Luisa Pianzola

UNA SPECIE DI ABISSO PORTATILE


( Ediz. La Vita Felice)

UNA SPECIE DI ABISSO PORTATILE
Luisa Pianzola

foto_pianzola_vitale
Poesia fredda, eppure talvolta calda, bruciante; poesia che si estranea mentre altre volte affonda la lama nel pieno di una ferita già aperta: poesia che si muove a zig zag su un cornicione stretto senza timore di intrecciare un lessico quotidiano e piano con una visionarietà soggettiva sfuggente. I testi di Luisa Pianzola, dopo “Il ragazzo donna” del 2012, ci riportano ad una poesia dalla scorza enigmatica ma non cripticamente arbitraria, una poesia diretta ma non certo facile e di consumo, una poesia politematica e persino polimorfa, ma coerente, quasi didascalica in certi momenti. I testi di Pianzola oscillano tra la maschera (indossata o raccontata) e la denuncia dell’inganno cui vorremmo o dovremmo sottrarci e mostrano un piglio etico antiretorico.

“Una specie di abisso portatile” conferma la tendenza di Luisa Pianzola ad “un interrogarsi rigoroso sulla memoria e sul presente “ e lo fa con “lingua viva” prendendo di petto temi attuali o sempre attuali: il tempo, il lavoro, il corpo, l’amore. Lo fa, come detto, muovendosi su più piani.
La bella poesia d’apertura dedicata all’eccidio di operai italiani emigrati in Francia avvenuto nel 1893 ad Aigues-Mortes, un paese di miniere di sale, è un esempio di come Pianzola ci inviti prendere le distanze dall’orrore con occhi svagati e quindi forse più terribili, ponendo l’accento sul contrasto tra il contenuto e la forma scelta. Ma questa distanza non ci salva dall’entrare nell’altro orrore che interessa Pianzola: quello del quotidiano. La memoria spinge a calarsi nel tempo presente per comprendere l’accaduto: “I cercatori si sale, coloro che bucavano le pietre/ per trarne monete, salivano in squadre allenate/ a tormentare le rive i pianori le chine disfatte in sequenze. … E’ un fatto che la storia/ ha registrato, gli elenchi dei caduti e delle loro età/ nel momento di massima fierezza.” p. 9. Ma anche per aprire nuove porte nel “dolore perso”.
Cosi ci si trova immersi in una modernità che ci riguarda coi suoi miti, le sue banali consuetudini, le inconsapevoli ingenuità: la poesia di Pianzola vuole essere un po’ la cattiva coscienza, magari anche infelice, di un “capitalismo quotidiano e famigliare che riverbera di non detti, come di frasi rivelatrici e cattivi pensieri” .

“Miniserie” attraversa con quattro poesia le vite di uomini e donne alle prese con il grigiore dell’anonimato esistenziale che definisce il nostro tempo. Mode, vezzi, conformismi, desideri, piccole speranze e una sempre nuova antica “fatica del vivere” alla periferia di noi stessi: “i resi li abbiamo dimenticati in un conteggio/approssimativo” (pag. 17).
Il paesaggio è appunto quello della periferia, senza retorica, senza pasolinismi facili, ma ricca di sferzante lucidità: “in questa città, in questo urlo di confine/spendiamo il ragionevole per bisogni essenziali” (pag. 18).
La sezione successiva che dà il titolo al libro è centrale. Emergono i temi portanti: la Lingua, il Corpo, il Tempo, l’Amore. La lingua che “distesa/ a cercare il solvente più adatto, la risorsa più accorta” (25); che “come il paguro metti su casa di lato/mantieni il disastro a una distanza ragionevole/Il meteo dice varabile, vuoto”. Il tempo che spietato “tutto cambia./la materia dei sogni e delle foreste/l fissità dello sguardo sulle cose”; il corpo “martoriato/un fardello da portare a spasso senza posa/un corto circuito in piena regola”; e l’amore “un orgoglio del mio essere qui a dire e non dire”.
Stilisticamente le poesie procedono per cerchi concentrici volteggiando come rapaci su un campo, poi le parole si fiondano al suolo in una chiusa decisa, utile per non cadere in una abisso, appunto. Lei usa volutamente un tono “basso”, intessuto di un lessico “semplice”, che procede per strappi, salti, in un “quasi parlato” che non dà immediati riferimenti. Come detto, il tono è comunque per lo più discorsivo e per questo più agghiacciante.

