Philip Schultz

ERRANTI SENZ’ALI

Poesia

Ediz. Donzelli
Nuove forme di poesia civile

ERRANTI SENZ’ALI
di
Philip Schultz

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Philip Schultz (Rochester, 1945), scrittore e poeta americano, è autore di otto raccolte poetiche, tra le quali “Failure”, con cui nel 2008 ha vinto il Premio Pulitzer per la poesia.

Dopo anni di insegnamento alla New York University, ha fondato nel 1987 la scuola di scrittura Writers Studio che tuttora dirige. Vive a East Hampton con la moglie scultrice, Monica Banks, i figli Eli e Augie, e un cane, Penelope. In Italia è stato conosciuto per il libro “La mia dislessia” (Donzelli, 2015) dove il poeta racconta appunto della sua esperienza personale.

“Erranti senz’ali” fa parte appunto di “Failure”, titolo beckettiano, in cui ci racconta l’altra faccia dell’America, quella di chi sta ai margini. Ma, attenzione, non c’è banale compassione, facile denuncia. Qui si entra con la poesia nel chiaroscuro dell’esistenza in sé, fatta di speranze e delusioni, sul confine sottili tra normalità e malattia. Rileggendo queste poesia, dopo il “trauma politico Trump”, mi sono detto che forse qui dentro, dentro questo libro, ci sono delle spiegazioni utili a capire cosa sta capitando in America. Schultz appartiene ad una famiglia di ebrei immigrati dalla Russia e dalla Polonia e da sempre ha mostrato empatia con mondo marginale, esprimendo bene il conflitto tra aspettative e realtà. Ansia e frustrazioni, esperienze autobiografiche, piccoli e grandi fallimenti sono al centro della meditazione di questo libro.

Dicevamo dell’altra faccia del sogno americano: Schultz ci racconta eventi quotidiani, storie di amici, esperienze personali, del dolore che accompagna i morti, della triste e controversa figura del padre. Sullo sfondo il ricordo non sopito dell’attacco alle Torri Gemelle che rappresenta una sorta di emblema del fallimento e dello stato di smarrimento che si vorrebbe nascondere : “Le grandi assenze gemelle/che tutti fingiamo/ di non notare più”. Il tono non è però mai piagnucoloso e retorico: in un clima linguistico che ricorda il ritmo sincopato del jazz-blues, l’autore irrora le sue immagini della giusta dose di drammaticità corretta e sostenuta sempre da una, a volte sottile, altre volte più evidente dose di humour.

La stessa definizione di “erranti” rinvia alla radice ebraica che ci mette in contatto con un’umanità in continuo vagare senza metà, destinata a fronteggiare mondi incomprensibili, a ripetete errori già fatti. Il tono è discorsivo, spezzato nel ritmo, in versi brevi e incalzanti in linea con un’idea di filosofia di vita minimalista. Una visione dal basso, un mondo senz’ali, appunto, senza trascendenze, popolato da barboni, pattinatori e soprattutto da un dog-walker.

Quest’ultimo è l’alter ego del poeta, egli stesso amante dei cani. La visione canina del mondo diventa, drammaticamente ed umoristicamente, una delle chiavi del libro. Che si sviluppa come una sorta di dialogo interiore di questo personaggio che porta a spasso i cani e che incontra altri cani ed altri padroni di cani, che sviluppa meditazioni sul confronto tra il nostro mondo e quello, migliore senza dubbio per l’autore, dei cani. Che sono a noi superiori: “I cani, per natura/non sono dispettosi/Non portano rancore./ Li puniamo, esaltiamo e tormentiamo/come fossero noi. Ma perfino/ noi non siamo noi (Nessuno lo è). E ancora: “Il fatto è che i cani/ non credono/ di essere geni (specialmente/quelli che lo sono). I cani/ non nascondono i giudizi, /non coltivano opinioni/non mettono in campo i loro difetti,/non si paralizzano/per la nostalgia…/Offrono a noi,/ i loro compagni stranieri,/la possibilità di/ essere ovunque/ e in nessun luogo al tempo stesso”.

Il poeta è certo che …”I cani/ riconoscono la perfezione. Sanno che è stupenda…”. E ancora, usando i cani come metafora della nostra condizione: “Siamo tutti parte di un branco,/eseguiamo le nostre variazioni/dell’ululato della solitudine…”. Come dicevamo all’inizio, la poesia di Schultz è attenta alle piccole grandi cose della vita, attento “a farsi incantare/dalla routine/della nostra ordinarietà,/per ricordare un mondo/ invisibile, perduto”.

Purtroppo è un mondo in cui “a volte/per/sentirsi superiore/ai suoi fallimenti/il mio cervello mi mente”: e si resta in disparte, “perfettamente immobili nell’attesa di essere devastati” e persino “un ratto mi lancio/un’occhiata sprezzante/quasi a prendersi gioco/dell’umana miseria”. Ma non resta chiuso nel proprio tabernacolo: il poeta sa che questa sua voce ha un valore alto, civile, sa che “questa è l’America/ all’inizio del/XXI secolo/dove perfino la disperazione sfoggia/un catalogo patinato/ e la democrazia/è finalmente diventata pubblica”; perché si domanda “… come mai/non c’era una Costituzione/che includeva gli esclusi/placava i delusi/ rincuorava i depressi…”.

Per Schlutz “ognuno di noi/è un’emergenza che si prepara/ad accadere, una storia/di implacabile dolore,/un World Trade Center/di immane rovina” la cui polvere grigia ancora turbina “ricoprendo tutte le nostre anime/che visibili ora,/e senza ali,/si libravano /in alto/finalmente/disperate quanto basta”. Ma non si pensi che il poeta si lasci andare ad una esaltazione del negativo. C’è ancora speranza se ci rivolgiamo ad altro: “la mia mente, sempre sospesa/ e rivolta aa cose/ più interessanti, si gode/ la diversità umana,/gli echi bisbiglianti/ e il piumaggio variopinto/dei miei compagni esploratori/così ansiosi di sfidare la sorte”.

E soprattutto se, con un po’ di umorismo e buon senso ci ricordiamo che “Se il nulla/è il posto da cui provengo/a cui tornerò, e/a cui ho diritto/cos’è che/ho tanto temuto/ i perdere?/. Può sembrare poco, ma nella “nuova America” di Trump può essere già qualcosa.

Stefano Vitale

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