D. Per scrivere da professionisti, basta il talento innato?
R. Non esiste uno scrivere “da professionisti”: esiste un unico modo di scrivere ed è lo scrivere restando fedeli a se stessi, nel bene e nel male, palesando i propri pregi e i propri difetti, indagandoli e cercando le connessioni con il proprio scrivere proprio in un meccanismo circolare che serve a pervenire ad una fedeltà sempre maggiore. E’ tra l’altro un meccanismo che consente a volte di scoprire che alcuni dei propri pregi sono in realtà difetti, e viceversa. Ed è una visione tutto sommato pragmatica dello scrivere, anche se assolutamente non cinica, siccome non credo, come credeva Ben Jonson, che solo un uomo buono può scrivere una cosa buona (la storia della letteratura, della musica, dell’arte ci porterebbero anzi a credere al contrario…): solo l’uomo che accetta se stesso (pur cercando di migliorarlo senza snaturarlo) può scrivere una cosa degna di appartenere alla letteratura.
La verità, poi, è ovviamente un’altra cosa: già un’attentissima osservatrice dei fenomeni letterari (innanzitutto i propri) come Laura Riding affermava che non può esistere un equivalente letterario della verità e che ogni successo di un’opera letteraria è un successo dell’autore in quanto persona.
Con tutto questo, credo molto poco alle cose innate, e dal discorso appena fatto deriva che il talento non esiste ma esiste una umiltà e disponibilità a guardarsi senza finzioni.
D. Su per giù quanti libri hai letto per ogni opera che hai scritto?
R. La questione non è quanto si scrive (scrivere molto è a mio avviso anche terapeutico) ma quanto si seleziona, si salva, si pubblica. E pubblicare poco è importante, anche se la nozione di “poco” dipende da quanto si è scritto; voglio dire che se un autore avesse nel cassetto cento romanzi e ne pubblicasse nell’arco di alcuni decenni diciamo una decina di un certo valore non avrebbe esagerato, mentre esagererebbe chi ne pubblicasse tre su cinque scritti durante la vita. Può apparire una aridità aritmetica, lo riconosco, ma l’attuale sovrapproduzione e l’alfabetismo di massa (e conseguente arcinoto analfabetismo di ritorno) richiedono operazioni urgenti e una certa inflessibilità.
Per quanto mi riguarda, comunque, posso dire di aver iniziato a scrivere dopo aver letto molti volumi, specialmente durante alcuni convulsi anni adolescenziali, letture che avevo scelto tra libri di ogni genere: romanzi, poesia, saggi, libri scientifici, biografie… Ma occorre poi precisare che per scrivere occorre leggere moltissimo ma non è affatto sufficiente: bisogna vivere, faticare, soffrire… e soprattutto non frequentare nemmeno il quartiere in cui sorge una scuola di scrittura.
D. Poesia, narrativa, saggistica, giornalismo: se un genere ti ha catturato più degli altri, sai il perchè?
R. (Vedi sotto)
D. La scrittura di oggi esige una differente preparazione culturale rispetto a quella necessaria ieri?
R. Rispondo in una soluzione unica alle due domande.
Come ho detto prima ho letto da subito libri quasi di ogni genere, anche se come scrittore dopo pochi tentativi di prosa ben presto abortiti ho scritto quasi solo poesie per anni. Ma continuavo a leggere di tutto così nel tempo ho iniziato altre opere di ogni tipo: raccolte di poesia, commedie (questa è un’anomalia siccome non avevo praticamente letto teatro prima di scrivere la mia prima commedia, buttata giù in pochi giorni a differenza dei miei soliti tempi di composizione decisamente lunghi), aforismi, un po’ di critica letteraria… e in seguito un romanzo, oltre a scritti d’opinione e scritti sull’arte e sulla musica che però a lungo terrò nel cassetto.
Più in generale, comunque, ritengo che per me sia stato molto utile leggere anche cose che non mi interessavano moltissimo: penso agli scritti giornalistici di Sanguineti e di Eco, ad esempio, che spesso trattavano argomenti che non mi coinvolgevano ma la cui prosa ha suscitato in me il desiderio di tentare una dizione similmente personale in poesia. Da qui in poi gli esempi e le citazioni che potrei fare diventerebbero numerosissimi…
Quanto ad un discorso meno personale mi sento di dire che anche se non esistono ricette culturali per una buona scrittura continua ad essere necessario un esercizio di lettura quanto più vasto possibile, e inoltre i letterati dovrebbero rendersi conto del loro ritardo mentale e dedicarsi con diligenza a un poco di studio della filosofia e delle materie scientifiche ed artistiche. Occorre poi ricordare quanto il mondo di oggi sia più complesso di quello che i grandi del passato si apprestavano a descrivere. Non penso ad uno scrittore tuttologo, siccome l’uomo dotto raramente è uno scrittore profondo, ma ad uno scrittore che non si crogiola nella propria marginalità.
