molto i libri giornalistici, preferisco i giornali. Che poi si possano scrivere bellissime storie a partire dalla cronaca è fatto noto e evidente. Si pensi a Dostoevskij, a Victor Hugo.
    La saggistica l’ho seguita e la seguo per varie ragioni. In primo luogo i miei studi di filosofia mi hanno condotto a privilegiare questo genere che non ho mai smesso di seguire e frequentare. D’altra parte oggi mi rendo conto che senza la filosofia non vi sarebbe tanta poesia, la mia inclusa. L’idea di cercare una connessione tra le cose, di far emergere ciò che è nascosto, ma al tempo stesso mostrando i contrasti è una parte essenziale della mia poesia.
    Poi c’è il mio lavoro: l’educazione, il lavoro sociale. Così nella mia biblioteca trovano posto molti saggi di pedagogia e psicologia. Io stesso ho scritto dei libri su temi come il gioco, la formazione, la gestione dei conflitti, l’educazione ambientale, il teatro. Il fatto è che ho sempre cercato di considerare i miei interessi e le mie passioni come una sorta di struttura a vasi comunicanti in modo da far rifluire le varie esperienze una dentro l’altra per sostenersi a vicenda. Ad esempio, io sono un appassionato cultore di musica, così oltre a frequentare le sale da concerto leggo saggi di musicologia e mi interesso alla vita musicale della nostra città e non solo. Cosa che poi ritroviamo anche nei miei testi. Per me, il rapporto con la musica è una parte importante della poesia.
    La narrativa è tutta radicata, inizialmente, nell’esperienza della scuola. In tal senso le responsabilità degli insegnanti sono importanti. I miei primi autori sono stati Omero, Virgilio, Manzoni e poi Pirandello, Svevo, ma anche Pavese, Vittorini, Calvino, Primo Levi. E subito Dostoevskij, Gogol, Cervantes, Kafka, Mann. Il liceo è stata una fase formativa fondamentale. Anche per la poesia. Come molti adolescenti scrivevo piccole cose: l’incontro con Foscolo e Leopardi prima, e poi con Ungaretti e Montale è stato decisivo per orientare le mie letture verso poeti come Mario Luzi, Giorgio Caproni, Camillo Sbarbaro, Sandro Penna. Insomma un percorso tutto interno al nostro canone occidentale.
    Importante anche, come dicevo, l’esperienza lavorativa che mi ha portato ad apprezzare ed amare la letteratura per l’infanzia e il modo delle storie popolari e della fiaba. Cosa che mi ha fatto conoscere anche letterature distanti e diverse dalla nostra.

D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
Non direi. Per fare della buona letteratura ci vuole sempre una solida e profonda formazione letteraria, filosofica, scientifica, dipende dagli approcci e dagli stili. E chiaro che oggi la letteratura si è aperta. Un tempo era ad appannaggio di pochi, un fatto tutto sommato culturalmente elitario. Oggi è diverso: il mercato della letteratura è molto più vasto e variegato. E questo è un bene, per molti versi anche se , nel caso della poesia, finisce che i lettori siano gli stessi poeti, facendo così circolare molta letteratura di basso livello difficile, talvolta, da riconoscere come tale.
Non tutto ciò che si presenta come poesia è poesia. E’ un circolo vizioso: scrittori scarsi generano lettori scarsi. Pertanto ci sono sempre meno lettori competenti, appassionati, capaci di valutare e così si moltiplicano i non-poeti generando una grande confusione.
Ciò vale anche, a mio avviso, per la narrativa sommersa da pubblicazioni discutibili, anche tra i libri che vendono molte copie che, paradossalmente, abbassano appunto il livello culturale dei lettori. Per la narrativa specialmente, vedo una grande responsabilità dei media e dei cosiddetti critici che sovente sono i camerieri delle case editrici, le quali arrivano a scriversi da sé le recensioni sul web per convincere i potenziali “lettori”.
Qui tocchiamo la questione internet. Non c’è dubbio che il web abbia aumentato le possibilità di diffusione e di fruizione di varie forme di letteratura.
La poesia è tra le più diffuse nel web. Ma gli effetti sono, come detto, perversi e contraddittori. Gira tanta, troppa roba inutile e dannosa. Sfogare le proprie emozioni può essere necessario, ma la poesia necessaria è altra cosa. Io consiglio sempre un uso moderato del web. La letteratura ha bisogno di lentezza, di possibilità di ritornare sui testi, di confronti, di riflessione. Cosa che il web non permette.

