D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
R. Nella scrittura, come in ogni forma d’arte, il talento è determinato dalla sensibilità, il resto è comunicazione. Se c’è del genio, ossia la capacità di comunicare in forme adatte le profonde intuizioni della sensibilità, il talento è sufficiente, altrimenti occorre l’applicazione.

D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto?
R. Quando lavoro ad un saggio, i libri specifici li leggo sempre dopo la prima versione per non essere condizionato. Poi, non avendo le illusioni di Comte, leggo tutto ciò che è attinente per “dare a Cesare”, nei limiti del possibile, “quel che è di Cesare”. Dunque la quantità di libri letti specificamente dipende dal tipo di lavoro. Per la narrativa e la poesia la lettura “durante” non è necessaria e comunque è legata solo per l’ambientazione a quanto si scrive. Ovviamente la memoria libresca, soprattutto quella emotiva, agisce su di noi, anche se meno della vita.

D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perchè?
R. Risponderò al contrario. Riguardo i quattro generi citati, diciamo che non mi ha mai attratto la scrittura giornalistica, perché essa antepone, obbligatoriamente e giustamente ma disgraziatamente, la comunicazione alla significazione. Ciò è negativo epistemologicamente, quindi è sfavorevole alla verità letteraria, ossia alla giustizia, alla bellezza.

D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
R. Sì, dal Settecento in poi non si può più prescindere dalla cultura filosofico-scientifica e questo perché è essa ad interagire con le forme del nostro pensiero. Ritengo, invece, che sia possibile fare a meno dell’erudizione, in quanto le nozioni sono più facilmente accessibili, e delle patologie mentali di natura metafisica – intendo dire che la metafisica, seppure è congenita alla conoscenza, è da espellere, nei limiti del possibile, come ordinamento della stessa e come modello del pensare.

D. Di chi èla maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
R. Non è vero che in Italia si legge poco, basta frequentare le biblioteche per rendersene conto. Piuttosto si vendono pochi libri, ma di questo sono responsabili le imprese editoriali, per il costo dei libri e perché credono che la banalità sia più attraente della profondità. Io nell’insegnamento ho invece notato di aver costruito più lettori con Musil e Proust che con Mancinelli o Ammaniti, perché leggere è come cercare tesori e se non li si trova, o se si trovano sempre gli stessi, alla fine ci si stanca.

D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
R. Non ho fiducia nei critici, non solo, com’è naturale, in quelli venduti agli uffici stampa delle case editrici o alle ideologie, ma neppure in quelli onesti, in quanto il valore di un libro non è diagnosticabile. Personalmente ho un solo criterio di valore: la profondità emotiva e intellettuale, ma so bene che non è ancora sufficiente, anche se è il solo abbastanza astorico. È tutto ciò che vi è di storico nel giudizio, e non parlo solo del gusto, a negare valore alla critica. Tuttavia non mi dispiace, per vanità, l’apprezzamento dei critici onesti. Come non mi dispiacerebbe, per non dover sempre faticare a trovare un editore disposto a pubblicare i miei libri, l’apprezzamento del pubblico; ma senza dimenticare che è lo stesso pubblico, stupido, che segue le indicazioni dei critici disonesti.

D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
R. Gli editori mi hanno sempre fregato, nonostante io li amassi, o forse proprio per questo.

D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
R. Sono a conoscenza di troppi fatti relativi a molti premi letterari importanti per potermi sentire appagato se ne vincessi uno. Quindi la vittoria in un importante premio letterario appagherebbe solo, almeno in quel caso, la mia borsa. Mi stupirei, alla luce dei fatti, se sapessi che ci sono autori che, nel proprio intimo, la pensano diversamente; li giudicherei ottusi.

D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica?
R. Forse, ma ci sono influenze più meschine.

D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
R. Sí, e proprio perché il grande scrittore di norma è umile e non si prostituisce. Anche se gli agenti letterari, se onesti con lui, possono dargli una mano ad essere scoperto. Ma non si speri troppo nei critici e, meno ancora, negli editori.

D. Può durare oltre la sua generazione la fama di un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
R. Purtroppo sí. E questo avviene anche a distanza di secoli, perché la notorietà assorbe i valori dell’epoca. Si pensi a Marino, che oggi rappresenta la sua epoca. O a Foscolo e ai suoi plagi più o meno riusciti. O, più vicino a noi, a Vittorini. Anche se a volte avviene l’opposto, con l’ipervalutazione degli scrittori negletti da vivi.

D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
R. La consapevolezza è altalenante, ma mi basta lasciare un po’ a riposo l’opera per poterla giudicare più chiaramente.

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
R. A volte ho desiderato rinnegarne anche la paternità, ma solo per un fattore stilistico.

D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
R. L’uno e l’altro. Ma mi scoraggia solo alla prima lettura.

D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
R. Tutte le opere che ho scritto, tranne le prime nelle quali agivo quasi al risparmio per non sprecare le mie emozioni prima della loro maturazione, sono quelle che ho volute scrivere, almeno come impostazione. Ma so che ciò vale per tutti gli scrittori, altrimenti scrivere avrebbe ancora meno senso. Circa gli esiti, ed è senz’altro questo che intende la domanda, tre di esse mi soddisferebbero appieno (sono anzi migliori di quanto mi aspettassi) se non fosse più forte l’insoddisfazione per le altre che ho scritto.

D. Prima, durante, dopo il parto letterario: cambi umore durante queste tre fasi della scrittura?
R. Solo durante; in quel momento la mia emotività e la mia intellettualità sono agli eccessi. A seconda poi del tipo di eccesso, viene il tipo di scrittura: poetica, narrativa o saggistica.

D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui in vivi? Cosa detesti?
R. Amo la natura e la letteratura e amo gli uomini che rispettano l’una, l’altra e gli altri uomini.
Detesto il provincialismo, sia quello campanilistico, sia quello ottuso, sia quello vanitoso.

D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
R. Che l’abito fa il monaco. È a causa di questo luogo comune, sorto oggi sul risvolto di quello classico, che il maleducato passa per genio, lo strafottente per forte, il vincente per grande, lo stravagante per anarchico, e così via.

D. Qual è il valore più importate che ritieni vada difeso o recuperato?
R. La tenerezza.

D. Dando un voto da 1 a 10, quanto sono della persona e quanto del “personaggio” le tue risposte in questa interSvista?
R. Tutto ciò che non sono riuscito a comunicare concettualmente appartiene alla persona. La comunicazione, così come ogni tipo di relazione, compete inevitabilmente al personaggio. È questa, suppergiù, una scoperta di Simmel e di Pirandello.

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