Giorgio Orelli

TUTTE LE POESIE


( Ediz. Mondadori )

TUTTE LE POESIE
Giorgio Orelli

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“Un viaggio nella poesia di un poeta “capace di alternare grazia ironica e forte preoccupazione etica e civile”, ma che non assomiglia a nessun altro sorprendendoci e aprendoci una visione del mondo originale e vera.”

Giorgio Orelli nacque ad Airolo (Ticino) il 25 maggio 1921. Dopo gli studi universitari a Friburgo (sotto la guida, in particolare, di Gianfranco Contini) si trasferisce a Bellinzona, dove diventa docente di letteratura italiana, dapprima alla Scuola Cantonale di Commercio, poi al Liceo Cantonale.

La sua poesia, in parte appartenente al filone post-ermetico, a tratti è stata avvicinata alla cosiddetta Linea Lombarda anceschiana che, però, fa fatica a contenerlo. Molto vicino invece, a mio parere, ad Eugenio Montale e Giorgio Caproni per i temi e la grazia musicale dei suoi testi derivante da una cura per la dimensione fonosimbolica e da una ironica ambiguità. Giorgio Orelli, oltre ad essere uno dei più importanti poeti in lingua italiana del dopoguerra, è un profondo conoscitore della letteratura italiana (che viene sviscerata nel saggio “Accertamenti verbali”), traduttore (Goethe) e narratore. Ha vinto il Gran Premio Schiller e nel 2001 gli è stato assegnato il Premio Chiara alla carriera. Ci lascia il 10 novembre del 2013. L’Oscar Mondadori con “Tutte le poesie” esce tempestivamente nel 2015 a cura di Pietro De Marchi, con una introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo e una bibliografia a cura di Pietro Montorfano.
Il maggior poeta ticinese ha dunque una dimensione più ampia di quella che per lungo tempo gli fu assegnata e questo libro, più completo, lo dimostra. Come scrive Mengaldo nella sua introduzione “egli è anzitutto il poeta dell’attenzione alla vita”…una vita imparzialmente umana, animale…, vegetale e anche minerale”.

Orelli è teso a “cogliere il “piccolo” e produce continue soste nella realtà, vista piuttosto nei suoi dettagli costitutivi” intrecciando ironia, melanconia e ilarità. Orelli è il poeta degli stati d’animo colti nella relazione improvvisa con le cose semplici che appaiono come vere “epifanie” stupefacenti, egli è poeta dell’oggetto che in una sorta di “realismo terminale” (anticipando Oldani) esprime sentimenti umani attraverso la cosalità.
Il tempo che passa, tra storia e sospensioni” è un suo tema sin da subito: “Le madri sanno lunghe trafitture./Ma ogni anno che passa è tuttavia/un figliolo che nasce” scrive in “Paese” contenuta nella prima raccolta “L’ora del tempo” (1962). Il senso dello scorrere del tempo si fonde col senso della natura che ci stringe nell’angolo paradossale dell’immobilità. In “Assenza” scrive: “Nulla scoprire. Amare il primo verde/di robinia. Non cercare se il fiume/più oltre si fa schiuma…” – In questa raccolta, bella e significativa, Orelli cerca rifugio negli interstizi dell’universo dove si raccoglie la poesia stessa che, montalianamente, nulla più chiede, solo “contemplare il cielo/che trasfigura la mia terra./Lontano/ dagli incantevoli luoghi di nausea/ dove l’anima è fredda/simile a un crisantemo/né bianco né viola.”

Il rifiuto della società di massa, la fuga in un mondo dell’anima che ha un luogo comunque, la sua terra, la cura per le capre “che si guardano lunatiche e pietose/negli occhi” (e ci rassomigliano tanto), la melanconica rassegnazione dei giovani senza futuro culminano nell’ “Orologio che segna/l’ ora esatta per tutta la vita” – Il senso del tempo annega nel paesaggio provocando spiazzamenti emotivi in cui Orelli è maestro. In “Sinopie” (1977), in piena tempesta politica e sociale, Orelli ci canta il del paesaggio-passaggio a Villa Bedretto, in un crescendo di ricordi e affetti familiari, locali. Qui assume anche uno stile più narrativo, più “lombardo” diverso da quello della prima raccolta. Così scrive teneramente alla figlia di “poco oltre i tre anni”, ma c’è sempre un fremito gelido nei suoi versi: perché è alla figlia, nella sua innocenza che dice “a volte mi guardi come sapessi/la vita che noi morti qui viviamo”.

Ma sono i luoghi a scaldare ancora il poeta: molto bella “Dal buffo buio” dove scatta l’ironia, quasi il comico giocando coi versi, coi suoni “Vedi gli ossiuri?gli ussari? gli ossimori?/Vedi i topi andarsene compunti/dal Centro Storico verso il Governo”. E così c’è anche la velata satira politica che prende in giro il potere come in “Secondo Programma TV (o programma di contrasto)”. E l’invettiva, pacata e ironica, continua con le belle poesie “A un filologo”, “A un mascalzone”, “A un cattolico”, “A un avvocato” e così via e non si risparmia neppure il poeta stesso: “Calmo, limpido il mare/ che prende e dà memoria/…”Vieni, dici, “fa il morto, /è così facile.” A me/ che appena il vivo so fare”.

