D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
R. La scrittura non è professionalizzabile, in quanto non è trasmissibile, se non per intuizione del fruitore. Le scuole di scrittura sono una truffa, una furbata pubblicitaria di scrittori che usano rendite di posizione per arrotondare i profitti. Quando esistevano le botteghe di pittura perché la pittura era una funzione sociale didascalica: come oggi il giornalismo o la TiVi, c’erano gli inventori di nuovi stilemi: gli artisti, e poi c’erano gli artigiani, che riproducevano, per un secolo o tre, il canone con più o meno buona maestria, secondo sensibilità. La scrittura professionalizzata è sempre scrittura artigiana, al servizio della riduplicazione di luoghi comuni, a loro volta al servizio di meccanismi di controllo sociale: non tutti e non sempre da condannare sic et simpliciter, perché alcuni sono assolutamente imprescindibili per la vita comunitaria. E nella nostra la scrittura è uno di questi elementi di controllo, come tutto quello che è comunicazione. Si pensi ai due elementi tipici della comunicazione sociale: cibo e sesso, inscindibili da tabù e quindi dai connessi meccanismi di violazioni. I tabù, pur necessari, tendono a diventare fattori di mummificazione delle relazioni comunitarie; a bloccarle progressivamente. Da qui la necessità della trasgressione a rinnovare. La scrittura creativa è un processo di rinnovamento negli stereotipi della comunicazione. Qui risiede il talento originario della scrittura, ergo la funzione dello scrittore, che non può essere un professionista, perché chi rompe è sempre una entità problematica non socializzabile per la comunità, e a maggior ragione non professionalizzabile. E infatti la cultura di controllo ha creato la critica, che è strumento di controllo ed emarginazione dello scrittore, secondo l’esatta intuizione sul ruolo dell’arte nella città di Platone. Una realtà che si ripete continuamente, ma che la critica impedisce in Babilandia di scorgere. Di recente ho studiato il caso di Vittorio Imbriani (1840 – 1885), che Croce braghettificò ed espulse dal codice letterario nazionale, trasformandolo in bizzarro, ma lo stesso destino ha perseguitato tutta la scrittura creativa del 900: si pensi ai casi Fenoglio, Morselli, Lampedusa, di fatto scritori postumi e braghettificati. Un altro caso esemplare è quello del Verga, trasformato in scrittore populista, a nasconderne il profondo pessimismo, dalla braghettificazione novecentesca, che è stata l’emanazione di quel grande braghetta che è stato il De Sanctis: tutta la sua storia della letteratura italiana è pura braghettificazione.

D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto?
R. Almeno un duemila tutti a uno, ma, almeno per me, la lettura non ha alcun rapporto con la scrittura. La scrittura non si situa come continuazione della lettura: il racconto determina l’ascolto. Che poi ascoltando si impari in proporzione alla capacità di ascolto, è pura ovvietà. E però proprio una grande capacità di ascolto può diventare un grave impedimento, perché può imprigionare in stilemi. Dante divenne Dante perché, a differenza del non meno talentuoso Guido, ruppe con la poetica stilnovista. Vero che Guido morì prima, ma per i risultati conta soltanto la vita. Soltanto la vita qui fa gioco, anche se medium maghi e preti affermano concordi il contrario.

