D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
R. Manco per idea! Tempo e fatica, sudore e sangue, vita vissuta e feroce umiltà, possono sgrezzare, con un po’ di fortuna in più, quel misterioso istinto che qualcuno chiama talento (e che chi non lo ha, non se lo può dare): offrendo una base certa alla “professionalità” della scrittura. Che però non basta, se l’intento va oltre, è d’arte e poesia: qui ci vuole in aggiunta la “lunga pazienza” che sollecitava Rilke e il raro, insostituibile sorriso degli dèi.
D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto?
R. Per un saggio o una biografia, tutti quelli che servono al dominio della materia: e possono essere, a volte, centinaia. Per scopi più liberi e creativi, magari neppure uno, ad hoc: ma s’intende, tutto quello che hai letto, tutto quello che hai sperimentato, tutto quanto sai della vita, misteriosamente rifluisce in un atto che non è mai senza origini.
D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perchè?
R. Credo di avere in ogni campo solo diversamente modulato una stessa esigenza e è probabile che come molti sia in fondo autore di un unico libro. Ma quanto al giornalismo anche se ho sempre cercato di rispondere a particolari eventi con un punto di vista che non fosse già ampiamente exploité da altri, faccio mia la confessione di uno scrittore impegnatissimo come George Orwell : non potrei sopportare di scrivere un libro o un articolo di giornale, se ciò non fosse anche un’esperienza estetica.
D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
R. La buona scrittura non è di ieri o di oggi: è sempre tale. Se ha necessità d’essere solo d’oggi, puoi scommettere che non sarà di domani.
D. Di chi é la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
R. Di una storia tutto sommato infelice, di una nazione che ancora non è riuscita a esserlo del tutto, del ritardo provinciale delle élites, del gusto delle comode scorciatoie, dell’ignoranza popolare per secoli cara ai potenti e alla chiesa, che preservavano i fedeli dalla contaminazione alfabetizzata. E ancora, dell’accoppiata di cinismo e retorica che semina disastri, dello squallore cinematografico, della beota prassi televisiva, della neghittosità delle famiglie, del disastro scolastico post-sessantotto, del culto dell’arricchimento come meta prioritaria, dalla fuga nelle droghe o nell’esasperazione del fitness. Peccato: perché sotto sotto la virtù dei grandi, da Dante a Leopardi, non può essere del tutto svanita dal patrimonio genetico Perché dai nostri antenati ai nostri vecchi, malgrado i litigiosi vizi strapaesani, non si sapeva ancora cosa fosse la volgarità, e persino la povertà aguzzava l’ingegno, e un gusto innato correggeva i guasti dell’ambizione e della prepotenza.
D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
R. Non ho mai scritto né per il successo di pubblico né per quello della critica: ma nei limiti di chi non mira al best-seller, i miei libri che sono andati oltre le dieci, ventimila copie (La notte di Apollo, Saffo di Lesbo, Lo specchio greco…) hanno avuto recensioni lusinghiere. Ma all’insuccesso bisogna essere preparati e dal successo bisogna difendersi: mi affiderei a questa modesta regola.
D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
R. Quasi sempre di simpatia reciproca e di gratitudine, più raramente di burocratica routine.
D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
R. Dipende dall’Ego dell’autore e dalle sue segrete smanie: i premi di qualche consistenza finanziaria fanno comunque toccare con mano che non si sta vivendo e operando dentro la nuvola di una solipsistica fantasia.
D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica?
R. Nei tempi brevi di una vita, sì. Nell’Italia delle conventicole e delle rapinose tribù che si accampano al centro della scena e ci restano per decenni, più che mai. E una certa diffusa viltà letteraria, che da secoli serpeggia fra di noi, favorisce il malinconico andazzo: anche quello del do ut des, anche quello della pigrizia che evita un passo fuori dai sentieri battuti. Io che in quanto scrittore sono sempre stato per conto mio nonostante amicizie forti con alcuni dei nostri grandi contemporanei l’ho sempre saputo, e il meglio che potessi era non farne un dramma. In fondo, lo so bene: scrivo soprattutto per me o contro di me.
D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
R. No: uno grande no. Ma uno buono, sì.
D. Qual è il tempo massimo di fama per un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
R. Al più, una generazione. Ma la smemoratezza dominante uccide anche la fama di molti veri maestri.
D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
R. Cerco di farmene un’idea, almeno approssimativa. Ma non è detto che quello che mi convince convinca gli altri, o viceversa.
D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
R. Rinnegare no, rammaricarmi di non avere fatto meglio, sì.
D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
R. Mi consola, mi appassiona, mi diverte, mi sveglia: ma come lettore. Come scrittore, so che la mia, come quella altrui, è una strada solitaria, che deve prescindere dagli esempi esaltanti quanto da quelli deprimenti.
D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
R. Potrebbe darsi, ma non me ne sono accorto.
D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui in vivi? Cosa detesti?
R. Detesto l’arroganza, la volgarità, il fanatismo, la predicazione utopica, l’autopromozione a spese del dolore altrui, la prosopopea degli ignoranti lieti di esserlo, il clamore suscitato dal nulla, la disperazione della violenza.
Amo la superstite dignità dei sentimenti onesti, i sopravvissuti comportamenti decorosi, la difesa raziocinante della moderazione civile, i rari esempi di una visione disincantata della realtà e della storia; e il coraggio di chi si ostina ancora a pensare con la propria testa, di chi senza gridarlo sui tetti e scendere in piazza si batte contro l’endemico male di vivere e il cronico soffrire del mondo, anche se lo scorge appena fuori di casa, anche se non necessariamente in capo al mondo.
Detesto i deliri persecutori, su grande o piccola scala, e amo gli esempi di studiosa applicazione a ricavare il meglio che ciascuno può dare di sé nel tempo breve di cui disponiamo: ma con lieta leggerezza, evitando di sentirsi investiti di una trascendente missione.
D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
R. Impera da un pezzo: la certezza delle “magnifiche sorti e progressive” che attendono l’umanità. Credendoci, roviniamo il poco di buono che il presente può offrire.
D. Qual è il valore più importate che ritieni vada difeso o recuperato?
R. Il faticoso impegno a accrescere umilmente le nostre conoscenze ma senza lasciarsi vincere dall’accidia del cuore.
D. Dando un voto da 1 a 10, quanto sono della persona e quanto del “personaggio” le tue risposte in questa interSvista?
R. Se uno è onesto, è solo persona. Se il “personaggio” è autarchica produzione, il cielo me ne liberi; se è un’etichetta affibbiata dall’opinione altrui, é solo fastidiosa superfluità. Ambisco al 10 della sincerità, spero d’esserci riuscito.