D. Di chi è la maggiore responsabilità se in Italia si legge così poco?
R. Secondo Arnoldo Mondadori è del sole: la gente preferisce farsi delle passeggiate siccome qui c’è bel tempo. Secondo me invece in Inghilterra leggono di più non perché piove ma perché i libri costano meno… Ci sarebbe da fare un discorso molto ampio, però, che coinvolgerebbe la scuola, l’editoria, il mercato, la famiglia… un discorso per fare il quale non ho né i dati né la competenza. Resto però convinto che la base del problema sia la mediocrità, e che la radice della mediocrità sia la pigrizia.
D. Come lo vivresti un eventuale insuccesso di critica e successo di pubblico?
R. Ho lottato così a lungo contro la critica che potrei persino sopportare un successo di pubblico. E poi dipende dalla portata del successo…
Scherzi a parte né il successo di critica né quello di pubblico garantiscono la bontà di un libro, e in nessuno dei due casi l’autore può permettersi di sentirsi “arrivato”. Se non che oggi un successo di pubblico inatteso – dal momento che oggi il passaparola è più efficace di qualsiasi recensione – solitamente garantisce un ritorno della critica sui propri passi, cosa che la situazione contraria non garantisce.
D. Il tuo rapporto con l’editore è generalmente più d’amore o di odio?
R. Di collaborazione con tutti gli editori con i quali ho rapporti, nel rispetto reciproco delle esigenze (quelle dell’uno appaiono sempre piuttosto assurde all’altro e viceversa…) e senza dare troppo peso alle rispettive episodiche sfuriate.
D. Vincere oggi un importante premio letterario, appaga l’Ego dell’Autore tanto quanto soddisfa la sua borsa?
R. Purtroppo lo appaga ben di più di quanto lo rimpingua, siccome gli autori sono quasi tutti così stupidi da esaltarsi anche se vincono il tradizionale terzo premio a Roccacannuccia.
Io stesso ho scritto diversi contributi sui premi letterari, ma ormai la questione inizia a stancarmi: mi sento ora solo di dire che ricevere un premio senza manovre illecite è un onore siccome degli sconosciuti hanno ritenuto la nostra opera degna di un premio e vogliono darle risonanza, e incontrare l’autore a una cerimonia, e questo deve portarci ad essere grati senza tuttavia che ci riteniamo investiti di qualcosa. Io ho avuto alcuni premi, importanti e no, e sono grato a quelli che mi hanno permesso di far leggere di più le mie cose e di conoscere persone molto interessanti, alcune diventate anche preziosi amici. Questo, oggi, è davvero molto.
D. Incide, nel successo di uno scrittore, l’appartenenza ad una corrente politica o ideologica?
R. Non dovrebbe, ma talvolta è un bene che succeda. Ben diverso è, ovviamente, il caso di scrittori servi, vassalli, puttane, cortigiani: essi non servono un’idea né un’ideologia ma solo la propria pancia.
D. E’ possibile, oggi, che un grande scrittore non venga mai scoperto e resti per sempre nell’ombra?
R. Certo! Rimando alla risposta seguente.
D. Può durare oltre la sua generazione la fama di un mediocre scrittore asceso agli allori per ragioni “promozionali”?
R. Eccome! Basta guardare le antologie scolastiche, le antologie di poesia Mondadori, Einaudi, Garzanti etc. di questi decenni, i tascabili…
La balla colossale che sovrintende a tutto questo è che “il tempo farà giustizia”, il che non è assolutamente vero siccome la situazione sociologica non lo permette e la gente se ne fotte. Mi permetto di citare un mio recente pensiero da un mio libro di aforismi e riflessioni: “Molti usano esibire una smodata fiducia nel tempo, nella giustizia divina o almeno nelle braccia dell’oblìo, e asseriscono che “il tempo farà giustizia”, quello pseudo-artista oggi tanto in voga si perderà ed inevitabilmente i grandi di oggi che nessuno considera emergeranno. Un’asserzione del genere, che non sia detta oziosamente, deve basarsi necessariamente (prendiamo il caso della letteratura) sull’opera degli studiosi e sul meccanismo delle antologie: ossia quanto più perfettamente la contraddice! Se ci si basa sulle antologie il valore di un autore sembra essere calcolabile un tanto a riga; se ci si basa sulla critica giornalistica il sensazionalismo è l’unico metro; se ci si basa sul severo studio letterario si nota subito che esso in gran parte è costituito da frustrate e frustranti interminabili autopsìe di scartafacci, versioni, manoscritti, traduzioni sempre dedicate ai soliti nomi. C’è poi da dire che uno sguardo anche veloce all’oggi non può permettere una tesi come quella da cui siamo partiti: i posteri siamo noi, allora, in questa società che dimentica e rende irreperibile in libreria un libro che abbia anche solo due o tre anni (i librai lo chiamano “stravecchio” ma non si sognerebbero di brindare con esso!); questa società che non possiede più i requisiti sociologici necessari alla coltivazione di un grande scrittore, e che a maggior ragione non sa e non saprà scoprire ciò che è già avvenuto. Ancora una volta la portata culturale delle discussioni o anche delle risse per un libro è sostituita dalla tenace corte dell’omertà”.