Tornando alla domanda sulla preparazione culturale, non c’è dubbio che la conoscenza della lingua sia importante. Ed oggi il linguaggio della tecnologia è così diffuso che è entrato anche nella letteratura. Allo stesso modo anche la lingua parlata ha un suo spazio, che ha sempre avuto, ma che oggi pare più ampio. La mia posizione è semplice: un testo non è più moderno, attuale e, soprattutto, un buon testo se parla di e con il linguaggio dei computer o internet, chat o WhatsApp. Le storie oggi sentono certamente l’influsso dei tempi, ma un buon libro non lo si può giudicare dallo slang che adopera.
Allo stesso modo dobbiamo salvaguardare la differenza tra la lingua parlata e la lingua scritta. La forma non è solo un involucro esteriore, essa entra a far parte della sostanza dei testi e ci permette di garantire un futuro al pensiero, alla comunicazione. Per la lingua italiana, tenuto conto della sua tradizione, è un fatto fondamentale. Anche di ricerca identitaria culturale, così come sostengono critici attenti come Giorgio Ficara o Alfonso Berardinelli. Non ci si rende conto, ad esempio, di quanto siano necessari in tal senso le opere di studiosi come Bice Mortara Garavelli, ad esempio, che andrebbero lette e rilette.

D. Di chi è la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
Difficile individuare un unico responsabile. Un tempo era facile dire che la colpa era della scuola che si limitava ad insegnare le tecniche della lettura senza coinvolgere la passione per la lettura stessa. Penso ai bellissimi libri di Giuseppe Pontremoli “Elogio delle azioni spregevoli” e “Giocando parole” editi da l’Ancora del Mediterraneo, in cui l’autore raccontava la sua esperienza di insegnante impegnato a far amare la letteratura per quello che è nella sua sostanza: un gesto di comunicazione, di ascolto reciproco nella ricerca del piacere di leggere. Cosa condivisa da autori come Pennac, Onofri, Giancaspro, Bisutti e tanti altri.
Ma penso anche a Gianni Celati, allievo in questo di Italo Calvino, che sostiene l’importanza di una letteratura che prenda le mosse dalla descrizione, dall’osservazione della realtà che comprende anche l’ascolto dei discorsi quotidiani, dei racconti personali. Cosa che genera nel lettore interessi nuovi stimolati da uno spaesamento linguistico che, paradossalmente, lo ricolloca in una realtà affascinante quanto familiare. Penso anche, per la poesia, a chi difende ancora oggi la pratica dell’imparare a memoria le poesie, del leggerle a voce alta senza perdersi troppo dietro a vivisezioni interpretative.

    Ma le responsabilità oggi sono anche delle famiglie, del mercato, delle case editrici stesse, della diffusione incontrollata di internet e delle sue forme di comunicazione derivate. Tutte queste situazioni, benché diverse, generano un paio di fatti comuni: prima cosa, la lettura si è ridotta ad un momento funzionale, legata ad altro (ad un messaggio, una indicazione, le istruzioni per usare altri oggetti, ecc.); poi la lettura, che può essere sia un momento individuale che sociale, si è ridotta ad esser uno spazio residuale nella vita delle persone. Si legge solo nei ritagli di tempo, se ancora si legge.
    Per cui ci si trova, ennesimo circolo vizioso, a dire e preferire “meglio leggere una porcheria che nessuna lettura”. Davvero umiliante.
    Dal mio punto di vista tuttavia, considero positivamente il fatto che, pur se talvolta un po’ fastidiosamente, si stanno moltiplicando le letture pubbliche, anche di piccoli gruppi, di poesie, testi letterari anche di non professionisti. E’ un modo per comunicare, ma anche per leggere i testi degli altri, per muoversi di persona, per conoscere gli altri mondi oltre il web.