D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perchè?
R. I generi fanno parte del meccanismo critico di controllo e riduplicazione dell’ordine sociale attraverso il canone letterario, anche se non sono mai una invenzione dei critici, o costruttori di poetiche, che vengono ex post. Normalmente un genere è una risposta originale di un creatore che cerca ingegnosamente di evitare il controllo sociale. Per esempio: il giornalismo sorse come scrittura creativa nel secondo ottocento, dopo che alla fine del 700 il libello aveva svolto questa funzione di critica sociale (Lettere persiane di Montesquieu, Della Tirannide dell’Alfieri, …..) ma dopo il caso Dreyfus: il ruolo di Zola, non ci fu più in Europa scrittura giornalistica creativa per la pressione delle forze politiche, se non in zone periferiche, come appunto nella Vienna di K. Kraus. La borghesia, ma anche i capi del socialismo volevano ormai della pura buona stampa di tipo clericale. La stampa dei gazzettini dei vari santuari: questo è la stampa e quindi il giornalismo oggi. C’è più spazio nella poesia e nel romanzo, ma perché la loro è una lettura episodica e inefficace. Nessun romanzo o saggio o raccolta di poesie ha esercitato il minimo influsso sulla società del XX secolo, i cui termini culturali restano quelli delle grandi dispute ottocentesche: Darwin, Marx, Freud, Schopenhauer la Kant filosofia, che il cinema e non la scrittura ha divulgato. Il XX secolo di proprio originale ha approfondito, attraverso Levi_Strauss il tema antropologico, ma la nostra cultura ha assolutamente rifiutato di accettare il contributo fondamentale dello strutturalismo: la natura autonoma e autosufficiente di ogni civiltà. Ma se si capisse Levi-Strauss non si perderebbe tempo a discutere in Assisi preticole varie di scambi tra civiltà o della possibilità di convivenza tra Islam e società laica. La risposta è già scritta in quel solo vero capolavoro speculativo del 900 che è Tristi Tropici, ma chi lo legge ancora?

D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
R. Come ho chiarito sopra, la mia convinzione strutturalista mi porta a ragionare che ogni preparazione culturale è una sorta di a priori kantiano che determina ognuno entro il proprio tessuto sociale, sicché è sempre differente da evo a evo, ma anche da persona a persona, entro il proprio evo, o non si sarebbe mai usciti dalla trappola del clericalismo cristiano, il bolscevismo non sarebbe crollato, e per gli islamici, sarebbe eterna dannazione terrena. Soprattutto non ci sarebbero differenti scritture. Ovviamente i Braghetta sttolineano il fenomeno opposto, a difesa del conformismo sociale: l’omogeneità stilistica entro una certa società, tra scrittori coevi, l’unità di scuola: che però è un tratto negativo, e infatti sottolineato laudativamente dalle consorterie della braghettificazione.

D. Di chi é la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
R. Non è vero che gli italiani leggano poco: si vedano le tirature degli orrori del comunismo editati dalla propaganda berlusconiana, e il simetrico libro elettorale berlusconista sulla sua vita e opere pie: degli italioti per Lui. Ogni società fa le letture che le servono. Gli italiani leggono, con le panzane berlusconiane, il libro del lotto, i tarocchi, i programmi televisivi, le guide per i viaggi, i calendari, i quotidiani sportivi: siamo i soli al mondo che ne hanno tre. Perché dovrebbero leggere invece libri noiosissimi e senza senso del tipo le raccolte poetiche di Luzi, i romanzi della Tamaro o Bevilacqua, o le ribolite di Bruno Vespa? Io direi invece che esiste purtroppo un nucleo di italiani medi fessi che leggono ancora troppa della merda che inchiostra il 99% delle pagine stampate o virtuali nella lingua del sì.

D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
R. Beato a chi gli capita.