E non vale dire che molti hanno esordito con una certa faccia e si sono dovuti riciclare (ad esempio i “Cannibali” che si sono poi dati al cinema, al noir, al giallo, al romanzo sentimentale, etc.): se essi non fossero stati esaltati al tempo del loro mediocre esordio non si sarebbero potuti riciclare proprio in un bel niente e sarebbero scomparsi.
D. Quando metti la parola fine a una tua opera, hai la consapevolezza di quanto sei riuscito a dare o a non dare?
R. Devo dire di sì: mi capita sempre di trovare difetti che non avevo notato, ma mi capita anche di trovare pregi (ossia aderenze al mio essere) che ormai disperavo di essere riuscito ad infondere.
D. Hai mai provato il desiderio di rinnegare qualcosa che hai scritto?
R. Rinnegare forse no, ma certo vedo difetti ovunque… E’ una predisposizione psicologica, credo, comunque.
D. Leggere un’opera altrui che giudichi eccellente ti stimola o ti scoraggia?
R. Mi eccita, e mi induce subito a farla conoscere: questo penso sia l’essenza del fare critica letteraria, come cerco sempre di far capire nei miei interventi su questo argomento. Questo deve valere anche per le opere non eccellenti ma che si distinguono nell’attuale e desolante panorama letterario, e il critico deve renderne conto con obiettività e passione. Quanto al mio essere lettore – diciamo – edonista prima che critico, ci sono ovviamente moltissimi casi di libri che avrei voluto scrivere (da Borges a Manganelli, da Auster a Barnes, e moltissimi altri…) e che per un momento mi annichiliscono, ma poi è necessario tramutare il colpo in uno stimolo a meglio operare.
D. Hai già scritto l’opera che hai sempre voluto scrivere?
R. No, ma sento che libro dopo libro mi avvicino un poco a ciò che vorrei fare. A pensarci bene credo che uno scrittore possa ambire a mettere insieme negli anni un’opera (un corpus) come la desidera, non un singolo libro.
D. Prima, durante, dopo il parto letterario: cambi umore durante queste tre fasi della scrittura?
R. No. Siccome trovo deleterio che un autore si dedichi sempre allo scrivere sono lieto di scrivere nei ritagli di tempo, quando ne sento l’esigenza, mentre le contingenze non permettono per fortuna atteggiamenti da frustrate primedonne. Come ha scritto Auden nella poesia Musée des Beaux Arts gli antichi maestri molto bene facevano, come ad esempio Bruegel, a rappresentare Icaro che precipitava in mare da altezze vertiginose e contemporaneamente un contadino che continuava a zappare la terra indifferente al grido, e la nave che pur avendo visto la tragedia “aveva una meta da raggiungere e proseguiva calma la sua rotta”.
D. Cosa ami del mondo e del tempo in cui in vivi? Cosa detesti?
R. Odio quasi tutto, ma amo la possibilità di odiarlo. Odio l’incapacità generale di coltivare l’individualità, a favore dei due beceri opposti: l’individualismo e la massificazione.
D. Quale luogo comune, imperante nel nostro tempo, vorresti sfatare?
R. Quello secondo il quale gli artisti sono persone migliori delle altre. E quello secondo cui i versi non rendono: andare a dirlo agli editori-truffa (ossia quasi tutti!), o a quei poeti ormai canonici a cui non si fa altro che regalare generosissimi premi letterari.
D. Qual è il valore più importate che ritieni vada difeso o recuperato?
R. L’individualità di cui parlavo prima.
D. Dando un voto da 1 a 10, quanto sono della persona e quanto del “personaggio” le tue risposte in questa interSvista?
R. Appartengono 9 alla persona, siccome per il 10 sarebbe servito uno spazio enorme ma anche una voglia di parlare di me che ho sempre tenuto a bada, e 0 al personaggio, che non c’è: mi diverto troppo a vedere gli stupidi e i bigotti scandalizzati dalla sincerità per sentire l’esigenza di costruirmene uno!