D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
Non saprei. Sin ora la mia esperienza ha avuto un buon successo di critica, sia pure limitato alla cerchia di chi si occupa di poesia, e un buon successo di pubblico, sia pure sempre nei limiti delle persone coinvolgibili da una comunicazione locale.
A volte mi sono detto che il pubblico accorreva perché si trattava anche di amici. Ma quando ne vedi tanti alla presentazione del tuo ultimo libro oppure allo spettacolo teatrale con le tue poesie, allora cominci a pensare che apprezzino.

D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
Mi sono reso conto di aver cambiato editore nelle diverse fasi delle mie produzioni: Manni, Joker, Puntoacapo, ora La Vita Felice. Sin ora ho sempre sperimentato ottime relazioni con l’editore. Piena libertà, ovviamente, e scarsi mezzi di promozione. Secondo me, il ruolo dell’editore, una volta che ti ha pubblicato, sarebbe di impegnarsi a far conoscere il tuo libro.
    Come tutti sanno, queste piccole case editrici cercano di innescare un circolo virtuoso tra pubblicazione del testo – soddisfazione dell’autore – creazione di spazi di promozione e incontro – allargamento dell’influenza della casa editrice – sopravvivenza dell’editore. Non sempre ci si riesce.
    In ogni caso molta iniziativa è delegata all’autore che deve essere anche un po’ imprenditore di se stesso.

D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
Vincere un premio ha un valore narcisistico enorme, anche per il poeta più introverso e riluttante. Tutti abbiamo bisogno di essere apprezzati e riconosciuti. Il poeta anche un po’ di più degli altri perché ci mette il coraggio di uscire allo scoperto coi suoi versi.
    La borsa è l’ultimo dei pensieri, in ogni senso.

D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica o ad una lobby culturale?
Certamente. La storia è piena di esempi in tal senso. Ed oggi più che mai, dentro ad un mercato editoriale sempre più ristretto. Il combattimento è molto duro e allora occorre essere attrezzati. Per fortuna ci sono anche scrittori e poeti che sanno e riescono proporsi senza andare al guinzaglio di chicchessia.

D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
Ogni tempo ha gli scrittori che si merita. Quelli che restano nell’ombra, magari sono solo fuori tempo.

D. Può durare oltre la sua generazione la fama di un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
Direi di no. Prima o poi la moda cambia e il consumo, come dice la parola, determina esaurimento.

D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
Io resto un autore inquieto. Quando dico “fine” è perché non vedo altre possibilità in quel momento di introdurre delle modifiche o di togliere qualcosa. Sono sempre in bilico tra la necessità di quel che ho scritto, e questo è un fattore determinante in poesia, e la possibilità di andare oltre. E’ il mio modo di essere e di pensare che riverso, credo, anche nei miei stessi testi.
Pertanto quando pubblico un libro, ve ne sono altri in cantiere, anche se ci vorranno magari anni prima che vedano la luce. Per me conta molto il fatto che una singola poesia trovi a sua volta un quadro dentro cui vivere. Per questo ci vuole tempo e questo è il tempo della ricerca continua, oscillante tra quanto si è dato e quanto non si è ancora dato.