D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
R. Visto che sono già oltre il dantesco cammin di nostra vita, mi permetto una riflessione per chi è più giovane. Ogni editore ,è un disperato che è caduto nell’illusione di dare forza a un certo progetto di vita civile. Senza una tal baggianata in testa non si fa l’editore. E senza essere un po’ fessi. Basterebbe, ad evitare la sventura di diventare editori: perfin peggiore di quella di diventare scrittori, che chi vezzeggi l’idea di buttare soldi in una casa editrice, riflettesse su quanti libri di successo e quanti libri che poi dureranno e saranno rieditati dopo un secolo, grandi case editrici quali la Mondadori, la Einaudi, la Laterza hanno editato in ormai quasi un secolo di attività. Stabilito che ogni editore è un sognatore, accade molto spesso che il singolo autore voglia imporgli il proprio sogno come il suo sogno. Va da sé che l’editore si scocci e reagisca mandando a quel paese l’autore. Da qui il costante stato di tensione tra tanti autori e loro editori, anche se a volte capita che ci siano editori senza sogni propri, come il defunto Giulio Einaudi: che faceva sognare per lui il MinCulPop(polo) marxista in forme di Calvini e Bonichi Davini vari, o MimmeMondadori: che si bevve poi per suo quell’Orcinus Orca di sogno che sognò D’Arrigo. Normalmente un editore cerca dei buoni sogni sulla sua lunghezza d’onda, sicché quando si cerca un editore, scorrere il catalogo e non pretendere di portargli nulla di nuovo, a meno di non essere il D’Annunzio ormai alla moda: che si faceva comprare i libri dallo stato, sicché Mondandori aveva le tirature del Vate garantite dal Duce: così fece la lira. Stessa politica fanno oggi ministri e deputati: ecco perché grandi editori pubblicano le loro schifenze. Ma chi non può far comprare le proprie opere dallo stato, o dai credenti vari, o discepoli, more universitaricolo, e non ha i soldi per pagarne l’edizione, cerchi verso il sogno dell’editore più prossimo al proprio, senza però troppe aspettative. Un editore segue almeno sempre tra tre, quattro e trenta quaranta opere in tipografia. Vuole a tutte bene, ma alla maniera del magnaccia: sempre pronto a dare una labbrata alle sue troie. E infatti anche l’editore con il quale traccheggio e condivido molte illusioni non si perita di darmi ogni tanto delle tremende scopole, ma siccome i soldi se li gioca lui, visto che non è mai una questione di censura di idee, vado a mettermi nel suo punto di vista. O meglio in quelle che egli crede le attese del suo pubblico, che è poi il ragionamento di tutti gli editori. Giusto? Sbagliato? Chi paga la festa ha dei diritti sulla medesima. Poi ci sono i direttori editoriali e gli editori che sono scrittori mancati, ma non lo ammettono. Da quelli tenersi alla larga, perché pretendono da ogni loro autore che scriva il libro nella cui scrittura al momento vorrebbero scapricciarsi. Tenersene rigorosamente alla larga, a meno di non avere particolare inclinazione per l’amore di gruppo.

D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
R. Siccome l’ultimo e unico premio di una certa importanza l’ho vinto da poco più che bambino, e non credo l’esperienza mi ricapiterà, anche qui posso dire ai giovani speranzosi la savia parola del nonno. I premi si vincono quando la giuria la ragiona come te. O in ogni caso sei meno antipatico degli altri concorrenti alla giuria. L’ideale è essere assolutampente ignoti e fare finta di. Circa la borsa, è sempre troppa per chi organizza e poca per chi incassa. La verità è che, proprio come le corse dei cavalli non sono nate per i cavalli, i premi letterari non sono nati per gli scrittori, ma per le giurie: col pretesto di discettare di libri i giurati si riuniscono in conclavi gastronomici e si strofinano reciprocamente i loro deretani vanitosi. E infatti nei premi per bene il vincitore viene cooptato: insomma, anche i premi letterari fanno parte del meccanismo di braghettificazione dell’universo letterario: ne sono la quint’essenza. Ne consegue che più uno è presente in diverse giurie letterarie e più è un braghetta. E infatti ci sono braghetta che stanno in venti, perfin in cinquanta giurie, magati dal napoleonico sogno di essere anche loro una cosa come Carlo Bo. Perfin in me c’è una certa invidiuzzzaah per quel boh, che dicono faccia di nome Carlo, uno che boh, cos’ha scritto, cos’ha detto bob bobh bobobo. Ma da non confodersi con Bo bo Cra xi o Barberi Squarotti: stanno vette himalaiane sotto.

D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica?
R. Come da due estremi opposti coincidenti i casi Majakovskij e Manzoni didatticizzano, l’appartenenza a una corrente ideologica significa la inevitabile morte artistica. Venendo al corno politico, uno scrittore che fa politica con strumenti diversi dalla sua scrittura o è un fallito come scrittore o perde tempo, perché la scrittura è politica. Il fatto è che la politica militante strofina molto più piacevolmente le proprie vanità: Dante docet. Se a Firenze lo avessero impriorato un’altra decina di volte, ti saluto Commedia Divina l’autore troppo impegnato nella propria terrena. Idem il Machiavelli, se i Medici gli avessero dato spago.

D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
R. E’ un bel rebus.

