D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
R. Al contrario, è di ostacolo. La scrittura professionale è una tecnica che si acquisisce e che ci fa scriventi. La scrittura è l’esistenza tout-court, quel che non accetta di passare nel Nulla senza una traccia. Professionale è l’invenzione di tracce dietro le quali non c’è Nulla: il contrario esatto dell’Altra.

D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto?
R. Un numero compreso fra zero e molte centinaia, secondo i casi.

D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perché?
R. ….

D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
R. No: esige la sua totale assenza, come dimostrano le sue pletoriche e pleonastiche esibizioni. Io appartengo all’oggi come un orologio: segno il tempo esterno, nascondo quello interno.

D. Di chi è la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
R. Della Chiesa, della Scuola e degli Editori, o – in una parola – del fatto che mentre Altrove ramificava l’Illuminismo, qui seguitava ad allignare la fioca sinopia del Credo, della superstizione, dei proverbietti da osteria, e non ultimo quella strana, lubrica ibridazione della società dell’immagine con l’eterna Maschera dell’apparenza: infine, il pregiudizio assurdo e umiliante che la Salvezza venga dall’esterno, e non dall’interno (il libro non è esterno al lettore, ma solo all’occhio).

D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
R. Per il primo ho sempre in serbo un rosso d’annata: per il secondo, Champagne. Non meno che Champagne (amaro, il va de soi).

D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
R. E’ di profondo rispetto da parte mia per il lavoro altrui, e di presaga certezza che difficilmente potrò essere ricambiato. (ci sono poi casi nei quali parlare di editori è un vero sopruso: e non solo ai danni dei tipografi).

D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
R. Né l’uno né l’altro. a meno che l’Uno sia il Pulitzer e l’Altro sia indetto in Atlantide.

D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica?
R. Purtroppo sì: sì, purtroppo. (didascalizzavo l’ideologia del Rispecchiamento nei Gusti del Pubblico. Come se il Nulla potesse riflettere il Nulla!)

D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
R. È’ quasi necessario.

D. Può durare oltre la sua generazione la fama di un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
R. Può durare quanto vuole: resta il fatto che la sua mira, la sua intima rapacità, è invece l’Istante, cioè il Furto Perfetto: quello che non lascia tracce, perché il Bottino stesso non è poi altro che la dignità del’autore. La domanda andrebbe dunque parafrasata: potrebbe durare in eterno la fama di un Arsenio Lupin il cui talento fosse ‘limitato’ alla schizofrenia con cui deruba – Arsenio Lupin?

D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
R. No, perché a loro non ho niente da dare, e se va bene qualcosa da prendere. Questo è infatti il salario dello scrittore.

D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
R. Sempre, e in due diversi modi esteriori: nei decenni precedenti l’esordio incendiando i miei ridioli manoscritti, e negli anni successivi lasciando l’onere alle più resche energie dei ‘lettori’.

D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
R. “Se esistesse, mi stimolerebbe” (aforisma di anonimo ionico a proposito del problema di Parmenide: l’essere non può non esserci. Leggendo l’aforisma che ho appena citato fra virgolette, sui stimolato a sapere che non esiste niente: a cominciare dal Nulla).

D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
R. No, ovviamente. Altrimenti non scriverei queste righe: che forse la incarnano.

D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui in vivi? Cosa detesti?
R. Amo le bestie, i viaggi, i libri e gli oggetti antichi, i viaggi e le cene in trattoria. Detesto tutto il resto, che ogni tanto mi attardo a ‘elencare’ (elencazione che rappresenta il nero d’inchiostro in quel che scrivo).

D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
R. Ogni luogo è comune, per definizione, perché non è un corpo ma un mero principio di ospitalità: ogni corpo lo può alternativamente occupare. Piuttosto, c’è un luogo eccentrico, eretico e però trionfale, che non abiterei mai e per il quale non sono mai nemmeno per caso transitato: la ‘fede’ (=astuta e interessata credenza) che in ognuno di noi si annidi un genio incompreso, genio che solo la cattiveria dei censori o l’avarizia degli uomini di gusto avrebbe sinora schiacciato nell’inferno dell’anonimato e della clandestinità.

D. Qual è il valore più importate che ritieni vada difeso o recuperato?
R. Lo stile, il garbo, il buon gusto. Parafrasi verbale: la scoperta, sempre possibile, che Vanità e Lavoro sono sinonimi, sebbene in due Dizionari che come gli antipodi non possono mai toccarsi.

D. Dando un voto da 1 a 10, quanto sono della persona e quanto del “personaggio” le tue risposte in questa interSvista?
R. Io non sono io se non perché in me lascio che transitino, come su un ponte di liane, i due signori che evochi: e che a metà cammino si scambiano i rispettivi prigionieri, sicchè l’uno diventa l’altro, senza residuo, né di numeri né di decimali.

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