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
Certamente. Il mio lavoro poetico è fatto di continue modifiche, rettifiche, cancellazioni. Occorre lavorare per sottrazione, come insegnava Francesco Biamonti che era un romanziere-poeta bravissimo. Se poi si parla di quel che è pubblicato non mi sento di rinnegare nulla. Sicuramente cambierei delle cose, ma per questo ci sono i prossimi libri. Un poeta, per come la vedo io, cerca e trova prima o poi un sua voce, un suo ritmo, un suo modo di essere. Dentro questa voce poi lavora sulle possibili variazioni. Un po’ come fanno i musicisti che io trovo molto affini ai poeti.

D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
Leggo molta poesia altrui, anche di poeti contemporanei. Ci sono autori che sento vicini come: Umberto Fiori, Fabio Pusterla, Riccardo Held, Mariangela Gualtieri, Matteo Marchesini, Claudio Damiani, Silvia Bre, Livia Candiani, Gabriella Sica. Ma amo anche i meno diffusi Alfredo Rienzi, Lucetta Frisa, Mario Marchisio, Valeria Rossella, Roberto Carifi. Leggere i loro testi mi appassiona e mi stimola. I bravi poeti, come quelli che ho nominato, ci permettono di accedere a luoghi sconosciuti o di ritrovare perfettamente in ordine stanze note e amate. E così scatta anche un sentimento di condivisione, magari anche la riprova che il proprio lavoro poetico non è fuori tempo e fuori luogo, che ci sono dei compagni di viaggio.
    Quel che mi scoraggia è la presunzione, la vanità, l’arroganza mascherata da competenza; mi infastidisce l’autoreferenzialità, il continuo autopromuoversi, e mi irritano i falsi complimenti tra poeti, l’indifferenza e le invidie sotterranee che permeano l’aria di tanti incontri letterari.

D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
Non direi. Oggi sono molto contento del mio ultimo “La saggezza degli ubriachi” che ben identifica un punto di arrivo del mio percorso poetico e letterario. Penso di aver affinato il modo di scrivere, di aver identificato dei temi, di aver dato una voce ed una forma ferma ai miei versi. Ma sono certo che dentro di me ci sono già altre poesie da scrivere, che si stanno scrivendo.

D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui vivi? Cosa detesti?
Amo la musica e la letteratura. Non ne potrei fare a meno. Il nostro mondo ha una grande offerta culturale, tutto sommato, e questo lo trovo bello. Mi piacerebbe aver tutto il tempo per occuparmi di musica e di letteratura. Poi mi piace anche viaggiare, cosa che vorrei poter fare di più. Amo le città: le trovo sorprendenti, sempre nuove, uno spazio umano talvolta irrespirabile, ma carico di fantasia. Ma adoro anche il mare, la sua luce, gli odori, i sapori. Le città di mare sono il massimo.
Detesto le manipolazioni mediatiche, figlie e frutto dell’ignoranza; detesto l’indifferenza, figlia e frutto delle ineguaglianze sociali; detesto tutte le forme di dogmatismo e integralismo, figlie e frutto della nostalgia mai sopita del Pensiero Unico.

D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
Mi sono occupato molto degli stereotipi di genere e delle discriminazioni sessiste. Ho anche curato un’antologia di poesie per il Comitato “Se non ora quando” dal titolo “Mal’amore no”. Ecco, il tema delle violenze sulle donne, la battaglia contro i luoghi comuni del maschilismo mi sembrano centrali e richiedono un impegno culturale, politico e sociale importante. Purtroppo, anche in questo caso, siamo una minoranza, sia tra gli uomini che tra le donne.

D. Qual è il valore più importante che ritieni vada difeso o recuperato?
Potrei dire la Bellezza. Ho riletto da poco le pagine di Platone del Simposio, davvero sempre attuali per molti aspetti. Nel mio ultimo libro “La saggezza degli ubriachi”, come sempre anche nei precedenti, cerco di indicare alcuni dei valori che ritengo vadano difesi: l’incontro con la diversità e l’accoglienza senza muri; la tolleranza laica e illuminista; il rispetto per la natura; la dignità del fine vita; la protezione dei più deboli. Tutte cose di nicchia, come la poesia.

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