D. Qual è il tempo massimo di fama per un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
R. Dipende dalla vita ideologica della consorteria che lo ha reso famoso. Per esempio: il giorno che sparisse il cristianesimo come religione praticata, chi leggerebbe ancora san Paolo o sant Agostino se non storici delle religioni specialisticissimi? E chi leggerà più il Corano dopo la scomparsa dell’Islam o sentì mai la necessità di leggerlo in aree non islamiche, se non per ragioni di studio della patologia umana, e idem la Bibbia. Perché l’idea di un dio infinitamente misericordioso che crea un mondo come il nostro: con gente come le bestie vaticane o imame, può essere pensata solo in reparti di manicomio. Per nascondere questa verità elementare evidente, e così ben alluminata da Celso nel Discorso di Verità, i nostri cattomarxisti, negli anni 70, hanno aderito all’idea manicomiale di tal Basaglia e soppresso per legge la malattia mentale. Che poi per effetto delle legge demente alcune decine di miliaia di famiglie siano state devastate e alcune centinaia di persone sia state assassinate, non è questa una questione che preoccupa il politico, e soprattutto quello italiota.

D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
R. Per me il problema è mettere la parola fine. Circa il valore di un mio scritto, credo con Valery: I miei versi hanno il segno che gli si presta. Quello che io gli ho dato non serve che a me stesso.

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
R. Non meno che alle vanità, alla meschinità è arduo porre un limite.

D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
R. Né l’uno né l’altro: mi rinfranca.

D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
R. Puto non si scriva che quella.

D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui in vivi? Cosa detesti?
R. Amo me stesso, Publio Terenzio Afro, Giordano Bruno e altre care ombre. Non detesto nel profondo nulla. Provo al più compassione per la sventura di chi, per dirla con Gozzano è nato Gabriele D’Annunzio; ovvero papa imam ecc ecc

D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
R. Ogni evo, con ammirabile tenacia, alla superstizioni che ha ereditato, ne aggiunge di nuove. Tra noi a quelle di ieri, d’ampio spettro tra l’immacolata concezione e il bevete Coca Cola, il più recente addenda è Berlusconi. Ma se togli tutti questi luoghi comuni o superstizioni, cosa resta? Il mondo ne sarebbe migliorato dalla cancellazione? Possiamo credere che D’Alema migliorerebbe l’Italia al posto di Berlusconi, senza finire per aggiungere un’altra superstizione? Credo sia più saggio i luoghi comuni lasciarli campare e morire come tutto il resto, perché come tutto il resto servono a fare questo mondo che, non va mai dimenticato, a dirla con i buddhisti, non è l’inferno più profondo, ma è già un inferno. E in questo nostro inferno i luoghi comuni sono appunto chiamati a svolgere la loro infernale funzione, in mano ai vari grandi sacerdoti di turno. Fortunatamente il nostro presente sgangherato impedisce ai D’Alema, Berulusconi ecc ecc di esercitare i loro culti superstiziosi alle tragiche enfasi dei tiranni bolscevichi, inquisitori medioevali, imam sciiti ….

D. Qual’è il valore più importate che ritieni vada difeso o recuperato?
R. Per uno strutturalista filobuddhista con forti nostalgie di paganesimo popolare è una domanda che non ammette risposta, perché darla significherebbe affermare un principio assoluto trascendente, anche se correlato al proprio tempo. E cioè cadere in quei modelli di pensiero totalitario dogmatizzante dai quali chi scrive ha impiegato anni a districarsi. Il che però non significa una negazione di ogni valore etico. Una società senza etica è una società senza possibilità di leggi, o meglio di difenderle. Ma questa difesa va attuata entro una chiara coscienza relativizzante: di ricerca del minor danno e del più ampio rispetto possibile per le differenze, che non devono però estendersi fino a ledere la possibilità di esistere della mia differenza. A questo punto: contro una differenza islamica o bolscevica, o gesuitica, sono pronto a combattere a difesa del mio spazio. Se proprio in una formula dovessi però comprimere la risposta, ritornerei a quel passo di Terenzio, tratto da il persecutore di sé stesso: homo sum, humani nihil a me alienum puto.

D. Dando un voto da 1 a 10, quanto sono della persona e quanto del “personaggio” le tue risposte in questa interSvista?
R. A Suo piacere, Cara Amica, da 10 a 1 e/o viceversa.

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