Ma ogni tanto una tenerezza fa capolino. “Il congedo inizia con una corsetta/di prima mattina. Prosegue con il controllo/della posta per sapere se il mondo si prepara,/…” ma la questione finale è “sapremo riordinare/il diario tenuto così in fretta”. E non c’è bisogno del punto interrogativo per capire dove si rischia di cadere senza l’inconsapevole felicità dell’inappariscente.
Ma si prosegue a strattoni, come in mezzo ad una folla alle cinque del pomeriggio in centro città.

In “Ricordo di Tania – Holodomor” torniamo alla grande storia, all’olocausto ucraino (1929-1933): si tratta di un testo che dopo la visione delle fotografie sui pogrom antiebraici in Ucraina, durante il secondo conflitto mondiale, ci riporta a un sentimento di inumanità da cui è difficile sfuggire. Pianzola ci mostra, in un gioco di prospettive, il dolore, ma anche l’indifferenza, la paura e in molti casi la complicità del silenzio: “ A volte mi tolgo il cappello e ricomincio / da capo ma si vede che è un ritorno, un infinito ritardare. / Non rimangono che i buchi delle case…/“. p. 27.
Il fatto è che anche il mondo della cultura ha le sue responsabilità : “si avanza a spintoni e pigrizia intellettuale/un tragitto ininterrotto se non da soste per bere/ (qui mi ricorda certi caustici passaggi di Zeichen) p. 37. La rinuncia ad un impegno di chi “allontanando l’angoscia si ritrova la strada/qualcuno la merita, altri s’accontentano/ tutti in genere ci spaventiamo all’idea/ne c’infiliamo di corsa nel primo bar”. (p.39).

In altri testi, Pianzola da sfogo ad una sorta di singhiozzo del pensiero poetico che rende più viva l’intermittenza delle ore, degli eventi che rimandano, come detto, a storie lontane sempre attuali, a impressioni galleggianti come iceberg contro cui vanno a sbattere le nostre già poche certezze. E’ il caso di poesie come “I nostri vecchi..” oppure di “Le luci di ogni città…”, ma anche di quelle della sezione “La svuotata non teme la mattina” dove entra in gioco il surrealismo della realtà (“L’acrobata gamba” e “Ricordi di una gonna”.
Il ritmo del testo e delle immagini è sempre intermittente, depistante, frammentato e chiede al lettore cura e attenzione. Ad esempio, non c’è mai un paesaggio definito: anzi potremmo dire che in questo senso Luisa Pianzola sia anche antinaturalista, nel senso che il suo scenario, così contemporaneo, è privo di natura. C’è una lunarità nei suoi testi così spinta che persino i riferimenti all’io poetico sono policentrici, decentrati, sfumati in ogni caso.

Nella sezione “Touring” continua il gioco di prospettive visive, storiche, esistenziali che Luisa Pianzola ama proporre al lettore e si rafforza l’idea di un conflitto tra il dovere, il senso del dovere e della responsabilità etica e la fuga, forse impossibile. Fuga che trova una ragione nell’”io che resiste”, nella cura per gli oggetti, nell’ornare una giornata, nella danza, nel pellame delle Timberland.
E ci potrebbe aiutare la lezione dei piccioni, se siamo in cerca di certezze: “Nelle sere d’inverno, pochi elementi scelti/ della squadra se ne stanno impettiti sul filo/ da bucato, quello più esposto al rigore notturno./ …. Il cortile quadrato, per noi bisognoso/ di manutenzione, è la loro reggia perfetta,/ il fortino inespugnabile./” p. 76.
L’abisso portatile che noi stessi siamo ci attrae pericolosamente ma può anche salvare, forse.

Personalmente non vedo nella poesia di Pianzola degli “shock verbali” (Mario Santagostini), piuttosto ci vedo delle calibrature ritmiche, un uso accorto di un lessico che ormai è “pianzoloso” che tende ad essere antiretorico senza rinunciare al respiro, al passo cadenzato della poesia vigile e stranita al tempo stesso. Una lingua senza fronzoli e per questo, come detto, enigmatica, non sempre facile come potrebbe apparire, impegnativa, talvolta anche ruvida, ma carica di compassione. Già, perché Pianzola patisce coi suoi personaggi e sposta lo sguardo dietro le quinte della vita quotidiana scoprendo le ansie di uomini e donne, oggetti e adolescenti, di menti distratte, persi nei tram psichedelici di una poesia metropolitana.

Stefano Vitale

CONDIVIDI