“Spiracoli” esce nel 1989 e la sua lirica ora si muove tra realtà e visionarietà, tra satira e racconto approfondendo temi e modi delle prime due raccolte. Qui sentiamo gli echi di un rapporto con la poesia di Giorgio Caproni: “Un giorno caldo di luglio un corvo/dopo accurate curve digradanti/si accorse che non c’erano carcasse/tra quei tronchi e scusandosi quasi/lasciò che mi corresse il sole in pace.” Orelli accentua per altri versi il lato magico e fantastico della sua scrittura aumentando la presenza di prose liriche o di poemetti in prosa giocando sempre, sul piano della lingua, tra “alto” e “basso”, tra poesia ruvida e dialettale e parola letteraria, persino straniera con l’uso del tedesco. Ma non viene meno neppure il suo personale surrealismo quotidiano che prende di mira il mondo sociale, umano.

“Il collo dell’anitra” (2001) conferma il grandissimo controllo della lingua da parte di Orelli e il suo legame la poesia europea appare sempre più evidente (importanti i richiami a Gottfried Benn toccando temi profondi come lo “scandalo della morte non accidentale di ospiti in un ricovero” (Pietro De Marchi) e sollecitando riflessioni ancora una volta a cavallo tra la critica sociale e lo spaesamento esistenziale. Non mancano i riferimenti classicamente orelliani agli affetti familiari, agli animali. Poesia raffinata che sa dire “Noi che ci siamo conosciuti al margine/di noi”; che con amorevolezza dice: “Or non posso chiederti di dirmi/se dove stai smarrendoti qualcuno/ti viene incontro senza spaventarti/ e ti prende per mano” (Zia Anna); che commuove con la poesia “In Memoria” e che passa in rassegna il libro dei morti in una Spoon River familiare e ticinese di grande presa.

Gli incipit sono essenziali e narrativi: “Mi viene in mente quendo eri bambina/e per andare dalle zie passavi in bici accanto alla rete che cinge/ i vasti campi dietro al manicomio”, un pazzo poi gridava “Bella bionda perché non vieni/a letto con me?”… ma il finale rovescia la tensione in una dimensione logica inattesa: “non eri bionda e non avevi/nessuna voglia di andare a dormire”.

Ma ci sono anche i “cardi”, le poesie “politiche” della “Viola del non –pensiero”, della “fè che fa brutti scherzi”, dei ”farabutti in guanti gialli” in una galleria di osservazioni tese e pungenti. Anche il leghista montante è preso nel mezzo, sorpreso mentre “si accovaccia nell’ombra della sdraio a scavare nel naso”. Prende spunto dai suoi incontri, dai ricordi “del breve soggiorno a Bonassola/con lo stratempo e quella ghiaia viola”, in un rimando tra ironia e senso del luogo.

I nomi dei figli, dei nipoti, degli amici popolano la sua poesia che presenta sempre questo sguardo accogliente ed uno più inquieto, oscuro. Anche il linguaggio sta in bilico tra registri diversi: le capre “non sono cattivose”; “Ines inespugnata istiga, imperla… irrora infanzia inesauribile”; “Bellezza scialacquata/di bar in bar e a zonzo/sul quai?”, “I nostri frammenti? Pannelli/ di predelle smembrate” (in A Mario Luzi, dalla sua città”)¸e l’anziana locandiera che fa parole crociate “dice che quando dorme/vede quadretti quadretti quadretti/sempre meglio di croci croci croci/. Il nonno è “morbidissimo” , ma un sasso se lo freghi con la mano è “calduccissimo”, il coltello è “lunghissssssimo” dice Orelli sempre attento alle invenzione dei bambini.

Ma la raccolta si chiude con una poesia scandalosa e triste “Le forsizie del Bruderholz” legata ad un fatto di cronaca e dedicata alla morte di malati terminali causata dalle infermiere a Lainz (Vienna).
Il volume si chiude con “Verso “L’orlo della vita” (Poesie edite e inedite), una sorta di quinta raccolta dovuta al lavoro di ricerca di Pietro De Marchi. Una summa finale sorprendente proprio perché capace di renderci Orelli così com’era nella sua lucida complessità e nella sua rigorosa semplicità, sempre attento al mondo e alle variazioni dell’anima, ai bestiari reali e a quelli aforismatici, alle piccole cose come ai grandi drammi. “Vista dall’aldilà la vita è:/viva,/lieta, dolce, beata, serena… bugiarda,cieca,ria/corta”…(Libia); e ci sono i ragni “già pronti a risalire divorando/filo e distanza:/per fingersi di nuovo/due punti nei dintorni/ di me”.

E’ una miniera di pensieri e immagini ordinati in esametri ed endecasillabi, che abbiamo a disposizione, una riserva di immaginazione di difficile recupero, unica nel suo genere che fatica ad avere eredi oggi che siamo stretti tra la volontà epigrammatica e l’autoreferenzialità illeggibile, tra l’epica mitica rivisitata e il classico stanco “ron ron della poesia ” impressionistica e d’ambiente. Giorgio Orelli è lontano da tutto questo: ma forse non sa che c’è chi ci ha provato a imitarlo e le cose non andate per il verso giusto. Teniamoci Orelli e lasciamo perire gli orellismi.

Stefano Vitale

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